Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.12718 del 25/06/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9321-2014 proposto da:

S.S., R.R., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA FILIPPO NICOLAI 22, presso lo studio dell’avvocato MARIO FANTACCHIOTTI, rappresentate e difese dall’avvocato FRANCO BOLDRINI;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 978/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 02/12/2013 R.G.N. 207/2013.

FATTI DI CAUSA

1. La corte d’appello di Ancona, con sentenza numero 278/2013, in accoglimento dell’appello proposto dal Ministero dell’interno e riformando la sentenza di primo grado, ha respinto le originarie e domande proposte dalle lavoratrici S. e R., volte al riconoscimento della declaratoria dell’illegittimità delle loro assunzioni come dipendenti con contratto a termine più volte reiterati e la condanna del Ministero risarcimento del danno (liquidato in primo grado della misura di 15 mensilità);

2. A fondamento del decisum, la Corte territoriale ha ritenuto, per quanto qui rileva, “non corretto l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno in misura forfettaria, non corrispondente ad alcun criterio legale applicabile al caso, quale sarebbe, invece, il risarcimento alla stregua del criterio, adeguato, congruo e legalmente fondato, che si riferisce alla illegittima differenziazione tra le retribuzioni erogate, e quelle spettanti ai dipendenti a tempo indeterminato”;

3. Avverso la decisione di secondo grado le ricorrenti in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi;

4. Il ministero dell’Interno è rimasto intimato, depositando mero atto per la eventuale discussione all’udienza pubblica;

5. il P.G. non ha formulato richieste scritte 6. Le ricorrenti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Sintesi dei motivi:

7. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., le ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 365 del 2001, art. 36, del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86 comma 9, della clausola cinque della direttiva 1999 /70 UE sul lavoro a tempo determinato e dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 che figura in allegato alla direttiva citata;

si dolgono nello specifico le ricorrenti che la corte d’appello avrebbe sostanzialmente negato loro il diritto al risarcimento del danno sancito dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione.

8. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, le ricorrenti deducono quanto oggetto del primo motivo sotto il profilo della omessa e carente o comunque insufficiente motivazione.

9. Con il terzo motivo le ricorrenti, senza formulare una specifica censura chiedono che questa corte, decidendo nel merito, ribadisca il risarcimento del danno già pronunciato dal Tribunale di Ancona, ove ritenuto sanzione adeguata o indichi quale sia la sanzione adeguata;

10. le doglianze di cui al primo motivo sono in parte fondate alla luce di quanto precisato da questa Corte nella decisione a Sezioni unite del 15 marzo 2016, n. 5072;

in tale pronuncia è stato innanzitutto evidenziato che il divieto, per le pubbliche amministrazioni, di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato è rimasto come una costante più volte ribadita dal legislatore sicchè non può predicarsi la conversione del rapporto quale sanzione dell’illegittima apposizione del termine al rapporto di lavoro o comunque dell’illegittimo ricorso a tale fattispecie contrattuale;

d’altra parte il rispetto della normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato è risultato essere presidiato – oltre che dall’obbligo di risarcimento del danno in favore del dipendente – anche da disposizioni al contorno che fanno perno soprattutto sulla responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine. Sicchè può dirsi che l’ordinamento giuridico prevede, nel complesso, ‘misure energichè (come richiesto dalla Corte di giustizia, sentenza 26 novembre 2014, C- 22/13 ss., Mascolo), fortemente dissuasive, per contrastare l’illegittimo ricorso a I contratto di lavoro a tempo determinato; ciò assicura la piena compatibilità comunitaria, sotto tale profilo, della disciplina nazionale;

4.3. la medesima pronuncia ha richiamato la decisione della Corte costituzionale (sent. 27 marzo 2003, n. 89) che ha escluso ogni contrasto con gli artt. 3 e 91 Cost. del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, nella parte in cui tale ultima norma non consente, a differenza di quanto accade nel rapporto di lavoro privato, che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori possa dar luogo a rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni;

