LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 27865/2015 proposto da:
F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PZZA SANTIAGO DEL CILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARCO BATTAGLIA, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO RONCONI, DENIS MARINI;
– ricorrente –
contro
M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A BERTOLONI, 44, presso lo studio dell’avvocato CESARE CATURANI, rappresentata e difesa dall’avvocato GRAZIA SANTORI;
– controricorrente –
e contro
P.C., A.K.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2174/2014 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 21/10/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/12/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato PAOLO BATTAGLIA per delega;
udito l’Avvocato MARCO BALETTA per delega orale.
FATTI DI CAUSA
1. F.M. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 2174/14, del 21 ottobre 2014, della Corte di Appello di Bologna, che – accogliendo il gravame esperito da M.L. contro la sentenza n. 1218/10, del 2 agosto 2010, del Tribunale di Rimini – ha riformato integralmente la sentenza di primo grado, rigettando, per l’effetto, la domanda ex art. 2901 c.c., proposta dall’odierno ricorrente, in relazione al contratto di compravendita del 9 giugno 2005 (trascritto il successivo giorno 10), con il quale P.C. e A.K. alienavano, a M.L., un immobile di loro proprietà, già oggetto di pignoramento in favore del F., pignoramento trascritto nei registri immobiliari il precedente 5 maggio 2005.
2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver esperito, davanti al Tribunale di Rimini, la cd. “adio pauliana”, al fine di far dichiarare inefficace, nei propri confronti, il contratto di compravendita immobiliare di cui sopra.
Più precisamente, il ricorrente, sul presupposto di essere creditore nei confronti dei coniugi P. e A. per la residua somma di Euro 60.540,00, come risultante da scrittura privata del 10 maggio 2004, con cui essi si erano accollati, nei suoi confronti, il debito della società A.C. Cattolica Calcio S.r.l., debito che esso F., a propria volta, nella sua qualità di fideiussore verso la società Banca delle Marche S.p.a., aveva provveduto ad adempiere.
Ottenuto decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo nei confronti dei P. – A. (peraltro, da costoro successivamente opposto), il F. apprendeva che i medesimi avevano promesso in vendita a tale Ma.Si., con contratto preliminare del 2 luglio 2004 (trascritto il successivo 6 luglio), un’unità immobiliare di loro proprietà, e che, in data 9 giugno 2005, avevano stipulato il contratto definitivo di compravendita immobiliare con M.L., nominata dal promissario acquirente ex art. 1404 c.c..
Nel frattempo, tuttavia, il F. aveva ottenuto, in data 5 maggio 2005 (dunque, nel periodo intercorrente tra la trascrizione del preliminare e quella del definitivo, quest’ultima risalendo al 10 giugno 2005), la trascrizione del pignoramento sull’immobile oggetto della suddetta operazione negoziale.
Il Tribunale di Rimini accoglieva la domanda ex art. 2901 c.c., dichiarando l’inefficacia nei confronti dell’attore del contratto di compravendita immobiliare concluso dai convenuti, sul rilievo della sussistenza di tutti i presupposti richiesti dalla norma “de qua”. Invero, essendo il credito vantato dal F. sorto anteriormente rispetto alla stipulazione sia del contratto preliminare sia di quello definitivo, sarebbe evidente – secondo il giudice di prime cure – che i coniugi P. e A. fossero consapevoli che “l’alienazione della loro (unica, n.d.r.) proprietà immobiliare avrebbe leso la garanzia patrimoniale” del F., “rendendo notevolmente più difficile la fruttuosità di un’eventuale esecuzione coattiva nei loro confronti”. Con riferimento all’acquirente definitivo, la predetta M.L., il Tribunale affermava come “la verifica della “scientia damni”” dovesse “avvenire con riferimento al momento in cui è stata nominata ex art. 1404 c.c., avendo manifestato in tale frangente la sua libera volontà negoziale, cui è conseguito come atto dovuto la stipulazione del contratto definitivo con gli altri convenuti”, ritenendo, in particolare, che in quel momento la conoscenza della situazione debitoria degli alienanti fosse desumibile “dalla pregressa trascrizione del pignoramento”, il cui regime di pubblicità legale “rende assolutamente inverosimile la prospettazione della M. secondo cui ella ignorava” il pignoramento.
Come detto, interposto gravame avverso la decisione del giudice di prime cure, la Corte territoriale lo accoglieva, riformando “in toto” la decisione impugnata. In particolare, il giudice di appello rilevava come la M. avesse sempre sostenuto di essere stata ignara dell’esistenza del pignoramento, in quanto, “pur essendosi affidata ad un’agenzia immobiliare ed al notaio per la stipula dell’atto, nessuno le aveva dato notizia dello stesso”, circostanza che, oltre a non risultare “in alcun modo smentita dagli atti”, sarebbe, anzi, “comprovata dal fatto che nello stesso atto di vendita non vi è menzione alcuna dell’atto di pignoramento in questione”, ciò che “farebbe venire oggettivamente. meno la presunzione di conoscenza ritenuta dalla Tribunale di Rimini”.
3. Avverso la sentenza della Corte felsinea ha proposto ricorso per cassazione il F., sulla base di tre motivi, tutti articolati in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
3.1. Con il primo motivo si assume la violazione o falsa applicazione degli artt. 2901,2643,2644 e 2914 c.c., con particolare riguardo al principio della opponibilità, ai terzi, degli atti trascritti, con priorità, da altri aventi causa sui medesimi beni.
