Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.32143 del 10/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 6217/2018 R.G. proposto da:

Policlinico di Monza Casa di Cura Privata S.p.A., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Daniele Raiteri, Vincenzo Lamastra ed Ezio Spaziani Testa, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Mazzini, n. 146;

– ricorrente –

contro

R.V., e R.F.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 5239/2017 depositata il 14 dicembre 2017;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 novembre 2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello;

udito l’Avvocato Ezio Spaziani Testa;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso chiedendo il rigetto.

FATTI DI CAUSA

1. R.V., in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sul minore R.F., convenne in giudizio davanti al Tribunale di Milano il Policlinico di Monza Casa di Cura Privata S.p.A. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti in conseguenza della morte della congiunta Ru.Ma. (rispettivamente convivente more uxorio del primo e madre del secondo), verificatasi nel pomeriggio dell'***** per gli esiti di intervento laparoscopico di by-pass gastrico presso il Policlinico di *****, cui la donna si era sottoposta il *****, per la cura dell’obesità, seguito da tre altri interventi d’urgenza operati per far fronte alle complicanze manifestatesi.

Instaurato il contraddittorio ed espletata c.t.u., il Tribunale, con sentenza del 2/9/2016, dichiarò la responsabilità della struttura sanitaria e, in parziale accoglimento della domanda, la condannò al risarcimento del danno non patrimoniale liquidandolo, per ciascuno dei danneggiati, nella somma di Euro 213.555,00 oltre interessi.

2. In parziale accoglimento del gravame interposto dalla casa di cura, la Corte d’appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, ha rideterminato in Euro 150.000 l’importo dovuto a ciascuno degli attori per la suddetta causale, confermando la decisione di primo grado quanto all’an della dedotta responsabilità della struttura sanitaria.

Sulla scorta della espletata c.t.u. ha infatti ritenuto, conformemente al primo giudice, che le complicanze che avevano condotto a morte la paziente fossero, in parte, incolpevoli (deiscenza anastomotica e ischemia dell’ansa intestinale), in parte colpevoli (polmonite da ab ingestis massivo); causa quest’ultima correlabile ad una “condotta anestesiologica non irreprensibile”, ovvero all’esecuzione, in maniera inadeguata, nel corso del primo intervento d’urgenza effettuato la notte del *****, dell’intubazione della paziente in sala operatoria.

Secondo i consulenti infatti “al momento dell’induzione (dell’anestesia) per un incompleto svuotamento della tasca gastrica e dell’ansa intestinale ad essa anastomizzata si ebbe un incontrollato episodio di vomito copioso che inondò l’albero bronchiale”, ciò in quanto l’anestesista “probabilmente prima dell’induzione dell’anestesia, non provvide ad aspirare dal sondino nasogastrico i secreti presenti…” (si osserva che la paziente, alla visita del mattino dell'*****, presentava un ristagno gastrico di 130 ml).

Nel ribadire l’attendibilità e la decisività di tale valutazione la Corte territoriale ha preliminarmente preso in esame, rigettandoli, i motivi di gravame con i quali la società appellante aveva, nell’ordine, lamentato:

– vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado dal momento che i fatti specifici qualificati dal c.t.u. come colpevoli inadempimenti (ossia la detta errata manovra dell’anestesista e il conseguente episodio di ab ingestis) erano estranei alle domande di parte attrice ed ai fatti in contestazione;

– la mancata rimessione in istruttoria della causa, dalla società richiesta in comparsa conclusionale, onde consentire la produzione della relazione di c.t.u. nelle more depositata, in altro giudizio risarcitorio promosso, per i medesimi fatti, da altri congiunti della paziente deceduta, la quale rassegnava conclusioni diametralmente opposte, in essa ritenendosi che la polmonite ab ingestis fosse complicanza incolpevole e causalmente non determinante dell’evento.

Quanto alla prima doglianza la Corte milanese ha infatti rilevato che “il profilo di colpa medica oggetto di contestazione… risulta allegato dagli… appellati sin dall’atto di citazione”, attraverso il richiamo delle valutazioni espresse sul punto dall’anatomopatologo Dott. D..

Con riferimento alla seconda ha poi rilevato che non vi era alcun obbligo per il decidente, una volta passata la causa alla fase decisoria, di rimetterla in istruttoria onde consentire una nuova produzione, nè di esaminare eventuali sollecitazioni al riguardo degli interessati, non essendo consentito alle parti rivolgere istanza dopo l’indicato momento. Ha peraltro soggiunto che, come già rilevato dal primo giudice, sull’asserita decisività dell’acquisizione era legittimo avanzare “serie perplessità”, dal momento che anche la c.t.u. invocata dalla società a proprio favore, aveva evidenziato “plurimi profili di censura della condotta medica”.

