Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.14966 del 14/07/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2940-2017 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA LA SAPIENZA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SICILIA 50, presso lo studio dell’avvocato LUIGI NAPOLITANO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.W., D.C., MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, MINISTERO DELLA SALUTE, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4085/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/07/2016 R.G.N. 4672/2013.

La CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

RILEVA Che:

con sentenza del 16 gennaio 2013 il giudice del lavoro di Roma rigettava le domande degli attori D.C. e C.W., nei confronti dell’UNIVERSITA’ degli Studi della capitale La Sapienza, nonchè nei riguardi di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri Istruzione – Università e Ricerca, della Salute e dell’Economia e delle Finanze, domande con le quali gli anzidetti istanti avevano chiesto:

a) l’accertamento del vantato diritto a percepire durante i corsi universitari di specializzazione per i laureati in medicina (frequentati dal Dott. C. fino al ***** e dalla Dott.ssa D. dall’anno accademico ***** sino al *****) una retribuzione adeguata e conforme al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data sei luglio 2007, con conseguente condanna dei convenuti, tra loro in solido ovvero pro quota di rispettiva competenza, al pagamento delle differenze retributive oltre accessori di legge;

b) in via subordinata, la condanna della Presidenza del Consiglio al risarcimento dei danni subiti, nella misura indicata dai predetti, per effetto della mancata tempestiva attuazione, da parte dello Stato italiano, delle direttive 82/76/CE e 16/93/CE;

c) in via ancora più gradata, la condanna dei convenuti, in solido o pro quota, al pagamento di quanto non percepito a titolo di rideterminazione triennale e di indicizzazione annuale della borsa di studio ai sensi del D.Lgs. n. 257 del 1991, 0art. 6.

Secondo il primo giudicante, tra l’altro, la pretesa del Dott. C. all’adeguamento della borsa di studio ex cit. art. 6, comma 1, risultava prescritta, in quanto l’unico atto interruttivo prodotto risaliva al due dicembre 2011, mentre nello specifico il corso di specializzazione era terminato il *****. Parimenti, era prescritta la pretesa risarcitoria della Dott.ssa D., poichè la prescrizione decennale, a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, era stata interrotta soltanto con atto di giugno 2011;

la sentenza di primo grado veniva appellata dai soccombenti, per cui la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 4085 del 14 – 23 luglio 2016 (dato atto, tra l’altro, che la Dott.ssa D. aveva prodotto altra pronuncia resa dal giudice del lavoro capitolino, con la quale le era stato già riconosciuto l’invocato risarcimento del danno da mancata attuazione delle direttive comunitarie in materia, con conseguente condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri, rinunciando quindi alla domanda di condanna), in parziale accoglimento dell’interposto gravame, confermata nel resto la decisione gravata, dichiarava il diritto della Dott.ssa D. al risarcimento del danno per mancata attuazione della direttiva n. 82/76/CE riguardo a ciascuno degli anni della durata legale del corso di specializzazione in cardiochirurgia, oltre interessi legali. Dichiarava, inoltre, il diritto del Dott. C. a percepire l’adeguamento triennale della borsa di studio corrispostagli in funzione del miglioramento stipendiale tabellare minimo previsto dalla contrattazione collettiva per il personale medico dipendente dal Servizio Sanitario Nazionale con riferimento al periodo di durata del corso di specializzazione (nello specifico, per il C., anni accademici dal 2001/02 al 2005/06) Per l’effetto, condannava l’UNIVERSITA’ La Sapienza e gli altri convenuti, tra loro in solido, al pagamento delle conseguenti differenze, oltre interessi al tasso legale. Compensate, infine tra le parti le spese di lite per entrambi i gradi del giudizio di merito. Veniva, quindi, esclusa la prescrizione ritenuta dal primo giudicante, avuto riguardo alla costituzione in mora da parte C. in data 10 / 13 giugno (non già due dicembre) 2011, con conseguente tempestiva interruzione entro il quinquennio dalla cessazione del rapporto, risalente al *****. Inoltre, Ministeri e Università risultavano processualmente legittimati dal lato passivo, in quanto tenuti solidalmente al pagamento del compenso dovuto agli specializzandi, assumendo la ripartizione degli adempimenti tra gli enti medesimi una rilevanza meramente interna, come da giurisprudenza di legittimità all’uopo richiamata. Analogamente, veniva esclusa la prescrizione ordinaria per la pretesa risarcitoria azionata dalla D. (in assenza della corresponsione della borsa di studio di cui al D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6), tenuto conto dell’atto di messa in mora pervenuto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il tre agosto 2007, prima quindi del decennio decorrente dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore della L. n. 370 del 1999, il cui art. 11 aveva riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto a favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo. La Corte capitolina, tuttavia, prendeva atto della rinuncia da parte della suddetta appellante della domanda di condanna, avendo ella insistito soltanto per la declaratoria del suo diritto, funzionale alla rimozione della gravata decisione, per lei sfavorevole, avendo ella già ottenuto in data 11 marzo 2015 in altro giudizio, instaurato successivamente a quello di cui a questo processo, sentenza di condanna della Presidenza del Consiglio al risarcimento dei danni per mancata attuazione delle direttive in materia, avendo per di più già ricevuto il pagamento della somma all’uopo liquidata, giusta la nota della stessa Presidenza in data 26 febbraio 2016. Di conseguenza, secondo la Corte d’Appello, nulla ostava, anche ex art. 39 c.p.c., a che, in parziale riforma della sentenza impugnata, fosse dichiarato il solo diritto della Dott.ssa D. al risarcimento del danno per mancata attuazione della direttiva n. 82/76/CE, oltre interessi;