Più precisamente, il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha attribuito rilevanza allo stato soggettivo di buona fede della M., terzo acquirente, nonostante sull’immobile – al momento della stipulazione del contratto definitivo, con la terza “nominata” – fosse già stato trascritto il pignoramento effettuato da esso F.. Il sistema delineato dagli articoli summenzionati, invero, si caratterizza per una presunzione assoluta di conoscenza, in capo ai terzi, delle vicende costitutive, traslative e modificative dell’immobile (al quale la trascrizione si riferisce), presunzione funzionale alla certezza delle vicende immobiliari, con conseguente non configurabilità di uno stato di buona fede in capo all’acquirente di un immobile sottoposto a pignoramento già trascritto. Il suddetto principio della opponibilità, ai terzi, degli atti trascritti con priorità da altri aventi causa sui medesimi beni non è derogato nemmeno nell’ipotesi in cui i terzi abbiano sì stipulato l’atto con priorità, ma l’abbiano trascritto tardivamente, dovendosi comunque tutelare il soggetto che abbia trascritto per primo.
In un sistema siffatto, fondato – si insiste nel sottolinearlo – su una presunzione “iuris et de iure”, deve concludersi che “non può esservi spazio in alcun modo per le ipotesi di uno stato soggettivo di buona fede, basate su un’imprudente e inescusabile stato di ignoranza della esistenza della trascrizione”.
3.2. Con il secondo motivo si assume la violazione o falsa applicazione, oltre che degli artt. 2901,2643,2644 e 2914 c.c., anche dei principi di lealtà e buona fede contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.), della normativa sul mandato (artt. 1703 c.c. e segg.), nonchè del principio dispositivo (art. 115 c.p.c.).
In particolare, il ricorrente censura la sentenza della Corte territoriale nella parte in cui ha desunto lo stato soggettivo di buona fede della M. dal fatto che essa non fosse stata informata dai propri professionisti di riferimento (notaio e agenzia incaricata) dell’esistenza del vincolo pignoratizio, già trascritto sul bene compravenduto. A ben vedere, nel caso di specie, non deve assumere rilevanza alcuna – secondo il ricorrente – il concreto stato soggettivo del terzo acquirente, stante la presunzione assoluta di conoscenza posta dalla disciplina sulla pubblicità immobiliare. Il ricorrente osserva, inoltre, come il mancato rispetto dell’obbligo di lealtà e buona fede contrattuale non possa venir meno per il semplice fatto che i professionisti, ai quali una parte contrattuale si sia affidata, abbiano a loro volta violato i canoni imposti per la corretta e diligente prestazione del mandato loro conferito. La sentenza impugnata avrebbe, pertanto, “travolto e stravolto” la generale disciplina della opponibilità ai terzi degli atti aventi ad oggetto la costituzione, la modificazione e/o la circolazione dei beni immobili, nonchè il criterio (stabilito per legge) della anteriorità della formalità della trascrizione.
3.3. Infine, in via subordinata, con il terzo motivo si assume la violazione o falsa applicazione, oltre che degli artt. 2901,2643,2644 e 2914 c.c., anche degli artt. 91,92 e 116 c.p.c., in punto di condanna al pagamento delle spese processuali.
Più specificamente, il ricorrente deduce, che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare la sua buona fede nella proposizione dell’azione revocatoria, per aver confidato, da un lato, nella insussistenza di uno stato soggettivo tutelabile in capo all’acquirente M., e, dall’altro, nella sussistenza del presupposto soggettivo richiesto dall’art. 2901 c.c., in capo al terzo stesso; conseguentemente, il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare la sussistenza delle condizioni per la pronuncia della compensazione delle spese processuali relative ad entrambi i gradi del giudizio 4. Ha proposto controricorso la M., per resistere all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità o, comunque, di infondatezza.
Eccepita, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso, in ragione della mancata notificazione dello stesso ai litisconsorti necessari P. e A. (donde l’ordinanza interlocutoria con cui questa Corte ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei loro confronti), la controricorrente assume l’inammissibilità del primo e del secondo motivo dell’atto di impugnazione, atteso che il ricorrente non si sarebbe confrontato con le eccezioni già proposte da essa M. nel giudizio di merito. In particolare, la controricorrente ha sempre richiamato il cosiddetto “effetto prenotativo”, derivante dalla trascrizione del contratto preliminare intercorso fra i coniugi P. – A. ed il Ma., a norma degli artt. 2645-bis e 2775-bis c.c., effetto in virtù del quale, una volta trascritto anche il contratto definitivo, l’acquirente prevale rispetto ad eventuali terzi che abbiano eseguito trascrizioni o iscrizioni a carico del promittente venditore dopo la trascrizione del preliminare. La controricorrente si richiama, sul punto, anche al principio secondo cui non sono revocabili ex art. 2901 c.c., gli atti posti in essere in osservanza di un’obbligazione, ivi compresi, pertanto, anche i contratti definitivi conclusi in esecuzione di un preliminare.
In ogni caso, si sottolinea come la sentenza impugnata sia esente da vizi, avendo essa correttamente motivato le ragioni per le quali la terza acquirente il bene immobile non potesse ritenersi consapevole del pregiudizio arrecato, al creditore, dalla compravendita del bene, avendo fatto legittimo affidamento sul comportamento non solo della parte venditrice, ma anche dei professionisti incaricati di assisterla nel compimento dell’operazione negoziale.
