Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.33362 del 17/12/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 9594/18 proposto da:

-) V.N., elettivamente domiciliato a Senigallia, via Marchetti n. 46, presso l’avv. Ruggero Tomasi, che lo rappresenta e difende per procura apposta in margine al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona;

– intimata –

avverso il decreto della Corte d’appello di Ancona 16 febbraio 2018 n. 70;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 ottobre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

FATTI DI CAUSA

1. V.N., cittadino ucraino irregolarmente soggiornante in Italia, chiese al Tribunale per i minorenni di Ancona il permesso di soggiorno temporaneo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3.

Dedusse di risiedere in Italia da quindici anni; di convivere con una connazionale regolarmente soggiornante e di avere da lei avuto un figlio nel *****; aggiunse che il nucleo familiare era composto anche dall’altro figlio unilaterale della compagna, cittadino italiano; che il suo allontanamento dall’Italia avrebbe recato grave nocumento al figlio proprio ed a quello della compagna: sia a causa del trauma che il distacco avrebbe causato; sia perchè i minori non avrebbero potuto accompagnare il padre in Ucraina, risiedendo questi in una zona (la città di *****) attualmente teatro di guerra.

2. Il Tribunale per i minorenni di Ancona con decreto n. 224 del 2017 rigettò la domanda.

La Corte d’appello di Ancona con decreto 16.2.2018 rigettò il reclamo proposto da V.N., osservando che:

-) il figlio del ricorrente, nato nel *****, non poteva dirsi “radicato” in Italia;

-) non vi era prova di un “particolare rapporto affettivo” tra il ricorrente e il figlio;

-) non vi era prova che l’allontanamento del genitore avrebbe causato un grave pregiudizio al figlio;

-) il ricorrente, già condannato per fatti connessi al traffico di stupefacenti nel *****, era stato nuovamente arrestato nel *****;

-) il diritto all’unità del nucleo familiare non è assoluto e prevalente sul principio di legalità ed all’obbligo dello Stato di controllo dell’immigrazione irregolare.

3. Avverso il suddetto decreto ricorre per cassazione V.N. con ricorso fondato su due motivi.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 19 e 31, nonchè degli artt. 9 e ss. della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, e dell’art. 8 CEDU.

Deduce che il suo distacco dal figlio provocherebbe a quest’ultimo un danno grave, e ciò costituisce un “grave motivo”, di per sè idoneo a legittimare la concessione del permesso temporaneo D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31.

1.2. Il motivo è inammissibile perchè censura un tipico apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità.

Infatti le doglianze formulate dal ricorrente col primo motivo di ricorso si riducono a ben vedere a ciò: che espellere dal territorio nazionale il padre di un minore costituirebbe per quest’ultimo, sempre e comunque, un danno grave od almeno il pericolo di un danno grave: tanto in atto, quanto in potenza negli anni a venire.

Ma lo stabilire se nel caso di specie ricorrano o non ricorrano i “gravi motivi” richiesti dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31 per accordare il permesso di soggiorno “in deroga” ivi previsto, è un tipico apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito.

Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 3, comma 3, stabilisce infatti che lo speciale permesso di soggiorno ivi previsto possa essere concesso:

(a) per “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico”;

(b) tenuto conto “dell’età e delle condizioni di salute del minore”.

Dunque i “gravi motivi” sono la causa o presupposto legittimante il rilascio del permesso di soggiorno; mentre l’età e le condizioni di salute del minore sono i parametri di giudizio per valutare se quella causa sussista oppure no.

Questo essendo il contenuto precettivo della norma, sarà certamente sindacabile in cassazione la sentenza di merito che, nel formulare il suo giudizio, non abbia tenuto conto dell’età o delle condizioni di salute del minore.

Non sarà, invece, sindacabile in sede di legittimità (salvi i casi limite della motivazione apparente, insanabilmente contraddittoria o mancante: in tal senso, Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014) la sentenza di merito che, dopo aver preso in esame l’età e le condizioni di salute del minore, ritenga che l’una e le altre non integrino i “gravi motivi” richiesti dalla legge per il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo.