l’anzidetta pronuncia d’appello veniva quindi impugnata dalla UNIVERSITA’ degli Studi di Roma La Sapienza, giusta l’apposita delibera del C.d.A. n. 311/27-09-2016, mediante ricorso per cassazione del 17 gennaio 2017, notificato poi come da relate dei successivi giorni 18 e 23, affidato a tre motivi, evidenziando che “ai fini che qui interessano, (la Corte d’Appello) ha dichiarato il diritto del Dott. C.W. alla rideterminazione triennale della borsa di studio percepita… e ha condannato l’Università La Sapienza, unitamente alle altre amministrazioni intimate, al pagamento delle relative somme, oltre interessi legali”;

il dottor C. e la Dott.ssa D., nonchè la PRESIDENZA del CONSIGLIO dei MINISTRI, il M.I.U.R., il M.E.F. ed il MINISTERO della SALUTE sono rimasti intimati;

parte ricorrente, infine, ha depositato memoria illustrativa.

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo l’Università ha denunciato violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6 e della L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 6, comma 2, – ferma restando l’insussistenza del diritto alla rideterminazione della borsa di studio già percepita (come da successive censure), risultando ad ogni modo errata l’identificazione del soggetto di diritto eventualmente tenuto al pagamento delle relative somme. In proposito ha evidenziato come in base alla normativa di riferimento i relativi oneri finanziari a favore degli specializzandi fossero totalmente a carico del bilancio dello Stato, più precisamente del fondo sanitario nazionale, capitolo di competenza del Ministero dell’Economia e delle Finanze nonchè del Ministero della Salute. Per contro, la sentenza d’appello aveva genericamente affermato che i Ministeri e l’Università erano processualmente legittimati dal lato passivo, in quanto tenuti solidalmente al pagamento agli specializzandi. Pertanto, ammesso e non concesso che il Dott. C. avesse diritto alla rideterminazione triennale della borsa di studio già percepita, la relativa condanna di pagamento non poteva comunque essere disposta nei confronti dell’Università, pena la patente violazione delle succitate norme di legge. Al riguardo la ricorrente ha richiamato varia giurisprudenza di legittimità, tra cui Cass. nn. 18710 e 12346 del 2016, all’esito della pronuncia delle Sezioni unite n. 2951 del 16 febbraio 2016, citando altresì, altre pronunce laddove il collegio giudicante aveva tuttavia rilevato d’ufficio che la domanda dei medici non poteva essere proposta nei confronti dell’Università degli Studi;

con il secondo motivo parte ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 26 (legge finanziaria 2003);

infine, con la terza doglianza la sentenza impugnata è stata censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., n. 4 nonchè dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

dal complessivo tenore del ricorso ben si comprende come l’impugnazione ivi formalizzata sia stata diretta esclusivamente nei confronti del Dott. C. (e non anche nei riguardi della Dott.ssa D., per la quale del resto la Corte capitolina prendeva atto della succitata distinta pronuncia, a costei favorevole, emessa nei soli riguardi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, cui del resto la stessa Presidenza aveva pure già ottemperato in via amministrativa), sicchè in difetto di pertinenti impugnazioni, dalla parte al riguardo interessata e legittimata, la posizione della Dott.ssa D. risulta chiaramente già definita, almeno per quanto concerne questo processo;

diversamente, invece, va osservato per il Dott. C., nei confronti del quale appare fondato il primo e preliminare motivo di ricorso da parte dell’Università, suscettibile di definire l’impugnazione de qua, in modo autonomo ed indipendente dalle successive due censure, con assorbimento delle stesse (anche per il conseguente venir meno dell’interesse in proposito, ex art. 100 c.p.c. – cfr. infatti sul punto Cass. sez. un. civ. n. 12637 del 19/05/2008: l’interesse all’impugnazione -inteso quale manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire e la cui assenza è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo- deve essere individuato in un interesse giuridicamente tutelabile, identificabile nella concreta utilità derivante dalla rimozione della pronuncia censurata, non essendo sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica). Ne deriva che, una volta esclusa la posizione debitoria di una delle parti convenute in giudizio, in base alle preliminari eccezioni e difese dalla stessa opposte al riguardo, viene meno anche l’esigenza di dover valutare la fondatezza, o meno, delle altre questioni di merito in ordine alla dedotta insussistenza del diritto ex adverso fatto valere;