Quanto, poi, alle censure che mirano ad evidenziare la carenza assoluta di indizi gravi, precisi e concordanti in ordine al “consilium fraudis” e alla “scientia dammi” a carico di essa M., la controricorrente eccepisce sia il difetto di specificità che di autosufficienza delle stesse.
Infine, inammissibile, o comunque infondato, sarebbe anche il terzo motivo di ricorso, dovendo escludersi qualsiasi profilo di buona fede nel comportamento del F., consistito nell’esperire l’azione revocatoria pur a fronte della già avvenuta trascrizione del contratto preliminare.
5. Sono rimasti intimati il P. e la A., anche all’esito della rinnovata notificazione del ricorso, disposta da questa Corte con precedente ordinanza interlocutoria.
6. Già discusso in adunanza camerale del 5 aprile 2019 (in vista della quale le parti depositavano memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c.), il presente ricorso veniva rinviato in pubblica udienza, ex art. 375 c.p.c., u.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
7. Il ricorso va accolto, nei termini di seguito precisati.
7.1. I motivi primo e secondo – da scrutinare congiuntamente, data la loro connessione – sono fondati, per le ragioni (e nei limiti) che si vanno, di seguito, ad indicare.
7.1.1. Al riguardo, va nuovamente evidenziato che l’iniziativa giudiziaria assunta dall’odierno ricorrente F. mira a conseguire la declaratoria di inefficacia, ex art. 2901 c.c., del contratto con il quale i propri debitori, P. e A., hanno trasferito – all’esito di un’operazione negoziale contraddistinta dalla “scansione” preliminare-definitivo (operazione, si badi, successiva all’assunzione del debito verso il F.) – la proprietà di un bene immobile in relazione al quale il loro creditore aveva conseguito un atto di pignoramento, trascritto dopo la trascrizione del preliminare, ma prima della trascrizione del definitivo; contratto, quest’ultimo, concluso dai promittenti alienanti, peraltro, non con il promissario acquirente (il Ma.), bensì con un terzo nominato ex art. 1404 c.c. (la M.), nomina contestuale alla conclusione del definitivo (e, dunque, anch’essa successiva all’avvenuta trascrizione del pignoramento).
7.1.2. Ciò ribadito, appare, pertanto, necessario muovere dalla ricognizione dei principi enunciati da questa Corte con riferimento ai presupposti per l’esperimento della cd. “actio pauliana” allorchè, come nel caso che occupa, l’atto dispositivo del debitore sia posto essere attraverso la ridetta “sequenza” preliminare-definitivo.
E’ noto come la giurisprudenza più risalente di questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, sent. 16 maggio 1962, n. 1094, Rv. 251822-01; Cass. Sez. 2, sent. del 18 ottobre 1991, n. 11025, Rv. 474271) affermasse non essere soggetti a revoca, ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 3 (che, notoriamente, sottrae alla cd. “actio pauliana” gli “atti dovuti”, ovvero quelli compiuti in adempimento di un’obbligazione), i contratti conclusi in esecuzione di un preliminare, o di un negozio fiduciario, salva la prova del carattere fraudolento del negozio con cui il debitore assume l’obbligo poi adempiuto. Conclusione argomentata sul rilievo che la stipulazione del negozio definitivo non è che l’esecuzione, doverosa, di un “pactum de contrahendo”, validamente posto in essere (purchè, ovviamente, “sine fraude”) cui il promissario non potrebbe unilateralmente sottrarsi.
La giurisprudenza successiva (cfr. Cass. Sez. 2, sent. 15 ottobre 2004, n. 20310, Rv. 577709-01; Cass. Sez. 3, sent. 4 luglio 2006, n. 15265, Rv. 591447-01), non in contrasto con tale indirizzo, ma in via di ulteriore affinamento dello stesso (come ben colto da Cass. Sez. 3, sent. 16 aprile 2008, n. 9970, Rv. 602786-01, dalla quale le successive citazioni sono tratte), ha ritenuto che la revocatoria possa investire il contratto definitivo stipulato in adempimento del preliminare, precisandone, nel contempo, le condizioni di operatività. Il presupposto di tale impostazione è, infatti, che solo “al momento della stipula del contratto definitivo” possa “essere compiutamente valutata l’esistenza dell'”eventus damni”, ovverosia la realizzazione di una diminuzione del patrimonio del venditore o del pericolo del suo depauperamento con conseguente pregiudizio per il soddisfacimento dei crediti vantati dai terzi nei confronti del debitore-venditore”, e ciò in coerenza con la “natura stessa dell’azione revocatoria che, oggettivamente, è intesa a rimuovere un effetto pregiudizievole per i creditori derivante dal compimento di un atto dispositivo del patrimonio del debitore”. Difatti, “il compimento di un atto negoziale come il contratto preliminare di vendita, che ha una portata dispositiva solo potenziale e futura, non è idoneo a porre in essere le condizioni per l’esperimento dell’azione revocatoria”, sicchè “la verifica della sussistenza del requisito dell'”eventus damni” dovrà essere compiuta con riferimento all’atto (e al momento) della stipulazione definitiva che riducendo il patrimonio immobiliare del debitore pone in essere il concreto pericolo di un effetto lesivo per il ceto creditorio” (così Cass. Sez. 3, sent. 9970 del 2008, cit.).