In tale ipotesi, infatti, il giudice di merito ha rispettato la legge, tenendo conto dell’età e della salute del minore. Lo stabilire, poi, se ne abbia tenuto conto bene o male è una valutazione di merito, avente ad oggetto un apprezzamento di fatto, e non una valutazione di diritto.

1.3. Tale conclusione è l’unica consentita non solo dall’interpretazione letterale della norma, ma anche da quella sistematica.

L’espressione “gravi motivi”, infatti, compare in molte norme di legge, nell’interpretare le quali questa Corte ha ripetutamente ritenuto insindacabile in sede di legittimità la valutazione con cui il giudice di merito li ha ritenuto sussistenti od insussistenti. A mero titolo d’esempio, la locuzione “gravi motivi” è utilizzata dalla legge al fine di consentire od imporre:

1) la sospensione delle delibere delle associazioni (art. 23 c.c.);

2) l’esclusione degli associati dall’associazione (art. 24 c.c.);

3) l’ammissione al matrimonio dell’infrasedicenne (art. 84 c.c.);

4) la riduzione del termine delle pubblicazioni matrimoniali (art. 100 c.c.);

5) la celebrazione del matrimonio per procura (art. 111 c.c.);

6) l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare (art. 330 c.c.);

7) la proroga ultrannuale degli ordini di protezione (art. 342 ter c.c.);

8) la scelta di un tutore diverso da quello designato per testamento (art. 348 c.c.);

9) la scelta di un amministratore di sostegno diverso da quello indicato dall’interessato (art. 408 c.c.);

10) la sospensione della condanna pronunciata sulla base di una clausola solve et repete (art. 1462 c.c.);

11) il recesso del conduttore dal contratto di locazione (L. n. 392 del 1978, art. 4);

12) la sostituzione del c.t.u. (art. 196 c.p.c.);

13) la revoca della decadenza dalla prova pronunciata a carico della parte non comparsa (art. 208 c.p.c., comma 3, nel testo previgente alle modifiche introdotte dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 26);

14) autorizzare la modifica delle domande nel rito del lavoro (art. 420 c.p.c.);

15) la sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado nel rito del lavoro (art. 431 c.p.c.);

16) la sospensione delle operazioni di vendita forzata ex art. 534 ter c.p.c..

Ebbene, la giurisprudenza formatasi su tutte le norme che precedono è stata sempre costante nell’affermare che la sussistenza dei “gravi motivi” è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità. In tal senso, ex permultis, con riferimento alle più varie fattispecie in cui la legge richiedeva la sussistenza di “gravi motivi”, si vedano Sez. 3, Sentenza n. 13909 del 24/09/2002, Rv.557560- 01; Sez. 1, Sentenza n. 7865 del 09/06/2000, Rv. 537436 – 01; Sez. L, Sentenza n. 4148 del 16/07/1984, Rv. 436100- 01; Sez. 2, Sentenza n. 1822 del 11/03/1983, Rv. 426663 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4094 del 09/09/1978, Rv. 393710 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 3387 del 22/11/1971, Rv. 354941 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 369 del 04/03/1965, Rv. 310627 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 974 del 20/04/1963, Rv. 261377 – 01.

1.4. I rilievi che precedono impongono di concludere che:

a) è sindacabile in sede di legittimità la pronuncia che, nel decidere sulla domanda di rilascio del permesso di soggiorno speciale ai sensi D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3, abbia totalmente trascurato di considerare le condizioni di salute o l’età del minore;

b) è insindacabile in sede di legittimità la pronuncia che, nel decidere la suddetta domanda, abbia preso in considerazione la salute o l’età del minore, per trarne però conclusioni contestate dal ricorrente;

c) è del pari insindacabile in sede di legittimità la pronuncia con la quale il giudice di merito, nel decidere la suddetta domanda, abbia negato od affermato la sussistenza dei “gravi motivi” di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, (salvi, ovviamente, i casi di motivazione così contraddittoria o incomprensibile, da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” che qualsiasi motivazione di qualsiasi provvedimento giurisdizionale deve garantire, secondo quanto stabilito dalla già ricordata decisione delle Sezioni Unite di questa Corte, n. 8053 del 2014).

