LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 29552-2018 proposto da:
S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANICIO GALLO 102, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO POLESE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO SIVIERO;
– ricorrente –
contro
INPGI ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA DEI GIORNALISTI ITALIANI GIOVANNI AMENDOLA, in persona del Presidente del Consiglio di amministrazione e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RICCIOTTI NICOLA, 9, presso lo studio dell’avvocato BRUNELLA CAIAZZA, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO SETTEMBRE;
– controricorrente –
avverso l’ordinanza n. 5148/18 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 06/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2020 dal Consigliere Dott. FIECCONI FRANCESCA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito l’Avvocato SIVIERO MARCO.
SVOLGIMENTO IN FATTO 1. Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale il 6/10/2018, S.M. propone ricorso per la revocazione – ex art. 391 – bis c.p.c., – dell’ordinanza della Terza Sezione Civile di questa Corte n. 5148 del 10/10/2017, depositata in cancelleria il 6/3/2018. Con controricorso, notificato a mezzo pec il 12/11/2018, resiste l’INPGI – Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola”.
2. Per quanto qui d’interesse, con atto di citazione del 12/4/2002, l’INPGI conveniva, dinanzi al Tribunale di Napoli, il sig. S.M. chiedendo di dichiararsi la nullità di un contratto di locazione relativo ad un appartamento sito in *****, per non essere stato pattuito alcun canone per il godimento del bene; per l’effetto, parte attrice chiedeva di dichiararsi priva di titolo ed abusiva l’occupazione da parte del S. dell’immobile, con conseguente condanna al suo rilascio; ancora, chiedeva di condannarsi il convenuto al pagamento, a titolo di indennità di occupazione, della somma pari alla differenza tra quanto versato e quanto dovuto, in base al valore del canone di mercato praticato nella zona. In ultimo, in via subordinata, chiedeva la condanna del convenuto al pagamento in suo favore della somma di Euro 50.887,65 oltre interessi ed oneri accessori maturati fino al rilascio. Si costituiva il convenuto S. che chiedeva il rigetto della domanda attrice. Contestualmente, spiegava domanda riconvenzionale chiedendo di dichiararsi il suo diritto alla stipula di un nuovo e valido contratto di locazione, e di condannarsi l’INPGI al risarcimento dei danni alla salute, sofferti da lui e dai suoi familiari a causa della condotta illegittima e vessatoria dell’Istituto e delle cattive condizioni dell’appartamento, rivendicando la somma di Euro 50.000,00 o la diversa somma stabilita secondo giustizia. Con sentenza n. 4313 del 9-19/4/2010, il Tribunale di Napoli accoglieva, per quanto di ragione, la domanda attrice e condannava il convenuto al pagamento degli importi di Euro 28.073,16, oltre interessi legali dalla data di deposito della sentenza e di Euro 7.303,86. Dichiarava inammissibile la domanda riconvenzionale relativamente al danno biologico, rigettandola per il resto. Compensava le spese di lite tra le parti per 1/4 e condannava il solo convenuto per la parte residua.
3. Avverso la sentenza, il convenuto S. proponeva impugnazione innanzi alla Corte d’Appello di Napoli che confermava la sentenza di prime cure e, per l’effetto – con sentenza n. 805/15 – rigettava l’appello e compensava le spese di lite tra le parti. Con ricorso notificato l’11/3/2015, il sig. S. proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, affidandolo a sei motivi. Resisteva l’INPGI con controricorso notificato il 18/4/2015. Con l’ordinanza qui impugnata, la Terza Sezione Civile della Suprema Corte dichiarava inammissibile il ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla sanzione ex art. 385 c.p.c., comma 4.