Tuttavia, un “diverso discorso va invece compiuto per quanto riguarda il presupposto soggettivo del “consilium fraudis””, e ciò perchè l’azione ex art. 2901 c.c., “costituisce uno strumento di forte impatto sull’autonomia privata a tutela delle ragioni creditorie”, sicchè è proprio la necessità di assicurare un loro reciproco contemperamento ad escludere che si possa “basare il presupposto di operatività dell’azione solo su una considerazione oggettiva degli effetti dell’atto”, dovendo, invece, assicurarsi che l’azione revocatoria “rispetti contemporaneamente l’affidamento dei terzi nella conclusione dell’atto”. Orbene, la “tutela di tale affidamento trova la sua identificazione in uno stato soggettivo di buona fede che precipuamente viene identificato nell’assenza dell’elemento del “consilium fraudis””, dovendosi, pertanto, garantirsi “l’operatività della tutela revocatoria solo in quanto essa sia in grado di rispettare la tutela dell’affidamento del terzo nella possibilità di obbligarsi con la stipulazione di un contratto cui ha interesse” (cfr., nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. 9970 del 2008, cit.).
Ne consegue, quindi, che il “momento rilevante ai fini della valutazione della sussistenza di tale requisito soggettivo” non potrà che essere, necessariamente, “quello in cui si consuma la libera scelta del terzo”, vale a dire, qualora “la vendita si compia attraverso lo strumento del contratto preliminare”, quello della sua stipulazione, poichè è “in questo momento (…) che va operata la valutazione di priorità della tutela da accordare alla conservazione della garanzia patrimoniale per i creditori o alla conservazione della scelta negoziale del terzo”, in quanto, diversamente opinando, si dovrebbe ritenere che il terzo – il quale, “successivamente al preliminare, abbia avuto consapevolezza della potenzialità lesiva dell’atto che andrà a stipulare” – sia “costretto a richiedere la risoluzione del contratto per sottrarsi a tale cooperazione con il debitore nella perpetrazione dell'”eventus damni””. Ed invero, il terzo, “al momento in cui diventa consapevole della lesività dell’atto”, ovvero in occasione del definitivo, è già “titolare di un diritto acquisito in buona fede al trasferimento del bene rispetto al quale la tutela dell’integrità del patrimonio del debitore diventa necessariamente sub-valente proprio perchè scopo e funzione dell’azione revocatoria è quello di rendere inefficace gli atti perpetrati in danno delle ragioni dei creditori”, mentre, al contrario, è il suo stato soggettivo “originario” ciò rileva ai fini del presupposto soggettivo della revocatoria, posto “che la buona fede al momento della stipulazione del preliminare rende definitivamente estraneo il terzo al “consilium fraudis”” (ancora una volta, Cass. Sez. 3, sent. 9970 del 2008, cit.; nello stesso senso, successivamente, Cass. Sez. 3, sent. 18 agosto 2011, n. 17365, Rv. 619120-01, nonchè, più di recente, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 giugno 2018, n. 15215, Rv. 649407-01).
7.1.3. Tali principi vanno, a questo punto, applicati alla presente fattispecie, tenuto conto della sua (duplice) peculiarità: la circostanza che tra la stipulazione dei due contratti sia intervenuta, “medio tempore”, la trascrizione del pignoramento immobiliare – sulla “res tradita” – in favore del creditore dei promittenti venditori, nonchè il fatto che a concludere il definitivo sia stato, all’esito della cd. “electio amici”, un terzo diverso dal promissario acquirente.
7.1.3.1. Con riferimento proprio a quest’ultimo aspetto, non ignora il Collegio che questa stessa Sezione Terza ha, con un recente arresto, affermato, in relazione all’ipotesi in cui il contratto preliminare sia stato concluso per persona da nominare, che “la verifica sullo stato soggettivo rilevante ex art. 2901 c.c.” (nella prospettiva di accertare la “scientia damni” o la “partecipatio fraudis” del terzo, in base alla natura gratuita o onerosa dell’atto dispositivo, ovvero, in questo secondo caso, all’anteriorità o meno dello stesso al sorgere del credito) deve essere orientata “sulla persona nominata che ha accettato l'”electio amici” e con riferimento al momento in cui l’accettazione è avvenuta, perchè è in questo momento che il terzo ossia il nominato – consuma la propria libertà negoziale, in forza del cui esercizio viene poi ad acquistare i diritti e ad assumere gli obblighi contrattuali “ex tunc”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 maggio 2015, n. 9595, Rv. 635312-01). Su tali basi, pertanto, si è ritenuto che – trovando nei rapporti tra stipulante e terzo applicazione la previsione di cui all’art. 1391 c.c. – l’accertamento del presupposto soggettivo dell’azione revocatoria vada condotto, prioritariamente, con riferimento al cd. “electus”, dovendo spostarsi l’indagine sullo stipulante solo ove “tale verifica dia esito negativo” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. m. 9595 del 2015, cit.).
Ritiene, tuttavia, questo Collegio di doversi distaccare da tale pronuncia.
Difatti, proprio l’argomento – ma non esso solo, come si dirà meglio di seguito – basato sulla riconduzione dei rapporti tra “stipulante” e “nominato” alla disciplina della rappresentanza volontaria, impone di riferire, all’opposto, in via di priorità, la valutazione del presupposto soggettivo della cd. “actio pauliana” alla posizione assunta dal primo in occasione della conclusione del contratto preliminare. E ciò, oltretutto, in piena coerenza con l’indirizzo giurisprudenziale (già sopra illustrato) che individua nella stipulazione della fattispecie contrattuale ex art. 1321 c.c., il momento cui riferire la verifica della sussistenza, secondo i casi, del “consilium” o della “partecipatio fraudis” del terzo acquirente.