1.5. Il primo motivo di ricorso, lo si rileva comunque ad abundantiam, sarebbe altresì infondato nel merito, ove del merito si volesse discorrere.

Al di là, infatti, delle questioni di fatto non prospettabili in questa sede, quel che rileva in iure è che la difesa del ricorrente mostra di ritenere che il solo fatto che il minore, in conseguenza dell’espulsione di uno dei genitori, sia di per sè esposto ad un danno grave, e che ciò di per sè, giustificherebbe il rilascio del permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31, comma 3.

Questa tesi non può essere condivisa, per plurime ragioni.

1.5.1. In primo luogo, questa tesi non può essere condivisa per il paradosso cui condurrebbe.

Infatti qualsiasi espulsione di persona che abbia dei figli può provocare il distacco dell’espulso da questi ultimi, se decidesse di non portare con sè la prole. Di conseguenza, ritenere che il distacco da un genitore costituisca di per sè un “grave motivo” che, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, giustifichi il rilascio del permesso temporaneo ivi previsto, sarebbe un’interpretazione contraria alla logica formale, prima ancora che al diritto.

Sarebbe contraria alla logica, perchè la lettura che del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, dà il ricorrente condurrebbe ad un risultato paradossale, e cioè l’abrogazione de facto della norma, nella parte in cui stabilisce che il permesso ivi previsto sia concesso “per un periodo di tempo determinato”.

Di un vincolo affettivo tra il minore ed i suoi genitori, così come dell’eventuale “radicamento” del minore nel contesto sociale italiano, infatti, non si può predicare la temporaneità, poichè l’uno e l’altro sono tendenzialmente stabili, e comunque sine die.

Pertanto accordare il permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31 al genitore di un minore che viva in Italia, ed accordarlo per il solo fatto che, altrimenti, il minore sarebbe costretto ad allontanarsi da uno dei due genitori, farebbe sì che mai quel genitore potrebbe essere espulso (almeno fino alla maggiore età del figlio), perchè sempre l’espulsione comporterebbe un trauma per il minore. Sicchè, interpretando la norma nel senso preteso dal ricorrente, essa verrebbe abrogata e riscritta, per tradursi in un precetto che suonerebbe così: “ha diritto al permesso di soggiorno qualunque genitore di qualunque minore che si trovi quomodolibet in Italia”. Una interpretazione, dunque, abrogatrice, ovviamente non consentita all’interprete.

Ma la suddetta interpretazione è altresì contraria a diritto, ed è già stata rifiutata dalle Sezioni Unite di questa Corte, allorchè ritennero “inaccettabile la funzione attribuita all’art. 31, comma 3, da una parte della giurisprudenza di merito e da alcuni studiosi (di) impedire detto allontanamento (del minore) per tutta la durata della minore età, o (secondo altre decisioni) per la durata dell’intero percorso scolastico” (sono parole di Sez. U, Sentenza n. 21799 del 25/10/2010, p. 5 dei “Motivi della decisione”).

Ai fini del rilascio del permesso in esame è invece sempre necessario – proseguono le SSUU – innanzitutto che “tra il minore ed il genitore espulso sussista – e sia documentato – un rapporto affettivo significativo idoneo a giustificare l’inversione della regola generale secondo cui il figlio minore segue la condizione giuridica del genitore.

Ciò impone al giudice minorile di accertare pregiudizialmente che la coesione familiare vi sia stata davvero e che nell’ambito di essa lo straniero richiedente abbia esercitato effettivamente a beneficio del figlio minore la propria funzione genitoriale, la cui improvvisa interruzione costituirebbe un nocumento irreversibile per il suo sviluppo psicofisico; ovvero, se si stratta di minore in tenerissima età (significativamente considerata una variabile dalla norma), che sussista la sua idoneità effettiva ad occuparsi del minore, ad allevarlo in un ambiente familiare idoneo a garantirne la crescita, nonchè a prendersi carico dei bisogni e dei problemi di lui”.