3. Avverso tale decisione la società Policlinico di Monza Casa di Cura Privata S.p.A. propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

Gli intimati non svolgono difese nella presente sede.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza o del procedimento per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. (in relazione ai principi di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, non contestazione dei fatti e disponibilità delle prove).

Sostiene che, diversamente da quanto affermato in sentenza, l’unico fatto/inadempimento addebitato dalla c.t.u. ai sanitari del Policlinico (errata manovra dell’anestesista che avrebbe cagionato l’ab ingestis, ritenuta concausa determinante del decesso) non poteva ritenersi ricompreso tra i numerosi ed articolati inadempimenti qualificati contestati in causa dagli attori alla convenuta e, per tale ragione, non avrebbe potuto costituire oggetto di accertamento, prova e condanna in giudizio.

Rileva al riguardo che il detto episodio è bensì menzionato negli atti e nelle consulenze tecniche quale elemento concausale del decesso ma mai quale evento colpevole. Rimarca in tal senso che nella memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, parte attrice aveva rilevato che la sofferenza polmonare della paziente era già in itinere nei giorni immediatamente successivi al primo intervento del ***** e che analoghe indicazioni emergevano dalla consulenza tecnica di parte.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione alla medesima doglianza, anche violazione e/o falsa applicazione art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Argomenta al riguardo che la mancata allegazione da parte dell’attore-danneggiato dell’inadempimento qualificato costituito dalla asserita erronea manovra di intubazione dell’anestesista, dispensava la convenuta asseritamente responsabile dall’onere di provare la correttezza di tale manovra e, comunque, l’assenza di colpa medica inerente alla stessa.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2, con riferimento agli artt. 275 e 276 c.p.c., ed alla violazione diritto di difesa (art. 111 Cost.).

Lamenta che la Corte d’appello, confermando la sentenza di primo grado, ha negato la rimessione in istruttoria della causa al fine di consentire la produzione documentale tardiva richiesta (ossia della c.t.u. sui medesimi fatti depositata in separato giudizio che nega la sussistenza dell’inadempimento posto a fondamento della statuizione di condanna), erroneamente adducendo che il decorso del termine ex art. 275 c.p.c., per la rimessione della causa in decisione sarebbe preclusivo dell’accoglimento dell’istanza di rimessione in termini.

Sostiene al riguardo che tale effetto preclusivo deve in realtà essere escluso in ragione della portata generale dell’art. 153 c.p.c., letto alla luce dei principi costituzionali di effettività del contraddittorio e delle garanzie difensive ex art. 111 Cost..

Contesta poi le “perplessità” avanzate in sentenza sulla decisività dell’acquisizione, evidenziando che le due c.t.u. espongono tesi esattamente contraria: la prima in particolare (quella cioè di cui si chiedeva l’acquisizione) affermando la colpa del chirurgo per determinate inadempienze e l’irrilevanza e incolpevolezza dell’ab ingestis; l’altra (quella espletata nel corso della presente causa) negando al contrario la colpa del chirurgo e affermando l’errata manovra determinante dell’anestesista; contrapposte conclusioni che, sostiene, ne annullano vicendevolmente l’attendibilità scientifica e l’affidabilità come valido supporto tecnico decisionale.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza o del procedimento per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3 e art. 356 c.p.c., anche per violazione art. 132 c.p.c., n. 4, con riferimento alla violazione del diritto di difesa”.

Lamenta che la Corte d’Appello ha errato nel non ammettere la produzione documentale (c.t.u. resa nel separato giudizio) ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2, o, comunque, nel non disporre la rinnovazione della C.T.U., come richiesto, ai sensi dell’art. 356 c.p.c., con ciò incorrendo anche nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, per non avere motivato il rigetto di tali richieste.

5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e/o quale motivo di nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – violazione e/o falsa applicazione del D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, n. 5, convertito dalla L. 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. legge Balduzzi), nella parte in cui impone al giudice di garantire la presenza nel collegio peritale, oltre al medico-legale, di esperti della disciplina specialistica dell’area sanitaria interessata nel procedimento.

Rileva infatti che tra i periti nominati dal Tribunale mancava un esperto munito di specializzazione in anestesiologia e/o pneumologia.

Osserva che l’istanza di nomina di uno specialista in tali materie era stata in primo grado tempestivamente proposta all’udienza del 10/12/2014 fissata per l’esame della relazione di c.t.u. e reiterata in comparsa conclusionale, ma era stata del primo giudice disattesa sul rilievo, secondo la ricorrente non corrispondente alle ragioni esposte, secondo cui non erano indicate le ragioni in forza delle quali le considerazioni dei periti d’ufficio non potrebbero ritenersi attendibili; la questione era stata poi riproposta in appello, di ciò dandosi atto anche nella sentenza, senza che però questa poi motivi le ragioni per cui la carenza di competenze specialistiche nelle dette materie in capo ai consulenti tecnici d’ufficio sia stata di fatto ritenuta irrilevante.