In questa prospettiva, pertanto, deve segnalarsi come già una tradizionale giurisprudenza – pur dichiarando di non voler esaminare “funditus” l’argomento se il contratto per persona da nominare “integri un caso di rappresentanza eventuale “in incertam personam”, anzichè un contratto “con soggetto ed effetto alternativo”” – abbia affermato che detta fattispecie “si coordina e si adegua, sotto il profilo sistematico e funzionale, allo schema di portata più generale dell’istituto della rappresentanza, di cui costituisce in sostanza un’applicazione”. Difatti, se è “ben vero che la “sostituzione di attività”, che si attua attraverso la rappresentanza, presuppone la “contemplatio domini””, resta inteso, nondimeno, che “anche nel caso di rappresentanza “in incertam personan” ed eventuale” essa risulta “insita nello stesso negozio, in virtù della contestuale riserva di designazione di altro soggetto cui dovranno eventualmente imputarsi gli effetti dell’attività dell’agente (o stipulante)”, puntualizzandosi “in un momento successivo, mercè la dichiarazione di nomina”. Di ciò, del resto, offrono “testuale conferma”, sia “il disposto dell’art. 1402, che sottolinea la esigenza che tale dichiarazione sia legittimata da una procura anteriore al contratto, o in difetto di questa, dall’accettazione della persona nominata”, sia “l’art. 583 c.p.c.” (Aggiudicazione per persona da nominare), che “contemplando una fattispecie modellata appunto sullo schema del contratto che ne occupa, parla di “mandato”. D’altronde, in un ordinamento informato al principio secondo cui “il contratto non può incidere sulla sfera giuridica di soggetti diversi dai contraenti, riuscirebbe impossibile spiegare e costruire altrimenti il fenomeno per cui il soggetto nominato, pur non avendo partecipato alla formazione del contratto, si inserisce in esso con la veste di parte nelle veci dello stipulante, in guisa da acquistare i diritti e di assumere gli effetti che ne derivano”; per contro, proprio riconducendo la fattispecie del contratto per persona da nominare nell’ambito della rappresentanza, tale fenomeno “si spiega agevolmente anche nella ipotesi di mancanza della procura preventiva, giacchè l’accettazione della persona nominata, che è contemplata dalla legge come un sostitutivo della procura, va configurata come una vera e propria “ratifica” che integra “ex post” i poteri di chi ha concluso il contratto “nomine alieno”, ovviando alla mancanza dell’ulteriore conferimento di essi” (così, in motivazione, Cass. Sez. 2, sent. 13 giugno 1959, n. 1807; nel senso della riconduzione dei rapporti tra “stipulante” e cd. “electus” alla disciplina della rappresentanza volontaria si vedano anche Cass. Sez. 1, sent. 27 febbraio 1963, n. 482, Rv. 260639-01; Cass. Sez. 3, sent. 6 novembre 1963, n. 2946, Rv. 264552-01; Cass. Sez. 3, sent. 19 ottobre 1965, n. 2142, Rv. 314064-01; Cass. Sez. 3, sent. 8 settembre 1970, n. 1330, Rv. 347045-01; nonchè Cass. Sez. 3, sent. 4 ottobre 1983, n. 5777, Rv. 430641-01 e Cass. Sez. 1, sent. 15 dicembre 1987, n. 9301, Rv. 456488-01, le quali, in particolare, affermano che il contraente riservatosi la facoltà di nomina assume la funzione di rappresentante del terzo, nell’arco di tempo che corre dalla conclusione del contratto alla dichiarazione di nomina).
Orbene, già sotto questo profilo – e, dunque, considerando l’accettazione della “electio” quale “ratifica” dell’operato dello stipulante – si conferma la necessità di riferire a costui, in prima battuta, la verifica dello stato di “scienza o di ignoranza”, al momento della stipulazione del preliminare, del carattere pregiudizievole (per il credito pregresso, vantato dall’attore in revocatoria verso i promittenti venditori) dell’atto revocando, secondo la previsione di cui dell’art. 1391 c.c., comma 1, a mente del quale, “nei casi in cui è rilevante lo stato di buona o di mala fede, di scienza o d’ignoranza di determinate circostanze, si ha riguardo alla persona del rappresentante, salvo che si tratti di elementi predeterminati dal rappresentato”.
Tale esito, d’altra parte, è anche coerente con il connotato tipico, ovvero l’efficacia “ex tunc” dell’avvenuta accettazione della “electio”, del contratto per persona da nominare. Esso, difatti, è caratterizzato “dal subentrare nel contratto di un terzo – per effetto della nomina e della sua contestuale accettazione – che, prendendo il posto del contraente originario (lo stipulante), acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con l’altro contraente (promittente) determinando, inoltre, la contemporanea fuoriuscita dal contratto dello stipulante, con effetto retroattivo, per cui il terzo si considera fin dall’origine unica parte contraente contrapposta al promittente e a questa legata dal rapporto costituito dall’originario stipulante” (così, in motivazione, da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 21 maggio 2019, n. 13686, Rv. 654048-01; nello stesso senso, Cass. Sez. 2, sent. 21 marzo 2013, n. 7217, Rv. 625531-01; Cass. Sez. 2, sent. 30 ottobre 2009, n. 23006, Rv. 610789-01). Anche tale circostanza, nel denotare come il nominato si “surroghi” – senza soluzione di continuità – nella posizione dello stipulante, conferma, vieppiù, che è al momento della stipulazione del preliminare (e, dunque, con riferimento alla condizione dello stipulante), che va compiuta, prioritariamente, la verifica del presupposto soggettivo della cd. “actio pauliana”.
