LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3520-2015 proposto da:
U.R.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO MASSIMO n. 45, presso lo studio dell’avvocato LUIGIA MATTEO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GALLUCCI;
– ricorrente principale –
contro
UNIVERSITA’ DEL SALENTO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;
– controricorrente ricorrente incidentale –
e contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, CARLA D’ALOISIO, ESTER ADA VITA SCIPLINO, EMANUELE DE ROSE;
– resistente con mandato –
avverso le sentenze non definitiva n. 3837/2012, depositata il 10/12/2012, e definitiva n. 2002/2014, depositata il 25/07/2014, della CORTE D’APPELLO di LECCE.
RILEVATO
CHE:
1. la Corte d’Appello di Lecce, adita con appello principale dall’Università del Salento e con impugnazione incidentale da U.R.A., con la sentenza non definitiva del 10 dicembre 2012 ha accolto parzialmente entrambe le impugnazioni e, esclusa la giurisdizione del giudice ordinario per il periodo 5 novembre 1992/31 dicembre 1993, ha riformato in parte la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato il diritto della ricorrente al trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito ed aveva condannato l’Università al pagamento delle differenze retributive maturate dal 3 giugno 1998, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria, nonchè ad effettuare la regolarizzazione della posizione contributiva;
2. la Corte territoriale ha ritenuto applicabile alla fattispecie il D.L. n. 2 del 2004, art. 1 in quanto riferibile all’intera categoria dei collaboratori ed esperti linguistici, a prescindere dalla loro nazionalità ed anche se dipendenti da Università diverse rispetto a quelle indicate nella disposizione;
3. ha affermato l’unicità del rapporto sin dall’anno accademico 1994-1995, ed a tal fine ha valorizzato la mancata contestazione sul tipo di attività svolta dalla dipendente, e, sempre sulla base del principio di non contestazione, ha ritenuto la natura subordinata delle prestazioni rese in forza di contratti stipulati ex art. 2222 c.c. traendone, come conseguenza, il diritto dell’appellante incidentale a percepire per le 340 ore lavorate formalmente quale lavoratrice autonoma (160 ore complessive per i tre contratti dell’anno accademico 2000/2001 e 180 ore nell’anno accademico 2005/2006) una retribuzione parificata a quella del ricercatore confermato a tempo definito;
4. il giudice d’appello ha ritenuto che la U. non potesse rivendicare l’indennità prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32 perchè la stessa presuppone la conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato mentre nella fattispecie era stata solo dichiarata la “unificazione di contratti ex art. 2222 c.c.”;
5. infine ha escluso il cumulo di interessi legali e rivalutazione monetaria sulle somme da quantificare all’esito di consulenza tecnica d’ufficio disposta con separata ordinanza;
6. con la sentenza definitiva del 25 luglio 2014 la Corte territoriale ha condannato l’Università al pagamento della somma di Euro 26.374,38, comprensiva di interessi legali sino al 6 giugno 2014, nonchè della contribuzione previdenziale dovuta, ed ha precisato in motivazione che l’importo da versare all’appellante incidentale doveva intendersi al netto degli oneri contributivi;
7. per la cassazione della sentenza U.R.A. ha proposto ricorso affidato a nove motivi, ai quali ha replicato l’Università del Salento, che a sua volta ha proposto ricorso incidentale sulla base di tre censure, contrastate dalla U. con controricorso;
8. l’INPS ha depositato procura apposta in calce alla copia notificata del ricorso principale.