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in tesi per l’appunto rappresentato dalla suindicata c.t.u. resa, sui medesimi fatti, nel separato giudizio, decisiva in quanto smentisce radicalmente le conclusioni raggiunte dalla c.t.u. di causa.

7. Il primo motivo è infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica (o dell’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (fra le tante Cass. 09/10/2012, n. 17143; 20/10/2015, n. 21177; 26/07/2017, n. 18392; 11/11/2019, nn. 28991-28992).

L’imputabilità del fattore causale a colpa dei sanitari non rientra tra gli oneri probatori gravanti sulla parte attrice.

A tali oneri probatori vanno naturalmente rapportati anche quelli preliminari di allegazione.

Ne discende che è da escludere che l’onere di allegazione gravante su parte attrice debba estendersi al profilo soggettivo della colpa e che cioè parte attrice, oltre a dedurre che gli esiti dannosi siano conseguenza dell’esecuzione dell’attività medico-chirurgica nel suo complesso e nelle sue singole fasi, debba anche specificamente argomentare sul carattere imperito o negligente o imprudente della prestazione.

Questa Corte peraltro, in fattispecie nella quale era posta questione analoga, ha già affermato il principio, cui qui si intende dare continuità, secondo cui in tema di responsabilità sanitaria, qualora sia proposta una domanda risarcitoria nei confronti di una struttura ospedaliera e di un suo ausiliario allegando la colpa esclusiva di quest’ultimo, il giudice non è rigidamente vincolato alle iniziali prospettazioni dell’attore, stante la inesigibilità della individuazione ex ante di specifici elementi tecnico-scientifici, di norma acquisibili solo all’esito dell’istruttoria e dell’espletamento di una c.t.u., potendo pertanto accogliere la domanda nei confronti della struttura in base al concreto riscontro di profili di responsabilità diversi da quelli in origine ipotizzati, senza violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. (Cass. 20/03/2018, n. 6850).

Nè può dirsi che nella specie parte attrice abbia addirittura essa stessa escluso la colpa dei sanitari con riferimento alla specifica prestazione anestesiologia, dagli stralci dei menzionati atti di parte rilevandosi soltanto una più marcata attenzione ad altri momenti e aspetti della prestazione.

8. E’ manifestamente infondato il secondo motivo.

La censura di violazione della regola sull’onere della prova non è dedotta nei termini in cui può esserlo secondo Cass. Sez. U. 05/08/2016, n. 16598 (principio affermato in motivazione, pag. 33, p. 14, secondo cui “la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, ciòè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni”; v. anche Cass. n. 23594 del 2017, cit.; Cass. 17/06/2013, n. 15107).

La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del criterio di riparto dell’onere probatorio in materia che, come detto, vede la struttura sanitaria, per la natura contrattuale del rapporto che la lega alla paziente, tenuta a dar prova di avere diligentemente eseguito la prestazione ovvero della imputabilità dell’esito infausto ad evento imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza.

Per quanto sopra detto è certamente da escludere che la mancata specifica argomentazione di parte attrice sui profili di colpa ravvisabili nell’esecuzione della prestazione anestesiologica potesse di per sè valere a sollevare la debitrice di tale onere.

9. Il terzo motivo è inammissibile.

La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio più volte affermato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui nessun obbligo sussiste per il giudice, dopo il passaggio della causa in decisione, di rimetterla sul ruolo onde permettere una nuova produzione, nè lo stesso è tenuto ad esaminare eventuali sollecitazioni al riguardo dell’interessato, non essendo consentito alle parti di rivolgere istanze dopo l’indicato momento (Cass. 27/05/2013, n. 13163; 05/10/1992, n. 10925).

La doglianza, peraltro, riguardata nella prospettiva del giudice d’appello, quand’anche fosse stata ritenuta fondata, non avrebbe potuto comunque condurre alla rimessione della causa in primo grado (trattandosi di ipotesi certamente estranea a quelle previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c.) ma si risolveva solo nella sollecitazione all’ammissione della prova documentale nel giudizio di appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, in quanto non potuta produrre in primo grado per causa non imputabile.

10. Sotto tale profilo la censura si sovrappone a quella dedotta con il quarto motivo, con il quale per l’appunto si contesta la mancata ammissione in appello del menzionato documento o, comunque, la mancata rinnovazione della c.t.u..

Anche tale doglianza però deve ritenersi infondata.

Questa Corte ha più volte evidenziato che la mera produzione di un documento in appello non comporta automaticamente il dovere del giudice di esaminarlo; l’onere di allegazione delle ragioni di doglianza sotteso al principio di specificità dei motivi di appello, richiede infatti che alla produzione si accompagni la necessaria attività di allegazione diretta ad evidenziare il contenuto del documento ed il suo significato, ai fini dell’integrazione della ingiustizia della sentenza impugnata (Cass. 07/04/2009, n. 8377; 29/01/2019, n. 2461).