Ma decisivo, soprattutto, si presenta il rilievo che è solo lo stipulante a prendere parte a quella fase prodromica alla formazione del contratto preliminare (vale a dire, propriamente, quella delle trattative) che potrebbe consentirgli – attraverso un’interlocuzione, per così dire, “ad ampio spettro” con l’altro paciscente – di appurare circostanze utili a rivelare che l’atto dispositivo, ancora “in fieri”, si presenta potenzialmente pregiudizievole per le ragioni del creditore della propria controparte contrattuale. Una simile possibilità, per contro, appare difficilmente ipotizzabile per il nominato, il quale ha semplicemente la facoltà di accettare (o, per converso, rifiutare) la “electio”, visto che mai “la dichiarazione di nomina, attesa la funzione di far acquistare al terzo gli stessi diritti ed obblighi derivanti dal contratto”, potrebbe “contenere alcuna modifica o variazione del suo contenuto, essendo, altrimenti, improduttiva di effetti” (Cass. Sez. 2, sent. n. 7217 del 2013, cit.), nè potrebbe “essere costituita da un altro contratto, fonte di autonomi diritti ed obblighi, tra l’originario contraente ed il terzo” (Cass. Sez. 2, sent. 2 febbraio 1994, n. 1023, Rv. 485177-01).
Ciò detto, tuttavia, l’eventuale verifica dell’assenza – in capo allo stipulante – della consapevolezza che l’operazione negoziale (come detto ancora “in itinere”) possa pregiudicare le ragioni del creditore dell’altro contraente, non è, di per sè sufficiente, ad escludere il presupposto soggettivo dell’azione revocatoria costituito dalla “scientia fraudis”; resta, infatti, pur sempre da verificare lo stato soggettivo del nominato, visto che ai sensi dell’art. 1391 c.c., comma 2, in nessun caso “il rappresentato che è in mala fede può giovarsi dello stato d’ignoranza o di buona fede del rappresentante”, non potendo il primo “trarre profitto dalla propria malizia” (così Cass. Sez. 3, sent. 9595 del 2015, cit., nonchè, nello stesso senso, Cass. Sez. 1, sent. 29 ottobre 1963, n. 2874, Rv. 264457-01).
7.1.3.2. Il rilievo appena svolto investe, dunque, l’altra peculiarità che contraddistingue la fattispecie concreta sottoposta al vaglio di questa Corte, differenziandola dall’ordinaria ipotesi in cui il pregiudizio alle ragioni creditorie venga allegato con riferimento ad un’operazione negoziale posta in essere, dal debitore dell’attore in revocatoria, attraverso l’impiego dello strumento del preliminare di contratto per persona da nominare. Tale peculiarità, come detto, consiste nel fatto che, al momento della stipulazione del definitivo da parte del terzo nominato, risulta esistente la trascrizione di un pignoramento immobiliare conseguito – proprio sull’immobile promesso in vendita – dal creditore dei promittenti alienanti.
Si tratta, pertanto, di stabilire se la “presunzione di conoscenza legale” del pignoramento immobiliare, nascente dall’avvenuta trascrizione, valga a far presumere “iuris tantum” – come ipotizza l’odierno ricorrente – la consapevolezza, in capo a chi acquisti il bene, del pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore del proprio dante causa.
La soluzione dipende, all’evidenza, dal significato da attribuire al requisito dell’azione revocatoria consistente nella “consapevolezza” del pregiudizio, menzionato dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 2), prima alinea, ovvero se tale consapevolezza si identifichi in una conoscenza “effettiva” o, invece, anche solo “potenziale”, del carattere pregiudizievole, per le ragioni creditorie, dell’atto dispositivo posto in essere.
Al riguardo, non pare ozioso ricordare come, durante la vigenza del codice civile del 1865, l’utilizzo dell’espressione “in frode ai creditori” nel testo dell’art. 1235 – esso, difatti, in relazione agli atti onerosi, qual è quello che qui interessa, così recitava: “Possono pure i creditori impugnare in proprio nome gli atti che il debitore abbia fatti in frode delle loro ragioni. Trattandosi di atti a titolo oneroso, la frode deve risultare dal canto di ambedue i contraenti. (…)” – facesse inizialmente propendere per un’interpretazione dell’elemento soggettivo della revocatoria, sia per il debitore che per il terzo, che lo identificava nell’intenzione di arrecare danno ai creditori. Nondimeno, parte della dottrina già allora sosteneva che non fosse necessaria l’esistenza di un dolo specifico del debitore (il cd. “animus nocendi”), ritenendo, piuttosto, sufficiente la conoscenza del debitore e del terzo di provocare un pregiudizio alle ragioni dei creditori.
