LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 12929/2019 R.G. proposto da:
B.L.M., rappresentata e difesa dall’Avv. Claudio Conti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Stimigliano, n. 5;
– ricorrente –
contro
M.C., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Bruno Nigro e Giovanni Sicari, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, via Virginio Orsini, n. 25;
– controricorrente –
e nei confronti di:
Sc.An., Ba.An., S.G., Sa.Gi., s.a. e S.S.;
– intimati –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, n. 6844/2018, depositata il 25 ottobre 2018;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 febbraio 2020 dal Consigliere Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Roma ha dichiarato inammissibile il gravame proposto da B.L.M. avverso la sentenza che l’aveva condannata, in solido con B.A., al pagamento in favore di Ba.An., S.G. e Sa.Gi., Sc.An., s.a. e S.S., della somma di Euro 14.562,75, oltre interessi, poichè dai primi indebitamente percepita, a titolo di canoni di locazione, nel periodo compreso tra il 18/12/2007 e il 15/7/2009, in relazione ad immobile che, a conclusione di giudizio di divisione ereditaria, era stato assegnato a questi ultimi in proprietà anche per l’indicato periodo temporale.
Ha infatti rilevato che “il Tribunale, nell’individuare la responsabilità solidale della odierna appellante con il fratello B.A., ha individuato due ordini di ragioni, quali la stipula del contratto di locazione (nel quale, come risulta per tabulas, si dà atto dell’avvenuto incasso anticipato dei canoni per il periodo temporale rivendicato dagli originari attori) da parte della stessa B.L.M., nonchè la stipula della transazione tra la stessa odierna appellante ed il fratello oggi appellato per la suddivisione al 50% tra loro dei debiti provenienti dalla loro dante causa (nei quali rientravano anche i detti canoni).
“Avverso questi argomenti posti a fondamento della decisione nulla ha articolato in sede di gravame la B., con la conseguenza che detti passaggi motivazionali sono ormai definitivi.
“Ne consegue l’assoluta inconferenza della doglianza formulata nell’atto di appello, peraltro infondata alla luce della quietanza sottoscritta (nel contratto di locazione) dalla stessa appellante per l’incasso anticipato dei canoni”: fermo restando – soggiungono i giudici a quibus – che “le questioni relative ai rapporti interni tra i due obbligati sono estranee a questo giudizio”.
2. Avverso tale decisione B.L.M. propone ricorso per cassazione con unico mezzo, cui resiste M.C., vedova ed erede di B.A. (deceduto nelle more del giudizio d’appello), depositando controricorso.
Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.
3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
La ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con l’unico motivo la ricorrente lamenta che “la sentenza è carente… di analisi”.
Afferma che “(dire) che l’appello sia inammissibile, non se ne vede la ragione”.
Manca, secondo la ricorrente, “il dato fondamentale: la qualificazione della domanda attrice”.
Premesso che non è contestato il diritto degli odierni intimati ad ottenere la restituzione dei canoni percepiti in relazione ad immobile che, con la sentenza definitiva di divisione, è risultato ad essi assegnato, rileva che in propria difesa essa ha sempre sostenuto, “fin dalla costituzione (si sottintende, in primo grado, n.d.r.)” di avere “solo sottoscritto il contratto (di locazione, n.d.r.)” ma di non avere “mai percepito tali somme”.
Rimarca che la propria tesi difensiva, asseritamente mai affrontata dai giudici di merito, è che “obbligato, nei confronti di chi lamenta un indebito, è unicamente chi ha riscosso materialmente la somma” e che questi, nella specie, è stato il solo B.A., come da lui stesso ammesso in giudizio.
2. Il motivo è inammissibile.
La ragione posta a fondamento della decisione impugnata è chiaramente di natura processuale: inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi.
Con tale ratio decidendi l’odierna ricorrente non si confronta affatto, ma, oltre a enunciare in apertura una doglianza (“carenza di analisi”) palesemente generica e non riconducibile ad alcuno dei vizi tipizzati nella art. 360 c.p.c., si limita a riproporre la medesima tesi difensiva (che si risolve nella negazione della titolarità, dal lato passivo, dell’obbligazione restitutoria) già giudicata, in appello, priva di rilievo censorio, poichè meramente assertiva e non prospettante pertinenti ragioni di critica nei confronti della sentenza di primo grado (che quella tesi aveva, nel merito, respinto per l’emergenza dal processo di elementi che quella titolarità, seppure di carattere solidale, al contrario dimostravano).
Le stesse considerazioni che nel merito conducono a disattendere detta tesi difensiva sono comunque, ad abundantiam, ribadite anche dal giudice d’appello e anche rispetto a tale ulteriore e autonoma ratio decidendi la ricorrente omette di confrontarsi, se non alla stregua di generica prospettazione contraria, risolventesi a tutto concedere nella mera inammissibile sollecitazione di una rivisitazione del materiale istruttorio, peraltro evocato (attraverso il riferimento ad ammissioni rese in giudizio dal coobbligato) con palese inosservanza degli oneri di specifica indicazione degli atti richiamato, imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
3. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del cit. art. 13, art. 1-bis.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2020