L’ammissione di nuovi documenti in appello, pur nella ricorrenza del presupposto della impossibilità della sua produzione in primo grado, per causa non imputabile, non è dunque automatica ma presuppone pur sempre una valutazione di rilevanza: valutazione che, nella specie, il giudice d’appello mostra di aver fatto, là dove ha rimarcato l’esistenza di “serie perplessità” sulla decisività dell’acquisizione, considerato che anche la relazione di consulenza resa nel separato giudizio aveva comunque evidenziato “plurimi profili di censura della condotta medica”.

Da qui anche la palese infondatezza della censura di mancanza di motivazione ex art. 132 c.p.c., n. 4, la quale comunque non è certamente configurabile in relazione a mere richieste istruttorie o argomenti difensivi, il cui rigetto è eventualmente sindacabile solo sul piano della motivazione e nei ristretti limiti in cui un tale sindacato è ammesso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

11. Il quinto motivo è infondato.

Il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, comma 5, nel testo modificato dalla Legge di Conversione 8 novembre 2012, n. 189, prevede (soltanto) che “gli albi dei consulenti tecnici d’ufficio di cui al R.D. 18 dicembre 1941, n. 1368, art. 13, recante disposizioni di attuazione del c.p.c., devono essere aggiornati con cadenza almeno quinquennale, al fine di garantire, oltre a quella medico legale, una idonea e qualificata rappresentanza di esperti delle discipline specialistiche dell’area sanitaria, anche con il coinvolgimento delle società scientifiche tra i quali scegliere per la nomina tenendo conto della disciplina interessata nel procedimento”.

Non si ricava dalla disposizione nessuna norma procedimentale vincolante ai fini della nomina di c.t.u. nei giudizi pendenti di responsabilità medica (come è invece la L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 15, comma 4, non applicabile però alla fattispecie poichè entrata in vigore solo nella pendenza del giudizio di appello).

Va rammentato peraltro – in via preliminare e assorbente – che, come questa Corte ha ripetutamente chiarito, l’eventuale nullità della consulenza tecnica è soggetta al regime di cui all’art. 157 c.p.c., avendo carattere relativo, con la conseguenza che il difetto deve ritenersi sanato se non è fatto valere nella prima istanza o difesa successiva al deposito della relazione del consulente (cfr.: Cass. 21/08/2018, n. 20829; 15/06/2018, n. 15747; 31/01/2013, n. 2251; 15/04/2002, n. 5422; 14/08/1999, n. 8659; 24/06/1984, n. 3743).

12. Il sesto motivo è inammissibile.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (tra le molte, Cass., S.U., n. 8053/2014).

Nella specie, le censure mancano di evidenziare un “fatto storico” e decisivo, il cui esame sia stato omesso, poichè non può ricondursi, di per sè, alla nozione di “fatto storico” (principale o secondario) la “consulenza tecnica d’ufficio” in quanto tale. Giova, infatti, precisare che il “fatto storico” di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, è accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti e di attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare la diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c.. La c.t.u., quindi, è, come tale, un atto processuale, che svolge funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), assurge a fonte di prova dell’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente).

Sicchè, la c.t.u. costituisce l’elemento istruttorio (il “dato”, secondo la citata Cass., S.U., n. 8053/2014) da cui è possibile trarre (non già i meri apprezzamenti e le valutazioni tecniche, ma) il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente, il cui esame il giudice del merito abbia omesso e che la parte è tenuta ad indicare specificamente. E’, pertanto, evidente che, avendo la Corte territoriale espresso il proprio convincimento adesivo alle risultanze della c.t.u. espletata in corso di causa, riportate in modo articolato nella stessa sentenza, e non avendo la società ricorrente evidenziato quale “fatto storico”, decisivo, essa abbia omesso di esaminare, la doglianza che lamenta una omessa e/o insufficiente motivazione circa le ragioni per cui il giudice di appello ha ritenuto di superare le contestazioni alla c.t.u. (ancorchè mediate dal richiamo alla relazione di c.t.u. resa in separato giudizio, a sua volta contenente mere valutazioni tecniche, non indicazioni di fatti storici non esaminati) si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma di cui all’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ma semmai evocante quello della previgente disposizione processuale.

In punto di (non) decisività del dato, peraltro, valgano le assorbenti considerazioni già sopra espresse al p. 10 della presente sentenza.

13. Per le considerazioni che precedono deve in definitiva pervenirsi al rigetto del ricorso.

Non avendo gli intimati svolto difese nella presente sede, non v’è luogo a provvedere sul regolamento delle spese.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2019

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