Come noto, la disciplina dell’attuale codice civile ha superato molte delle questioni, visto che in base all’art. 2901, è sufficiente, ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria, che il debitore “conosca” il pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore, mentre solo nell’ipotesi particolare di atto anteriore al sorgere del credito è necessario che l’atto sia “dolosamente preordinato al fine di pregiudicarne il soddisfacimento”. Quanto al terzo, in caso di atto a titolo oneroso successivo al sorgere del credito, è sufficiente che il medesimo sia, del pari, “consapevole del pregiudizio” alle ragioni creditorie.
Ciò che, tuttavia, riporta all’interrogativo sopra formulato, ovvero se la consapevolezza si identifichi nella “conoscenza” o nella “conoscibilità” del carattere pregiudizievole dell’atto.
A favore della prima soluzione, è stato addotto – da una parte della dottrina – il rilievo per cui, avendo il terzo acquistato a titolo oneroso, il sistema privilegia quest’ultimo, facendo salvo il suo acquisto, a meno che si sia reso responsabile di un comportamento contrario a buona fede, evidentemente da intendere in senso “soggettivo”, ovvero come consapevolezza di ledere l’altrui diritto, ritenendosi, peraltro, sufficiente una conoscenza generica, ipotizzabile allorchè “il terzo sappia” (e non, dunque, allorchè possa sapere) che il suo dante causa era debitore e che tramite l’atto sia stata resa più incerta la soddisfazione del credito, non occorrendo, invece, che il terzo conosca anche “precisamente” le ragioni di credito.
Di diverso avviso, tuttavia, è la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato, da tempo, che “il requisito della “scientia fraudis”” non solo “non richiede, a fini della sua concretizzazione, l’esistenza del dolo (ovverosia la volontà concorrente dell’acquirente del bene, oggetto di successiva revocatoria, diretta a pregiudicare le garanzie ed aspettative di coloro che vantano un credito nei confronti dell’alienante)”, ma “neppure la sua consapevolezza circa la realizzazione probabile di tale pregiudizio, essendo sufficiente, anche, l’esistenza nell’acquirente di un mero comportamento colpevole, rappresentato dalla reale possibilità di conoscenza della situazione fraudolenta desumibile da circostanze oggettive secondo il criterio dell'”id quod plerumque accidit”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 9 marzo 1979, n. 1468, Rv. 397798-01). Nondimeno, si è pure precisato come, “ai fini della concretizzazione di detto comportamento colpevole non sia sufficiente l’esistenza di una “culpa levis””, essendo invece “richiesta la concorrenza di quella grave, ovverosia della malafede dell’acquirente” e ciò “considerato il carattere generale, che assume l’art. 1147 c.c., ai fini della determinazione del concetto di malafede, nonchè il principio generale informatore della legislazione civile, che salva eccezione, fa riferimento al criterio del dolo e della colpa grave ogni qualvolta si debba risolvere un conflitto di interessi tra le parti negoziali e i terzi ai fini della tutela dell’affidamento dei medesimi nel caso d’inefficacia o invalidità del negozio giuridico (arg. ex artt. 1415, 1445; 1992, 2652 c.c., art. 2901c.c., u.c., artt. 2913 c.c., ecc..)”. Di conseguenza, “l’esistenza della malafede, seppure sotto il profilo della mera colpa grave, è sufficiente nell’ipotesi di revocatoria – ad escludere ogni fondamento alla tutela del terzo, acquirente del bene, nel caso di suo conflitto con l’interesse del creditore a non veder pregiudicata la funzione di garanzia che i beni del debitore – ex art. 2740 – assicurano al proprio credito” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. n. 1468 del 1979, cit.).
Nel medesimo ordine di idee si è mossa la giurisprudenza successiva, secondo cui per “l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria, allorchè l’atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, è necessaria e sufficiente la consapevolezza di arrecare pregiudizio agli interessi del creditore (“scientia damni”), essendo l’elemento soggettivo integrato dalla semplice conoscenza, cui va equiparata la agevole conoscibilità, nel debitore e, in ipotesi di atto a titolo oneroso, nel terzo di tale pregiudizio” (così Cass. Sez. 3, sent. 1 giugno 2000, n. 7262, Rv. 537106-01, in senso conforme Cass. Sez. 3, sent. 29 luglio 2004, n. 14489, Rv. 575091-01; si veda anche, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 5 luglio 2013, n. 16825, non massimata sul punto).
Nondimeno, questa Corte ha comunque ribadito la necessità che tale mancata conoscenza presenti carattere “colpevole”, sottolineando come “uno degli elementi costitutivi” dell’azione revocatoria, nell’ipotesi di cui all’art. 2901 c.c., comma 1, n. 2), prima alinea, sia “la prova, a carico del creditore, della colpa concreta nella conclusione di un negozio dispositivo di un bene del debitore”, ovvero della “consapevolezza da parte di questi dell’idoneità dell’atto a pregiudicare i diritti dei creditori”, e ciò “in quanto con l’azione revocatoria si esercita una particolare azione di responsabilità aquiliana, mentre la presunzione di buona fede è un principio di carattere generale del nostro ordinamento (art. 12 preleggi, comma 2” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2004, n. 13330, Rv,. 574671-01; in termini analoghi, ovvero sulla necessità “della colpa del terzo nella conclusione del negozio dispositivo”, si veda anche Cass. Sez. 3, sent. 21 aprile 2006, n. 9367, Rv. 589343-01).