chiarito quanto sopra, va quindi ribadito l’orientamento di questa Corte, secondo cui in tema di borse di studio per i medici specializzandi, e relativi meccanismi di rivalutazione automatica, istituite dal D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6 e finanziate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sulla base di un decreto interministeriale adottato dal MIUR e dai Ministri della Salute e dell’Economia, sussiste carenza di legittimazione passiva in senso sostanziale dell’Università degli Studi, che ne provvede alla mera corresponsione materiale, senza che le possa essere imputato alcun comportamento inerte in tema di violazione degli obblighi di attuazione e recepimento delle direttive comunitarie in materia (cfr. in part. Cass. lav., sentenza n. 18710 del 28/04 – 23/09/2016: “… Per costante giurisprudenza di questa Corte – assurta al rango di “diritto vivente” – in materia di legittimazione la situazione dell’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa va distinta da quella della titolarità della situazione giuridica sostanziale nel rapporto dedotto in giudizio. Inoltre, è jus receptum che la carenza di legittimazione ad agire (o a contraddire), è rilevabile in ogni grado e stato del giudizio, anche d’ufficio dal giudice, avendo carattere processuale, mentre, per contro, la questione della titolarità del rapporto (tanto attiva che passiva) attiene al merito della decisione e quindi alla fondatezza della domanda in concreto proposta. Di conseguenza – prima della recente sentenza delle Sezioni Unite 16 febbraio 2016, n. 2951 – l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di questa Corte riteneva che configurandosi la contestazione della titolarità del rapporto controverso come una questione che attiene al merito della lite e rientrando nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, doveva formare oggetto di una eccezione in senso stretto da introdurre nei tempi e nei modi previsti per le eccezioni di parte (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2008, n. 355; Cass. 6 marzo 2008, n. 6132; Cass. 15 settembre 2008, n. 23670; Cass. 5 agosto 2010, n. 18207; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2091). Con la suddetta sentenza n. 2951 del 2016 le Sezioni Unite hanno affermato l’infondatezza della tesi della giurisprudenza maggioritaria nella parte secondo cui, dall’esatta affermazione dell’attinenza al merito della suindicata questione si fa derivare la sua ricomprensione nel potere dispositivo delle parti e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata, traendone la conseguenza che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un’eccezione in senso stretto. Le Sezioni unite hanno, quindi, stabilito che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso non deve costituire oggetto di una eccezione in senso stretto ma può essere fatta valere pure oltre i termini previsti per tali eccezioni, può quindi anche essere oggetto di motivo di appello, perchè l’art. 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”, mentre tale carenza è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa. Essa pertanto può essere proposta in ogni fase del giudizio, compreso il giudizio di cessazione, solo nei limiti di tale giudizio e sempre che non si sia formato il giudicato sul punto. Per quel che interessa nel presente giudizio dai suddetti principi si desume che, nella specie, quella oggetto del primo motivo di ricorso non una è questione di legittimazione passiva processuale – come tale attinente all’esistenza del dovere del convenuto di subire il giudizio instaurato dall’attore con una determinata prospettazione del rapporto oggetto della controversia, indipendentemente dall’effettiva sussistenza della titolarità del rapporto stesso – ma è una questione di merito, con la quale l’Università convenuta deduce la propria estraneità a quel rapporto, ossia la mancanza di detta titolarità. 5.2. – Nella prospettazione dell’Università di Milano ricorre, pertanto, una peculiare – e residuale – situazione in cui gli attori, nel proporre la domanda contro l’ente convenuto, hanno preteso l’adempimento di un obbligo che dichiaratamente non gravava sul convenuto (vedi, fra le tante: Cass. 10 gennaio 2008, n. 355; Cass. 14 febbraio 2012, n. 2091 cit.)