Circostanze tutte, quelle appena elencate, ritenute insussistenti dalla Corte d’appello, con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede. Resta solo da aggiungere che la difesa del ricorrente, là dove – a pagina 15, primo capoverso, del ricorso – invoca a sostegno della propria tesi l’autorità delle Sezioni Unite di questa Corte, con biasimevole tecnica scrittoria attribuisce ad esse un principio che non hanno mai affermato. Il testo virgolettato trascritto nel ricorso, infatti, nella motivazione della nota sentenza 21799/10 non costituisce il decisum, ma solo la citazione riassuntiva di uno degli orientamenti in contrasto, e disatteso dalla sentenza appena ricordata.

1.5.2. In secondo luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente non può essere condivisa perchè si fonda sull’assunto – implicito, ma evidente – che l’interesse del minore all’integrità del nucleo familiare sia necessariamente, sempre e comunque recessivo rispetto all’interesse generale dello Stato al rispetto delle norme che regolano l’accesso ed il soggiorno sul suo territorio.

Ma l’interesse del minore all’unità familiare non è oggetto d’un ma diritto assoluto, ma va bilanciato con altri diritti e regole dell’ordinamento, ed in particolare:

a) col principio di legalità;

b) con l’obbligo degli Stati membri di espellere chi soggiorna irregolarmente sul loro territorio, imposto da una norma comunitaria (l’art. 6, comma 1, della Direttiva 2008/115/UE, il quale stabilisce che “gli Stati membri adottano una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare”). Obbligo, per di più, che secondo la Corte di giustizia dell’Unione Europea è finalizzato a garantire la sicurezza pubblica, e tale fine “non può essere aggirato con condotte elusive” (Corte giust. UE, 15.2.2016, 3.N., in causa C-601/15), quale di fatto diverrebbe la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno sol per avere generato in Italia un figlio, od averlo ivi condotto.

Il ricorrente, in definitiva, mostra di confondere il “diritto all’unità familiare” col “diritto all’unità familiare in Italia”: pretesa, quest’ultima, che non ha alcun fondamento giuridico.

1.5.3. In terzo luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente contrasta con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU, e di due sentenze in particolare.

La prima è la sentenza Corte EDU, 2.8.2001, Boultif c. Svizzera, la quale ha affermato che il diritto all’unità del nucleo familiare è recessivo rispetto alla disciplina attuale sull’immigrazione, “quando la vita familiare (…) si è sviluppata in un’epoca in cui le persone coinvolte sapevano che la situazione di una di loro riguardo alle regole sull’immigrazione era tale da far immediatamente comprendere che il mantenimento di questa vita familiare nello Stato ospite avrebbe assunto subito un carattere precario”.

E nel caso di specie è il ricorrente stesso ad allegare che suo figlio è nato dopo il suo ingresso illegale in Italia, e dunque quando il padre ben sapeva della propria condizione di precarietà.

La seconda decisione è la sentenza pronunciata da Corte EDU, 4.12.2012, Hamidovic c. Italia, nella quale si affermano due principi decisivi ai nostri fini, ovvero:

a) la CEDU “non garantisce, in quanto tale, il diritto di entrare o di risiedere sul territorio di uno Stato di cui non si è cittadini, e (…) gli Stati contraenti hanno il diritto di controllare, in virtù di un consolidato principio di diritto internazionale, l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri”;

b) l’art. 8 della CEDU “non comporta un obbligo generale per lo Stato di rispettare la scelta degli immigranti di risiedere sul suo territorio e di autorizzare il ricongiungimento familiare nel suo Paese”.

1.5.4. In quarto luogo, tutti i principi che precedono, oltre che dalla Corte EDU, sono già stati ripetutamente affermati da questa Corte, la quale ha già stabilito che, per i fini di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 3, i “gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico” del minore (…) devono consistere in situazioni oggettivamente gravi, comportanti una seria compromissione dell’equilibrio psicofisico del minore, non altrimenti evitabile se non attraverso il rilascio della misura autorizzativa; la normativa in esame non può quindi essere intesa come volta ad assicurare una generica tutela del diritto alla coesione familiare del minore e dei suoi genitori. Sul richiedente l’autorizzazione incombe, pertanto, l’onere di allegazione della specifica situazione di grave pregiudizio che potrebbe derivare al minore dall’allontanamento del genitore” (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 9391 del 16/04/2018, Rv. 649062 – 01; nello stesso senso, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 26710 del 10/11/*****, Rv. 646566 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 25419 del 17/12/2015, Rv. 638177 – 01).