7.1.4. Ciò detto, facendo applicazione di tali principi al caso di specie, deve osservarsi come la M., terza acquirente, debba essere certamente ritenuta in colpa per non aver consultato i registri immobiliari, e ciò anche in ragione del fatto che la loro funzione, rispetto alle vicende circolatorie che investono i beni immobili, è proprio quella di “surrogare” l’analoga funzione che la buona fede dell’acquirente (o del cessionario) svolge, invece, rispetto a quelle investano i beni mobili (o i crediti), a norma dell’art. 1153 c.c. (e dell’art. 1264 c.c., comma 2 e art. 1189 c.c.).
Difatti, l’abbandono, negli ordinamenti moderni, del principio romanistico secondo cui “Traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis transferantur” (Diocl. Maxim. CI. 2.3.20), e l’adozione di quello “consensualistico” (art. 1376 c.c.), ha reso, per i beni immobili, impossibile (o meglio, altamente pregiudizievole per le esigenze di certezza dei traffici giuridici), affidarsi alla buona fede – come avviene, invece, quanto ai beni mobili e ai crediti – per la risoluzione dei conflitti tra soggetti titolari di diritti antagonisti.
In questo senso può dirsi, allora, sulla scorta di quanto rilevato dall’odierno ricorrente, che la trascrizione – nel determinare una presunzione legale di conoscenza delle vicende che interessino beni di tale natura – ha l’effetto di escludere la buona fede di chi la ignori, ma non pure, automaticamente, di provare la sua colpa grave.
In altri termini, se la M. è certamente in colpa diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata – per aver confidato sulla professionalità dei soggetti, agenzia immobiliare e notaio, ai quali si era affidata in occasione della stipulazione del definitivo (perchè ritenere il contrario equivarrebbe, di fatto, a “depotenziare” l’efficacia, generale, di pubblicità dichiarativa, propria della trascrizione nei registri immobiliari), affinchè tale colpa possa ritenersi “lieve”, facendo in questo modo “salva” la sua libertà negoziale, occorreva accertare che ella avesse chiesto l’effettuazione di visure o, quantomeno, avesse sollecitato rassicurazioni specifiche circa l’inesistenza di trascrizioni pregiudizievoli per il suo diritto.
Erra, dunque, la sentenza impugnata – e va, pertanto, cassata nella parte in cui ha ritenuto sufficiente ad escludere la “scientia damni” della terza “nominata”, in difetto di ulteriori puntualizzazioni, la circostanza che la stessa ebbe ad affidarsi al notaio rogante e all’agenzia immobiliare in occasione della stipulazione del contratto definitivo.
7.1.5. Alla luce di quanto osservato, la sentenza impugnata va, dunque, cassata, innanzitutto per non aver condotto la verifica della “scientia damni”, in via di priorità, con riferimento alla posizione dello stipulante (il Ma.), in occasione della conclusione del contratto preliminare.
Non osta, peraltro, a tale esito la constatazione che il dedotto vizio di sussunzione è stato prospettato sulla base di ragioni giuridiche diverse da quella appena illustrata, e ciò perchè, “nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto” (così Cass. Sez. 3, sent. 22 marzo 2007, n. 6935, Rv. 597297-01; in senso analogo Cass. Sez. 6-3, ord. 17 maggio 2011, n. 10841, Rv. 617225-01; Cass. Sez. 6-3, sent. 14 febbraio 2014, n. 3437, Rv. 629913-01; Cass. Sez. 3, ord. 26 luglio 2017, n. 18775, Rv. 645168-01).
Alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, è innanzitutto demandato – quale giudice del rinvio – siffatto accertamento.
Ove tale la verifica circa lo stato soggettivo del Ma. non riscontri la ricorrenza della “scientia damni”, la Corte felsinea dovrà procedere alla verifica della stessa in capo alla terza “nominata” M. alla stregua del principio di diritto:
“in caso di esercizio dell’azione revocatoria avente ad oggetto il contratto definitivo di compravendita immobiliare concluso nelle forme di cui all’art. 1401 c.c., qualora l’immobile compravenduto sia stato oggetto di pignoramento trascritto anteriormente alla trascrizione del contratto definitivo, ma posteriormente alla trascrzione del preliminare, la verifica della “scientia damni” in capo alla terza nominata (da compiersi solo nell’ipotesi in cui analoga verifica, già effettuata nei riguardi dello stipulante e con riferimento al momento della conclusione del contratto preliminare, abbia dato esito negativo), deve essere diretta ad evidenziare se la colpa della stessa, nel non aver consultato i registri immobiliari, possa assumere i connotati della lievità, idonea a giustificare la tutela del suo affidamento”.
7.2. Il terzo motivo resta assorbito dall’accoglimento dei primi due, in applicazione del principio secondo cui “l’accoglimento di uno dei motivi del ricorso, con la conseguente cassazione con rinvio della causa, comporta l’assorbimento dell’ulteriore mezzo di gravame sulla ripartizione dell’onere delle spese di lite, in quanto la relativa censura è diretta contro una statuizione che, per il suo carattere accessorio, è destinata ad essere travolta dall’annullamento che viene disposto dalla sentenza impugnata, a seguito del quale la liquidazione delle spese delle precorse fasi del giudizio va effettuata dal giudice di rinvio, tenendo conto dell’esito finale del giudizio” (Cass. Sez. 6-2, ord. 6 febbraio 2017, n. 3069, Rv. 642575-01).
8. Le spese del presente giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, dichiarando assorbito il terzo, e, per l’effetto, cassa in relazione la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione, per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.
Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 11 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2020
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