CONSIDERATO
CHE:
1. con il primo motivo del ricorso principale è eccepita la nullità parziale della sentenza definitiva per contraddittorietà della motivazione, rilevante ex art. 132 c.p.c., in quanto la Corte territoriale, nel fare propria la seconda ipotesi prospettata dal CTU, non ha chiarito se la scelta operata si riferiva alle due diverse soluzioni richiamate a pag. 8 della motivazione o a quelle alle quali era stato fatto cenno al punto 4 di pag. 9 e pertanto la sentenza appare contraddittoria quanto alla questione relativa alla possibilità per il datore di lavoro di trattenere i contributi a carico del dipendente in caso di pagamento tardivo;
2. la seconda censura, formulata in via subordinata, addebita alla Corte territoriale la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1952, artt. 19 e 23 perchè nei casi di inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di versare i contributi nei termini previsti dalla legge, l’obbligazione grava unicamente sul datore il quale non può rivalersi nei confronti del lavoratore;
3. con la terza critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente principale si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 112,345 e 378 c.p.c. e, richiamate le conclusioni del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, sostiene che era stata formulata domanda di condanna generica al pagamento delle differenze retributive e, pertanto, la Corte d’appello non poteva di sua iniziativa liquidare la somma asseritamente dovuta;
3.1. aggiunge che con l’atto di appello era stata sollecitata l’ammissione di una consulenza tecnica, ma la richiesta doveva intendersi limitata al corrispettivo dovuto per le 340 ore lavorate sulla base di contratti formalmente qualificati di lavoro autonomo;
4. il quarto motivo del ricorso principale denuncia la violazione, sotto altro profilo, degli artt. 112,345 e 378 c.p.c. e sostiene che l’oggetto dell’intero giudizio di appello era stato limitato dalle parti esclusivamente alla determinazione ed al pagamento delle ulteriori 340 ore prestate in aggiunta all’orario previsto per il collaboratore e, quindi, la Corte territoriale non poteva provvedere alla quantificazione delle differenze retributive già riconosciute in virtù della sentenza generica di primo grado;
5. con la quinta censura la U. si duole della violazione della L. n. 335 del 1995 e dell’art. 2120 c.c. e deduce che ha errato il consulente tecnico nell’individuazione dell’aliquota a carico del lavoratore, fissata all’8,75%, anzichè nella misura dell’8,89%;
5.1. aggiunge che l’ammontare della ritenuta risultava dalle buste paga in atti ed era stata sempre operata dall’Università, in considerazione della natura privatistica del rapporto di lavoro, tenendo conto della disciplina vigente per i lavoratori assicurati presso l’Inps, non già per i dipendenti pubblici iscritti all’Inpdap;
6. il sesto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 195 c.p.c. perchè il consulente tecnico d’ufficio ha depositato l’elaborato peritale senza comunicarlo preventivamente alle parti o ai loro consulenti e, quindi, senza acquisire le loro osservazioni;
7. la settima critica del ricorso principale addebita alla Corte territoriale la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, commessa in quanto l’indennità risarcitoria doveva essere riconosciuta, avendo il Tribunale convertito i contratti a termine in un unico contratto di lavoro a tempo indeterminato;
8. con l’ottavo motivo la ricorrente principale si duole dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ravvisato nell’esistenza, non considerata dalla Corte territoriale, di tre contratti a termine intercorsi fra le parti e convertiti in rapporto a tempo indeterminato;
9. infine con la nona critica la U. denuncia la violazione della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, e sostiene che non può essere applicato il divieto di cumulo fra interessi legali e rivalutazione monetaria in quanto la sentenza della Corte Costituzionale n. 459/2000 lo ha limitato ai soli dipendenti pubblici, qualità questa non attribuibile ai collaboratori esperti linguistici assunti sulla base di contratti di diritto privato;
10. il ricorso incidentale denuncia, con il primo motivo, “insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio” ed addebita alla Corte territoriale di non avere considerato che i contratti di lavoro autonomo si riferivano ad una sporadica attività di insegnamento, diversa dalla prestazione richiesta al collaboratore linguistico, attività che era stata retribuita con lo specifico compenso stabilito nei contratti stessi;
11. l’Università si duole, poi, con il secondo motivo della violazione dell’art. 112 c.p.c. e sostiene che nel ricorso di primo grado la ricorrente aveva dedotto che il rapporto di lavoro aveva avuto inizio il 23 maggio 1995, sicchè la Corte d’appello non poteva individuare, ai fini della quantificazione delle spettanze retributive, la data di decorrenza del rapporto stesso nel 1 gennaio 1994;
12. infine con il terzo motivo la ricorrente incidentale denuncia “violazione di legge-applicazione dei contributi Inpdap anzichè Inps” e rileva che erroneamente il CTU ha applicato le ritenute dovute per il personale docente, non considerando che il contratto con il collaboratore esperto linguistico ha natura di diritto privato;
13. preliminarmente occorre rilevare che la cognizione di questa Corte, limitata dai motivi di ricorso, non può estendersi alle statuizioni che non sono state oggetto di impugnazione da parte dell’Università del Salento, sulle quali si è formato giudicato interno;
