LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. GORIAN Sergio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1236/2017 proposto da:
S.N., S.A. e S.S. (in proprio e nella qualità di eredi tutti di D.I.E. ed il solo S.N. anche di S.F.), rappresentati e difesi dall’Avvocato SAVERIO COSI, ed elettivamente domiciliati presso il suo studio, in ROMA, VIA CAIO MARIO 13;
– ricorrente –
contro
MINISTERO della GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, in Roma, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12, è legalmente domiciliato;
– controricorrente –
avverso il decreto n. 3616/2016 (decreto E.R. 1227/2016) della CORTE d’APPELLO di PERUGIA, pubblicato il 6/06/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 24/09/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTO E DIRITTO
Con ricorso ex lege n. 89/2001, depositato in data 16.5.2011, S.N., S.A. E S.S., in proprio e nella qualità di eredi di D.J.E. E S.N., anche quale erede di S.F., chiedevano alla Corte d’Appello di Perugia l’equa riparazione per la durata non ragionevole di un giudizio civile di esecuzione immobiliare, promosso con l’illegittima trascrizione di un pignoramento immobiliare dal 23.4.1998 al 23.2.2011.
Si costituiva in giudizio il MINISTERO della GIUSTIZIA contestando la domanda.
Con il decreto n. 304/2012 del 21.2.2013, la Corte d’Appello di Perugia dichiarava inammissibile la domanda sul presupposto che i ricorrenti avrebbero dovuto azionare un giudizio ex art. 117/1988, e non già il procedimento di cui alla L. n. 89 del 2001.
Avverso detta pronuncia i ricorrenti proponevano ricorso per cassazione, concluso con la sentenza n. 8534/2015, che annullava con rinvio la decisione impugnata.
I ricorrenti riassumevano il giudizio e si costituiva il Ministero della Giustizia, contestando la domanda e chiedendone il rigetto.
Con decreto n. 3616/2016 del 6.6.2016, la Corte d’Appello di Perugia, in parziale accoglimento del ricorso: condannava il Ministero di Giustizia a pagare, in favore dei ricorrenti, in proprio, la somma di Euro 2.750,00, per ciascuno, oltre agli interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo; condannava il Ministero di Giustizia a pagare, in favore di S.N., in qualità di erede di S.F. e in proporzione alla propria quota ereditaria, la somma di Euro 2.750,00, oltre agli interessi legali dalla domanda giudiziale al saldo; respingeva la domanda di equa riparazione proposta da S.N., A. e S. nella qualità di eredi di D.J.E.; condannava il Ministero della Giustizia alla rifusione delle spese di lite.
Avverso detto decreto propongono ricorso per cassazione S.N., S.A. e S.S., in proprio e n.q. di eredi di D.J.E. e S.N., anche quale erede di S.F., in base a due motivi.
1.1. – Pregiudizialmente all’esame dei quali, va peraltro ribadito quanto come già deciso nella ordinanza interlocutoria (Cass. n. 8051 del 2019) circa la non accoglibilità dell’istanza proposta dai ricorrenti (ai sensi dell’art. 51 c.p.c., n. 4) affinchè nel collegio decisionale non facciano parte consiglieri che abbiano già deciso la sentenza che ha cassato il precedente decreto della Corte d’appello di Perugia, inter partes (Cass. n. 8534 del 2015).
Le Sezioni Unite hanno, infatti, affermato che “qualora una sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi oggetto di nuovo ricorso per cessazione, il Collegio della Corte può essere composto anche con magistrati che hanno partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, in quanto ciò non determina alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice” (Cass. sez. un. 24148 del 2013). Non sussiste, infatti, la concreta possibilità che il giudice che abbia partecipato al precedente giudizio di legittimità sia meno libero di decidere o sia condizionato dalla volontà di “difendere” la precedente decisione di legittimità (Cass. n. 3980 del 2016).
1.2. – Va, inoltre, rilevato il perfezionamento della notifica del ricorso al controricorrente Ministero della Giustizia, conformemente a quanto disposto nella richiamata ordinanza interlocutoria n. 8534 del 2015.
2. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo alla L. n. 89 del 2001 e agli artt. 115 e 116 c.p.c.”, là dove la Corte d’appello ha respinto la domanda degli S., nella qualità di eredi della D.J., con la motivazione che non fosse stata fornita la prova della durata del giudizio riguardante la D.J. e della data del decesso della medesima. Tale motivazione sarebbe illegittima, in quanto il periodo oggetto di indennizzo, coltivato dalla D.J. e liquidabile in favore dei suoi eredi, non dipende esclusivamente dalla data del decesso della stessa, ma è rinvenibile negli atti processuali intrapresi dalla D.J. ed è identificabile fino al momento del compimento del primo atto processuale posto in essere dagli eredi, che in tale veste hanno proseguito il procedimento giudiziario. In particolare, il periodo indennizzabile in favore dei ricorrenti, quali eredi della de cuius, va calcolato dalla data, risultante dagli atti di causa, in cui il giudizio è stato iniziato dalla D.J. fino al compimento del primo atto processuale di prosecuzione dei suoi eredi.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – La Corte di merito ha rilevato che “nulla (era) dato sapere in ordine alla durata del giudizio che ha riguardato D.J.E., non essendo stata documentata nè dedotta la data del decesso di quest’ultima ed essendo tale elemento determinante al fine di stabilire se alla medesima sarebbe spettato o meno l’indennizzo per il superamento del termine triennale di durata ragionevole”; da ciò, correttamente, traendo la conseguenza che non può essere liquidato alcun indennizzo in favore degli odierni ricorrenti quali eredi della D.J..
Trattasi di valutazione di fatto delle risultanze istruttorie congrua e plausibile; e, come tale, sottratta al sindacato di legittimità. E’, infatti, consolidato principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione un fatto, la cui esistenza sia soggetta alla rilevata sussistenza o meno di prove a sostegno, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).
2.3. – Nè, in senso contrario, vale la ricostruzione opposta dai ricorrenti, secondo cui dalla documentazione prodotta in giudizio, ex artt. 115 e 116 c.p.c., sarebbe stato possibile determinare la fase processuale imputabile alla D.J. (marzo 1986-marzo 2001), mentre il periodo imputabile alla prosecuzione del giudizio da parte degli eredi, in proprio, si rinviene nello stesso decreto impugnato, ove si indica il periodo dal 22.1.2003 al 22.9.2009.
Tale ricostruzione soffre di una evidente carenza di autosufficienza (da ultimo, Cass. n. 192 del 2018), che viene a ledere il principio secondo il quale il controllo di legittimità deve essere consentito a questa Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, con riferimento alle parti oggetto di doglianza (nella specie, peraltro, riferita specificamente ed esclusivamente ad un vizio in iudicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), senza la necessità di indagini integrative (Cass. n. 2093 del 2016; cfr., tra le molte, Cass. n. 14784 del 2015; n. 12029 del 2014; n. 8569 del 2013; n. 4220 del 2012).
3. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la “Violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, con riguardo agli artt. 112,115 e 116 c.p.c. – art. 2697 c.c., L. n. 89 del 2001”, in quanto la Corte di merito non solo avrebbe omesso di pronunciarsi sulla domanda in spregio degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., ma avrebbe errato nel detrarre dal computo della durata complessiva del giudizio l’arco processuale relativo alla proposizione del ricorso ex art. 111 Cost., innanzi alla Suprema Corte, cha va dal deposito dell’ordinanza di estinzione della procedura esecutiva alla data di deposito della sentenza Cass. n. 4441 del 2011.
3.1. – Il motivo non è fondato.
3.2. – Correttamente, la Corte di merito (a prescindere dalla configurabilità di intento dilatorio o negligentemente inerte dei ricorrenti) non ha addebitato all’amministrazione della giustizia il lasso di tempo di stasi processuale, nel quale nessun giudice è incaricato della trattazione del processo (Cass. n. 26833 del 2016). Osserva questa Corte che la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quater, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012 – secondo cui, ai fini del computo del termine ragionevole di durata, “non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso e di quello intercorso tra il giorno in cui inizia a decorrere il termine per proporre l’impugnazione e la proposizione della stessa” – pur se destinato ad essere applicato ai giudizi introdotti successivamente all’11 settembre 2012, esprime un chiaro elemento interpretativo della ratio della legge sull’equa riparazione, da ritenersi operante, in assenza di una previsione legislativa di segno contrario, anche per i processi instaurati anteriormente alla sua entrata in vigore.
4. – Il ricorso va, dunque, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Non va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 1.000,00, oltre a spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, non sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 24 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2019
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