4. Con il presente ricorso ex art. 391-bis c.p.c., il S. chiede la revocazione della suddetta ordinanza, affidandolo ad un unico motivo. In particolare, deduce l’erronea dichiarazione di inammissibilità del motivo dell’originario ricorso per cassazione relativo all’omessa pronuncia, da parte del giudice di secondo grado, della dedotta violazione degli artt. 1175 e 1176 c.c., in cui controparte sarebbe incorsa nella gestione del rapporto di locazione, mai contestato sino a una certa data. Le parti hanno prodotto memorie. Il ricorso è stato discusso alla udienza pubblica del 10 febbraio 2020. Il Pubblico Ministero concludeva come in atti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo ed unico motivo, il ricorrente denuncia l’errore revocatorio previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, – valevole anche nel caso di revocazione di sentenze di legittimità a norma degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.c., – nella parte in cui questa Corte, ha erroneamente ritenuto che “La violazione dell’art. 1175 c.c. e art. 1176 c.c. è inammissibile in quanto risulta per la prima volta proposta in tale sede di legittimità”. Nel ricorso per Cassazione, con il primo motivo, il ricorrente deduceva diversi profili di doglianza. Testualmente “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3), in relazione all’art. 2041 c.c., art. 2042 c.c., art. 2043 c.c., art. 2948 c.c., art. 2056 c.c., art. 1175 c.c. e 1176 c.c., nonchè in relazione agli artt. 101 e 113 c.p.c. ed agli artt. 24 e 111 Cost. ed all’art. 6, par. 1, della CEDU, nonchè per nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) in relazione all’art. 112 c.p.c.”. La domanda di revocazione è, invece, limitata alla parte del suindicato motivo relativa all’omessa pronuncia sulla censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1176 c.c., in cui, in tesi, sarebbe incorsa la Corte d’Appello di Napoli e che, questa Corte ha dichiarato inammissibile in quanto proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità. Il Giudice di legittimità, dunque, sarebbe incorso in una “errata percezione di fatto”, in quanto l’Istituto, in violazione, appunto, degli artt. 1175 e 1176 c.c., aveva illegittimamente ritenuto di rivendicare, con la domanda di prime cure, una serie di pretese economiche non più pretendibili. Difatti, nonostante la deduzione, in sede di appello, di un notevole lasso di tempo decorso tra l’inizio della locazione (1994) e l’atto introduttivo del giudizio di primo grado (2002), quale indice di un comportamento contrario a buona fede, il giudice di secondo grado non ne aveva fatto discendere conseguenza alcuna in capo all’Istituto appellato nè, tanto meno, si era pronunciato sul punto. Sul punto, il ricorrente invoca la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. 5 maggio 2010, n. 10833; Cass. n. 9924/2009; Cass. n. 13167/2009; Cass. n. 13549/2008) secondo cui, il comportamento interpretato alla luce dei principi di buona fede e correttezza, ex art. 1175 c.c., del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo trascuri di esercitarla, e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, è idoneo come tale (essendo irrilevante qualificarlo come rinuncia tacita ovvero oggettivamente contrastante con gli anzidetti principi) a determinare la perdita della medesima situazione soggettiva. Ed ancora (cita: Cass. n. 9924/2009, in motivazione), in tali casi, il divieto di venire contra factum proprium conduce alla preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l’abbandono non importando, ai fini del risultato finale di perdita della situazione di vantaggio, che del comportamento della parte assuma rilievo l’atteggiamento soggettivo di rinuncia tacita ovvero la valutazione oggettiva resa dall’interprete, di non conformità alla correttezza o alla buona fede.
2. Il motivo è inammissibile. La censura, per essere delibabile in questa sede, avrebbe dovuto indicare se il motivo di appello, in tesi “travisato”, attiene a una questione compiutamente allegata nel primo grado di merito, nel rispetto del principio del contraddittorio, non essendo sufficiente il richiamo ai motivi nn 3 e 4 dell’atto d’appello, che la parte resistente deduce essere stati dedotti per la prima volta in sede appello, e non solo nel giudizio di legittimità, come indicato nell’ordinanza di cui si chiede la revocazione. Sul punto, la Corte di cassazione, nella pronuncia qui in esame, ha giudicato inammissibile la censura perchè la deduzione risulta effettuata per la prima volta in sede di legittimità, e non nell’atto di appello. Il motivo, invero, non soddisfa il requisito di autosufficienza che si richiede anche nel giudizio per revocazione.
2.1. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, “L’errore di fatto che può dare luogo a revocazione della sentenza ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice ad affermare l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, la cui sussistenza (o insussistenza) risulti invece in modo incontestabile dagli atti, e l’erronea percezione postula l’esistenza di un contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti rispettivamente l’una dalla sentenza impugnata, l’altra dagli atti processuali. Il suddetto errore, inoltre, non può riguardare la violazionè o falsa applicazione di norme giuridiche; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asserita mente erronea da parte del giudice e la decisione emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa. Con riguardo, infine, all’errore di fatto che può legittimare la domanda di revocazione della sentenza di cassazione, esso deve riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimità (ossia quelli che la Corte deve, e può, esaminare direttamente con la propria indagine di fatto all’interno dei motivi di ricorso) e deve incidere unicamente sulla sentenza di cassazione, giacchè, ove esso fosse configurabile come causa determinante della decisione impugnata in Cassazione, il vizio correlato potrebbe dare adito soltanto alle impugnazioni esperibili contro la pronuncia di merito” (Cass., Sez. L. Sentenza n. 9396 del 21/4/2006; in senso conforme, ex plurimis, Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 442 dell’11/1/2018; Sez. L., Sentenza n. 3820 del 18/2/2014; Sez. 1, Sentenza n. 24856 del 22/11/2006).
2.2. Nel caso concreto, invero, non si rinvengono nè il requisito della decisività dell’errore, nè quello dell’inerenza agli “atti interni” al giudizio di legittimità.