13.1. non può quindi, essere rimessa in discussione la ritenuta applicabilità del D.L. n. 2 del 2004 anche ai collaboratori di lingua italiana, impiegati nei corsi dedicati agli stranieri, che non avessero mai rivestito la qualifica di lettore D.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 28, nè è consentito statuire sull’interpretazione che della norma ha dato la Corte territoriale, la quale sulla stessa ha fondato il diritto della U. a percepire per l’intero arco temporale in discussione un trattamento retributivo parametrato a quello riservato al ricercatore confermato a tempo definito;
14. entrambi i ricorsi presentano profili comuni di inammissibilità, perchè le censure risultano formulate senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;
14.1. è noto che nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c. perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e, pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti è necessario che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto, mediante la trascrizione delle parti rilevanti, precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli stessi siano stati acquisiti al processo;
14.2. non è sufficiente che la parte assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, riguarda le condizioni di ammissibilità del ricorso mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento, sempre che lo stesso sia stato specificamente indicato nell’impugnazione (sulla non sovrapponibilità dei due requisiti cfr. fra le tante Cass. 28.9.2016 n. 19048);
14.3. i richiamati principi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite in recente decisione con la quale si è affermato che “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. S.U. n. 34469/2019);
14.4. il requisito imposto dal richiamato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo, rispetto ai quali la Corte è giudice del “fatto processuale”, perchè l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
14.5. il ricorrente, quindi, non è dispensato dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. fra le più recenti Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
15. egualmente comune a più motivi è il rilievo che, all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alla fattispecie ratione temporis, non è più denunciabile il vizio di omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, perchè rileva solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia carattere decisivo ed abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, omesso esame al quale non può essere assimilata la mancata valutazione di elementi istruttori qualora il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la decisione non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata);
16. sulla base dei richiamati principi, ribaditi dal Collegio, devono essere dichiarati inammissibili tutti i motivi rispetto ai quali assume rilievo il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio, recepita dalla Corte territoriale che, con la sentenza definitiva, alla stessa ha rinviato per motivare la quantificazione in Euro 26.374,38 della somma complessivamente spettante alla U.;
16.1. le ricorrenti, pur dolendosi dell’errata liquidazione e imputazione degli oneri contributivi, non riportano nel ricorso principale ed in quello incidentale le parti rilevanti dell’elaborato peritale, necessarie per consentire alla Corte la preliminare verifica sulla decisività e sulla rilevanza delle censure, verifica che, a fronte di una decisione sostanzialmente motivata attraverso un rinvio per relationem, non può essere condotta ove si ignori quale sia, rispetto alla questione specificamente dedotta, il contenuto dell’atto richiamato;
16.2. la carenza si riflette anche sul secondo motivo del ricorso principale in quanto il mancato assolvimento degli oneri di specificazione e di allegazione non permette di comprendere se ed in quale misura gli oneri contributivi siano stati posti a carico, integralmente o parzialmente, del datore di lavoro e, pertanto, di valutare se la questione di diritto prospettata abbia effettiva rilevanza nella fattispecie;
16.3. nel giudizio di cassazione l’interesse all’impugnazione, che va valutato in relazione ad ogni singolo motivo, deve essere apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica (cfr. Cass. n. 20689/2016, Cass. n. 15253/2010, Cass. n. 13373/2008; Cass. n. 11844/2006) e pertanto è onere del ricorrente indicare nel ricorso, nel rispetto del principio di completezza, tutti gli elementi che consentano alla Corte di apprezzare le conseguenze che potrebbero derivare dall’accoglimento del motivo e dalla cassazione della sentenza impugnata;
16.4. in via conclusiva la mancata specifica indicazione dell’elaborato peritale determina l’inammissibilità del primo, del secondo, del quinto motivo del ricorso principale nonchè della terza censura formulata con l’impugnazione incidentale;
17. non possono essere scrutinate nel merito, perchè non superano la preliminare verifica di ammissibilità, le doglianze formulate con il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale, con le quali si addebita alla Corte territoriale la violazione del principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato;
17.1. il ricorso, infatti, si limita a riportare uno stralcio minimo delle conclusioni dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado e dell’appello incidentale, sicchè non è possibile verificare ex actis se, come asserito, la domanda di quantificazione delle differenze retributive e l’istanza istruttoria di ammissione della consulenza tecnica d’ufficio fossero state limitate alle sole 340 ore prestate sulla base dei contratti formalmente stipulati ex art. 2222 c.c. e dei quali era stata contestata la qualificazione;
