Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.32383 del 11/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19121-2017 proposto da:

TELECOM ITALIA S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, ENZO MORRICO;

– ricorrente –

contro

D.M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 209, presso lo studio dell’avvocato LUCA SILVESTRI, rappresentato e difeso dall’avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1310/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 03/03/2017 R.G.N. 4888/2014.

RILEVATO

CHE:

Il Tribunale di Napoli – con sentenza passata in giudicato – dichiarava l’inefficacia della cessione da Telecom Italia S.p.A. a T.N.T. Logistic Italia s.p.a. (ora Ceva Logistic s.r.l.) del ramo d’azienda cui era addetto D.M.M. e condannava la società cedente a ripristinarne il rapporto di lavoro. Telecom Italia S.p.A. non ottemperava all’ordine di ripristinare il rapporto ed il lavoratore continuava a svolgere le proprie prestazioni in favore della società cessionaria sino al 31/1/2012, data in cui era stata da quest’ultima licenziato.

Sulla scorta di tali premesse, il D.M. chiedeva ed otteneva dal Tribunale della stessa sede la condanna di Telecom Italia s.p.a. al pagamento della somma di Euro 1.032,91 a titolo di 14 mensilità per l’anno 2012.

La Corte distrettuale adita dalla società soccombente, con sentenza resa pubblica il 3/3/2017, in parziale riforma della sentenza impugnata, la condannava al pagamento della minor somma di Euro 946,88.

Nel pervenire a tali conclusioni il giudice del gravame osservava che a seguito della sentenza con cui viene dichiarata l’illegittimità del trasferimento d’azienda con i connessi rapporti di lavoro, questi devono intendersi ricostituiti ex tunc alle dipendenze del cedente e “le erogazioni ipotizzabili in capo alla Telecom per effetto della ritenuta nullità della cessione del contratto di lavoro” vanno qualificate in termini risarcitori e non retributivi. Dopo aver rilevato che nella specie il rapporto di lavoro con la società cessionaria si era risolto a seguito del recesso intimato il 31/1/2012, ha sostenuto che le relative vicende, attinenti allo svolgimento di un rapporto di lavoro di fatto, non erano idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con la società cedente.

Telecom Italia s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza, affidato a due motivi. L’intimato ha resistito con controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1406 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si sostiene che in data 13/2/2014 sarebbe intervenuto un verbale. di conciliazione fra la Ceva Logistic e il D.M., in base al quale questi avrebbe ricevuto il pagamento di un ingente importo a titolo di incentivo all’esodo, accettando il licenziamento in precedenza intimato dalla società.

Ci si duole che la Corte di merito abbia erroneamente ritenuto sussistenti all’esito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo di azienda – due rapporti di lavoro distinti, uno con il cessionario che aveva utilizzato di fatto le prestazionè del lavoratore ed uno con il cedente, vero datore di lavoro per effetto della sentenza che aveva accertato l’illegittima applicazione dell’art. 2112 c.c.. Il rapporto con il cessionario non costituiva, dunque, un nuovo rapporto di lavoro, bensì era il medesimo rapporto intercorso con Telecom che era proseguito di fatto con un diverso soggetto, mantenendo inalterati tutti i suoi elementi oggettivi.

In tale prospettiva, il diritto al risarcimento del danno doveva ritenersi insussistente qualora, come nella specie, il medesimo lavoratore avesse accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, sottoscrivendo un verbale di conciliazione con la società cessionaria.

2. Come secondo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1223,1256,1453 e 1463 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si ribadisce che il diritto alla retribuzione è collegato allo svolgimento della prestazione, mentre, nell’ipotesi in cui questa non venga richiesta e resa, il lavoratore ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno, con detrazione dell’aliunde perceptum. Nell’ottica descritta si rimarca come la Corte non abbia tenuto conto della percezione, da parte del lavoratore, di una somma a titolo di incentivo all’esodo e della circostanza che fosse stato il lavoratore medesimo a rinunciare alle retribuzioni dovute dal cessionario.

3. I motivi, esaminabili congiuntamente per connessione, sono inammissibili.

Essi si basano, in buona sostanza, sul presupposto della intervenuta conciliazione fra il lavoratore e la società cessionaria, in ordine alla risoluzione dell’unico rapporto di lavoro intercorrente con Telecom s.p.a. e proseguito di fatto con Ceva Logistic s.r.l..

A questa prospettazione fa riscontro la giurisprudenza di questa Corte richiamata da parte ricorrente, secondo cui “la nullità della cessione di ramo d’azienda produce il diritto al risarcimento del danno a favore del lavoratore che, nonostante la dichiarazione giudiziale di nullità, non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell’impresa cedente. Questo, diritto tuttavia non sussiste qualora lo stesso lavoratore abbia accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest’ultima un verbale di messa in mobilità” (vedi Cass. 2/4/2015 n. 6755).

4. Osserva, tuttavia, questa Corte che tale orientamento – anche al di là di ogni considerazione in ordine alla evoluzione delle linee giurisprudenziali sulla delibata questione, segnata da Cass. 28/2/2019 n. 5998, Cass. S.U. Cass. S.U. 7/2/2018 n. 2990) – non appare utilmente invocato da parte ricorrente, in assenza di alcun riferimento ad esso contenuto nella sentenza impugnata, e considerato l’evidente difetto di specificità del ricorso che non reca la riproduzione del tenore del verbale di conciliazione, così come della relativa produzione, in violazione dei dettami di cui agli artt. 366 e 369 c.p.c..

Ed invero, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (cfr. Cass. 22/4/2016 n. 8206Cass. 18/10/2013 n. 23675).

In proposito va rimarcato che l’onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), qualunque sia il tipo di errore (“in procedendo” o “in iudicando”) per cui è proposto, non può essere assolto “per relationem” con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sè, tutti gli elementi che diano ai giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (vedi ex aliis, Cass. 31/5/2011 n. 11984). E’ orientamento costante (confronta, tra le altre, Cass. Sez. Un. 2/12/2008 n. 28547, Cass. 14/3/2013 n. 6556) che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 6, oltre a richiedere la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità. In altri termini, il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile. Nello specifico la società non ha ottemperato ad alcuno degli oneri sulla medesima gravanti, non avendo chiarito tempi e modi di trattazione della questione nel corso del giudizio di merito, nè riportato il testo della prospettata transazione intervenuta fra le parti, indicando in quale parte del fascicolo lo stesso sarebbe rinvenibile.

5. L’evidenza di tali carenze si impone anche in relazione al secondo motivo di ricorso che postula – laddove si chiede di dare atto della percezione di somme a titolo di incentivo all’esodo e della rinuncia alle retribuzioni dovute dal cessionario – l’accertamento dei contenuti del verbale di conciliazione che si assume intervenuto fra le parti. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo, con distrazione in favore dell’avv. Luca Silvestri. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 5 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2019

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