1.5.5. In quinto luogo, la tesi sostenuta dal ricorrente non può essere condivisa per l’evidente reductio ad absurdum cui essa condurrebbe. Se, infatti, si ritenesse che l’allontanamento d’un minore dall’Italia, o da uno dei suoi genitori, generi sempre e comunque un “grave nocumento o pericolo di nocumento” per il suo sviluppo psicofisico, si perverrebbe ai seguenti paradossi:

a) l’art. 31 verrebbe riscritto come se stabilisse: “chiunque abbia un figlio minore in Italia ha diritto di restarvi a tempo indeterminato”, con evidente travisamento della lettera e dello spirito della norma;

b) si fornirebbe il pretesto per pratiche fraudolente e senza scrupoli, quali il generare dei figli – e sinanche pianificarne la generazione – al solo scopo di aggirare o prevenire il rischio di espulsione;

c) il permesso di soggiorno di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31 finirebbe per non essere mai “temporaneo”, come vuole la legge, ma sarebbe sempre e giocoforza sine die, fino al raggiungimento della maggiore età del figlio del richiedente;

d) verrebbe artificialmente creato un inesistente “diritto di chi ha figli minori in Italia a restare in Italia”, che non trova fondamento in alcuna norma o principio;

e) si finirebbe per confondere il “grave nocumento”, richiesto dalla legge, col mero disagio, giuridicamente irrilevante, e si finirebbe per attribuire a quest’ultimo rilievo decisivo ai fini del rilascio del permesso di soggiorno.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente – formalmente prospettando la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – censura la scelta della corte d’appello di non disporre una “perizia sul minore” (deve ritenersi, intesa a tracciarne il profilo psicologico ed accertare la sussistenza di rischi per il suo equilibrio psichico).

2.2. Anche tale censura è inammissibile, in primo luogo, perchè non espone, in violazione del precetto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, in quale atto fu formulata tale richiesta nei gradi di merito, se fu reiterata in appello, dove si trovi allegato l’atto che la contiene e con quale indicizzazione il suddetto atto sia individuabile.

In secondo luogo la censura è comunque inammissibile, perchè disporre o non disporre una consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice e la relativa scelta non è censurabile in sede di legittimità (ex multis, Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, in motivazione).

A tale principio può derogarsi unicamente quando la consulenza tecnica sia l’unico strumento possibile per consentire alla parte interessata di fornire la prova di fatti che, altrimenti, non potrebbero mai essere dimostrati con gli ordinari mezzi di prova. E tuttavia, anche in tale ultima ipotesi, per censurare in sede di legittimità la decisione con cui il giudice di merito abbia rigettato l’istanza che lo sollecitava a disporre una c.t.u., sarà pur sempre necessario che il ricorrente indichi, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4, quale sia il fatto materiale che intendeva provare attraverso la consulenza d’ufficio, e perchè tale circostanza non potrebbe essere dimostrata con gli ordinari mezzi di prova: indicazioni, queste ultime, assenti nel ricorso oggi in esame.

3. Le spese.

3.1. Non è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, attesa la indefensio della parte pubblica.

3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), a condizione che esso sia dovuto: condizione che non spetta a questa Corte stabilire. La suddetta norma, infatti, impone all’organo giudicante il compito unicamente di rilevare dal punto di vista oggettivo che l’impugnazione ha avuto un esito infruttuoso per chi l’ha proposta.

Incidenter tantum, rileva nondimeno questa Corte che ai sensi del D.Lgs. 30 maggio 2012, n. 115, art. 10, comma 2, non è soggetto al contributo unificato il processo “comunque riguardante la prole”, ed in tale categoria di giudizi rientra anche il presente.

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione prima civile della Corte di cassazione, il 25 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2019

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