2.3. In relazione al requisito della decisività, deve rilevarsi che, anche quand’anche questa Corte fosse incorsa nell’errore de quo, non è dimostrato che la pronuncia sarebbe stata giuridicamente diversa e favorevole al ricorrente. Infatti, deve rilevarsi che il motivo non riporta se nel giudizio di primo grado sia stata denunciata la violazione ex artt. 1175 e 1176 c.c., o proposta una eccezione circa la implicita rinuncia alle pretese creditorie da parte dell’Istituto attore, per cui la proposizione in appello della censura doveva ritenersi ammissibile, senza incorrere nel divieto di domande ed eccezioni nuove stabilito dall’art. 345 c.p.c., comma 1, (in coerenza con le preclusioni introdotte in primo grado e, soprattutto, con il principio del doppio grado di giurisdizione limitato ai motivi di impugnazione). In punto di decisività dell’errore revocatorio, giova ricordare che: “Ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, il nesso causale tra errore di fatto e decisione, nel cui accertamento si sostanzia la valutazione di essenzialità e decisività dell’errore revocatorio, non è un nesso di causalità storica, ma di carattere logico-giuridico, nel senso che non si tratta di stabilire se il giudice autore del provvedimento da revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di stabilire se la decisione della causa sarebbe dovuta essere diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità logico-giuridica. (Nella specie, l’errore, pur commesso, e consistito nell’aver ritenuto “anticipata” di un giorno la data di pubblicazione del provvedimento oggetto della decisione di cui era poi stata chiesta la revocazione non era decisivo, in quanto, in ragione del principio di diritto applicabile “ratione temporis”, la soluzione giuridicamente applicata sarebbe stata comunque la stessa)” (Cass., Sez. 1, sentenza n. 6038 del 29/3/2016; Sez. 2, sentenza n. 3935 del 18/2/2009; Sez. 1, Sentenza n. 25376 del 29/11/2006). Nel caso di specie, pertanto, non risulta dimostrato che la questione in ordine alla violazione delle norme di cui all’artt. 1175 e 1176 c.c., proposta dinanzi al giudice di secondo grado, non fosse ormai preclusa ex art. 345 c.p.c., comma 1.
2.4. In relazione, poi, al requisito dell’inerenza dell’errore agli “atti interni” del giudizio di legittimità, si rileva che “L’errore di fatto che può legittimare la domanda di revocazione della sentenza di cassazione deve riguardare gli atti “interni” al giudizio di legittimità (ossia quelli che la Corte deve, e può, esaminare direttamente con la propria indagine di fatto all’interno dei motivi di ricorso) e deve incidere unicamente sulla sentenza di cassazione, restando escluso, per converso, che possano essere comunque considerati “atti interni” al giudizio gli atti del fascicolo di merito, ed in specie del giudizio di appello, che non debbano essere esaminati direttamente dalla Corte di Cassazione (in quanto non investiti direttamente dalla denuncia di un “error in procedendo”) e che, peraltro, neppure siano richiamati nel ricorso e nel controricorso (nè risultino dalla lettura della sentenza)” (Cass., Sez. L, sentenza n. 8907 del 14/4/2010; in senso conforme, Sez. 1 -,ordinanza n. 26643 del 22/10/2018; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 4456 del 5/3/2015; Sez. L., Sentenza n. 3820 del 18/2/2014; Sez. 3, Sentenza n. 17745 del 3/9/2005). Ed invero, nell’originario ricorso per cassazione, la violazione delle disposizioni di legge veniva rilevata sub specie art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, al che, non trattandosi di un error in procedendo, gli atti del fascicolo di merito – tra cui, l’atto di appello – non sono entrati a far parte del giudizio di legittimità come “atti interni”. Questa Corte, difatti, non è tenuta ad essere giudice anche del fatto e ad esaminare gli atti processuali delle precedenti fasi di merito. (Cass., Sez. 6-3, ordinanza n. 6835 del 16/3/2017; Cass., Sez. L, sentenza n. 22759 del 27/10/2014; Cass., Sez. 3, sentenza n. 1196 del 19/1/2007.
2.5. Peraltro, anche nella ipotesi di omessa pronuncia, pur dedotta nel motivo come error in procedendo, è necessario che siano specificati in maniera adeguata i contenuti ed i punti degli atti processuali in cui la domanda o l’eccezione è stata formulata, con riguardo anche al giudizio di primo grado, sul presupposto che il giudice di legittimità deve essere messo in grado di valutare la tempestività e la decisività delle censure prospettate, soprattutto con riferimento alla verifica dell’effettiva sussistenza – in seno all’iter procedimentale – di una domanda o un’eccezione ritualmente proposta e autonomamente apprezzabile, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio “per relationem” agli atti della fase di merito, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi” (Cass., Sez. L, Sentenza n. 15367 del 4/7/2014; Sez. 2, Sentenza n. 6361 del 19/3/2007).
2.6. Nel caso di specie, dunque, non sussistono i presupposti per rilevare la sussistenza di un “errore revocatorio” nella fase rescindente di questo giudizio.
3. Conclusivamente, il ricorso viene dichiarato inammissibile, con ogni conseguenza in ordine alle spese, che si liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, a favore della parte resistente.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 2.900,00, oltre Euro 200,00 per spese, spese forfettarie al 15% e oneri di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
“Si dà atto che il presen edimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’tensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a)”.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 10 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2020