17.2. a soli fini di completezza si osserva che la condanna generica richiede un’espressa istanza in tal senso della parte interessata, perchè il legislatore, pur prevedendo la possibilità della separazione del giudizio sull’an da quello sul quantum ha voluto privilegiare, per quanto possibile, la concentrazione e l’unificazione dei giudizi, con la conseguenza che, ove l’attore richieda la condanna del convenuto al pagamento di una somma determinabile, non riservandone espressamente la liquidazione ad altro giudizio, il giudice è tenuto a decidere anche in ordine al quantum (Cass. n. 6517/2012; Cass. n. 17250/2002);
18. in relazione al sesto motivo occorre premettere che l’omesso invio alle parti della bozza di relazione redatta dal consulente tecnico d’ufficio dà luogo ad una nullità a carattere relativo, suscettibile di sanatoria se il vizio non è eccepito nella prima difesa utile successiva al deposito della perizia (Cass. n. 23493/2017);
18.1. ne discende che la doglianza può essere valutata solo qualora il ricorrente alleghi e dimostri di avere impedito la sanatoria, ossia di avere tempestivamente eccepito la nullità, e di essere stato pregiudicato dalla stessa, evenienza, quest’ultima, che non ricorre nei casi in cui il giudice abbia assicurato il contraddittorio, sia pure in un momento successivo al deposito dell’elaborato;
18.2. le richiamate condizioni non sussistono nella fattispecie, sicchè va esclusa ogni rilevanza del denunciato error in procedendo;
19. sono inammissibili anche il settimo e l’ottavo motivo, con i quali si censura il capo della sentenza impugnata che ha respinto la domanda volta ad ottenere la condanna dell’Università al pagamento dell’indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32;
19.1. la Corte territoriale, infatti, ha escluso che detta domanda fosse stata formulata in relazione ai contratti a termine intercorsi fra le parti, riferendola, invece, a quelli qualificati di collaborazione autonoma, e la ricorrente non riporta nel ricorso il contenuto degli atti processuali (ricorso di primo grado, sentenza del Tribunale, appello incidentale) necessari per valutare se ed in quali termini la domanda in questione fosse stata proposta nel giudizio di primo grado e reiterata in grado di appello;
19.2. a tal fine non sono sufficienti i minimi stralci trascritti nel corpo del motivo che non consentono di comprendere quale fosse la causa petendi dell’istanza risarcitoria, perchè le conclusioni dell’appello incidentale non specificano nulla al riguardo, e non dimostrano che la stessa fosse già stata formulata, nei termini qui sostenuti, con il ricorso di primo grado (gli stralci riportati alle pagine 17 e 18 e le conclusioni trascritte a pag. 10 non contengono alcun richiamo all’indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32);
20. infine è infondato il nono motivo in relazione al quale il Collegio intende dare continuità all’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la sentenza della Corte costituzionale n. 459/2000, per la quale il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non opera per i crediti retributivi dei dipendenti privati, non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici per i quali ricorrono, ancorchè i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le “ragioni di contenimento della spesa pubblica” che sono alla base della disciplina differenziata secondo la ratio decidendi prospettata dal giudice delle leggi (Cass. n. 4705/2011; Cass. n. 535/2013; Cass. n. 20765/2018; Cass. n. 18897/2019; Cass. n. 28498/2019);
21. la prima censura del ricorso incidentale presenta plurimi profili di inammissibilità perchè esorbita dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, precisati al punto 15, sollecita un accertamento di fatto riservato al giudice del merito ed inoltre non coglie pienamente la ratio della sentenza impugnata, che, quanto all’attività resa sulla base dei contratti formalmente qualificati di lavoro autonomo, valorizza la mancata contestazione delle allegazioni contenute nel ricorso di primo grado;
21.1. al riguardo va rammentato che la proposizione nel giudizio di cassazione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 c.p.c., n. 4, e determina l’inammissibilità, in tutto o in parte del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (cfr. fra le tante Cass. n. 20910/2017, Cass. n. 17125/2007, Cass. S.U. n. 14385/2007);
22. infine le ragioni illustrate nei punti da 14.1. a 14.5 inducono a ritenere inammissibile anche la seconda critica del ricorso incidentale, perchè l’Università si è limitata a riportare nel corpo del motivo solo una frase dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, non sufficiente a far comprendere in quali termini fosse stata formulata la domanda di differenze retributive;
23. in sintesi il ricorso principale deve essere rigettato e quello incidentale va dichiarato inammissibile, sicchè si configura soccombenza reciproca che giustifica l’integrale compensazione fra le parti delle spese del giudizio di legittimità;
24. sussistono in relazione ad entrambi i ricorsi le condizioni processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile l’incidentale. Compensa integralmente fra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quella incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso principale e per l’incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 29 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2020
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