è, infatti, giustificata la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di quelle disposizioni conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, dato che il principio dell’accesso mediante concorso – enunciato dall’art. 97 Cost., a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – rende non omogeneo il rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al rapporto alle dipendenze di datori privati. In particolare nella cit. pronuncia la Corte ha enunciato, come criterio generale, che “(…)il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello (…) dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97 Cost., comma 3” ed ha sottolineato che “l’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., comma 1, di per sè rende palese la non omogeneità – sotto l’aspetto considerato – delle situazioni poste a confronto dal rimettente e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusiva mente risarcitorio, in luogo della conversione (in rapporto) a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati”;

in termini inequivocabili la Corte ha quindi escluso, sotto questo profilo, l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, cui il principio del concorso è del tutto estraneo;

anche la successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito il principio del pubblico concorso, quale mezzo ordinario e generale di reclutamento del personale delle pubbliche amministrazioni, principio che risponde alla finalità di assicurare “il buon andamento e l’efficacia dell’Amministrazione”, valori presidiati dal primo e dall’art. 97 Cost., comma 3 (sentenze n. 190 del 2005, n. 205 e n. 34 del 2004);

sempre nella suddetta decisione a Sezioni unite è stato anche evidenziato che la Corte dii giustizia, nell’ordinanza dicembre 2013, Papalia, C- 50/13, che richiama precedenti enunciati della stessa Corte (cfr. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04; del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardina, C-53/04; Vassallo, C-180/04, e del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07; nonchè ordinanze del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C- 364107; del 24 aprile 2009, Koukou, C519/08; del 23 novembre 2009, Lagoudakis e a., da C-162108, e del 1 ottobre 2010, Affatato, C-3/10), ha ribadito che la clausola 5 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999,n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) non stabilisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato;

la direttiva del 1999 non contempla alcuna ipotesi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato così “lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia” e neppure contiene una disciplina generale del contratto a tempo determinato, ma pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5);

questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5: precisa infatti la Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.) che “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”;

quindi la compatibilità comunitaria di un regime differenziato pubblico/privato (e così il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5) è un punto fermo, che si aggiunge alla compatibilità interna con il canone costituzionale del principio di eguaglianza (Corte Cost. n. 89/ 2003, cit.);

è stato poi chiarito che le considerazioni svolte sull’obbligo del concorso pubblico e sul conseguente divieto di conversione del rapporto da tempo determinato in tempo indeterminato nel caso di rapporto con pubbliche amministrazioni consentono di collocare fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto;

questa è esclusa per legge e tale esclusione – come detto – è legittima sia secondo i parametri costituzionali sia secondo quelli Europei: non ci può essere risarcimento del danno per il fatto che la norma non preveda un effetto favorevole per il lavoratore a fronte di una violazione di norme imperative da parte delle pubbliche amministrazioni;

quindi il danno non è la perdita del posto di lavoro a tempo indeterminato perchè una tale prospettiva non c’è mai stata;

come è stato precisato, il danno è altro;

il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem, subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi;

si può ipotizzare una perdita di chance (qualora le energie lavorative del dipendente sarebbero potute essere liberate verso altri impieghi possibili ed in ipotesi verso un impiego alternativo a tempo indeterminato);

ma neppure può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va anche al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore;

tuttavia l’esigenza di conformità alla cit. direttiva del 1999 richiede, in analogia con la fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, costituita dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, di individuare la misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, nell’esonero dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo;

ad avviso delle Sezioni unite, “la trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice: la quale si ferma qui e non si estende anche alla regola della conversione, pure prevista dall’art. 32, comma 5, cit., perchè – si ripete – la mancata conversione è conseguenza di una norma legittima, che anzi rispecchia un’esigenza costituzionale, e che non consente di predicare un (inesistente) danno da mancata conversione”;

è stato così conclusiva mente affermato che: “il lavoratore pubblico – e non già il lavoratore privato – ha diritto a tutto il risarcimento del danno e, per essere agevolato nella prova (perchè ciò richiede l’interpretazione comunitaria mente orientata), ha intanto diritto, senza necessità di prova alcuna per essere egli, in questa misura, sollevato dall’onere probatorio, all’indennità risarcitoria ex art. 32, comma 5” e che tuttavia “non gli è precluso di provare che le chances di lavoro che ha perso perchè impiegato in reiterati contratti a termine in violazione di legge si traducano in un danno patrimoniale più elevato”;

4.16. nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso il risarcimento del danno in contrasto con i suddetti principi;

5. in conclusione va accolto, in parte qua, il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei restanti motivi e la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio a alla Corte di appello di Ancona che deciderà la causa adeguandosi al seguente principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8”;

il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Ancona in diversa composizione anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 19 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020

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