….6. – La tesi dell’Università ricorrente è fondata. Infatti, come si dirà di seguito, nel presente giudizio si è effettivamente venuta a determinare una situazione nella quale – tanto più dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 2951 del 2016 cit. – l’erronea individuazione della parte titolare, dal lato passivo, del rapporto controverso e quindi capace processualmente a stare in giudizio, può essere proposta dalla parte interessata in ogni fase del giudizio, compreso il giudizio di cessazione, ed è verificabile e rilevabile di ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio – compreso quello di cessazione, salvo il limite del giudicato sul punto, qui non è riscontrabile – sempre che risulti dagli atti di causa (vedi per tutte: Cass. 2 dicembre 2011, n. 25813; Cass. 16 marzo 2009, n. 6348; Cass. 13 ottobre 2009, n. 21703; nonchè Cass. sentenze n. 914 del 1988; n. 5024 del 1995). – Va, infatti, sottolineato che:… c) in particolare, per quanto riguarda le direttive comunitarie, era più che fermo l’indirizzo secondo cui le disposizioni di una direttiva non attuata hanno efficacia diretta nell’ordinamento dei singoli Stati membri – sempre che siano incondizionate e sufficientemente precise e lo Stato destinatario sia inadempiente per l’inutile decorso del termine accordato per dare attuazione alla direttiva, come accade nella specie – ma limitatamente ai rapporti tra le autorità dello Stato inadempiente ed i soggetti privati (cosiddetto efficacia verticale), e non anche nei rapporti interprivati (cosiddetto efficacia orizzontale), non potendo di per sè creare obblighi a carico di soggetti diversi dallo Stato inadempiente (vedi, per tutte: Cass. 27 febbraio 1995, n. 2275; Cass. 22 novembre 2000, n. 15101; Cass. 23 gennaio 2002, n. 752; Cass. 25 febbraio 2004, n. 3762; Cass. 9 novembre 2006, n. 23937; Cass. 14 settembre 2009, n. 23971); d) del resto, tale orientamento era – ed è – del tutto conforme a quanto la Corte di giustizia UE ha affermato da sempre (vedi, tra le più risalenti: CGUE, sentenze 26 febbraio 1986 in causa C-152/84 e 19 novembre 1991 in cause riunite C-6/90 e C-9/90); e) inoltre, all’epoca dell’introduzione del presente giudizio, la giurisprudenza di questa Corte era anche già consolidata nel senso che le Università, dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, non possono essere più configurate come organi dello Stato, essendo divenute enti pubblici autonomi, sotto i profili didattici e scientifici nonchè organizzativi, finanziari, contabili, statutari e regolamentari (Cass. 5 novembre 1999, n. 14442/2011 R.G. Pag. 4 12346; Cass. 5 dicembre 2002, n. 17311; Cass. SU 10 maggio 2006, n. 10700; Cass. 29 luglio 2008, n. 20582; Cass. 21 aprile 2010, n. 9495; Cass. 1 giugno 2012, n. 8824); i) pertanto, all’Università ricorrente non poteva essere ascritta alcuna responsabilità per il pagamento delle somme richieste, tenuto conto che, già sulla base della giurisprudenza della CGUE e dei Trattati, era chiaro che l’obbligo di attuazione e recepimento delle direttive comunitarie in materia di specializzandi doveva farsi ricadere soltanto sullo Stato – di cui le Università non erano più da considerare organi o amministrazioni per effetto della L. n. 168 del 1989 (diversamente da quel che accadeva nel precedente regime) – essendo da escludere che le direttive in argomento fossero idonee a dispiegare un’efficacia orizzontale nei confronti di ente diverso dall’Amministrazione centrale dello Stato; g) era anche pacifica la mancanza di un rapporto di lavoro o di urla forma di parasubordinazione durante il corso di specializzazione, trattandosi di prestazioni non rivolte ad un vantaggio per l’Università, ma alla formazione teorica e pratica degli stessi specializzandi ai quali alla fine del corso viene rilasciato un attestato ed un titolo abilitante (vedi, per tutte: Cass. 18 giugno 1998, n. 6089); h) d’altra parte, l’Università convenuta avrebbe dovuto essere considerata priva di legittimazione passiva pure alla stregua di quanto disposto dal D.Lgs. n. 257 dei 1991 ove è stabilito che i compensi per cui è controversia sono finanziati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze sulla base di un decreto interministeriale adottato dal MIUR e dai Ministri delle Salute e dell’Economia e che la corresponsione materiale, da parte delle Università, delle borse di studio presuppone la ripartizione ed assegnazione in favore degli Atenei dei fondi previsti dalla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 6, comma 2, con decreto del Ministro del tesoro, su proposta dei Ministri dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica e della Sanità; i) ne consegue che, nella vicenda in oggetto, pure nel momento in cui il giudizio è stato introdotto l’assenza di legittimazione sostanziale in capo all’Università non poteva certamente considerarsi “particolarmente ardua, se non aleatoria” (Cass. SU 29 maggio 2012, n. 8516), ma era indubbia, potendo, caso mai, nutrirsi delle incertezze solo sulla identificazione dell’Amministrazione centrale statale da convenire in giudizio… n) ma, nella specie, tale ultima situazione, come si è detto, non era riscontrabile nei confronti delle Università – pacificamente prive di legittimazione sostanziale passiva – potendo, caso mai, riguardare l’individuazione della Amministrazione dello Stato centrale da chiamare in giudizio, visto che solo dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9147 del 2009, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la legittimazione passiva compete alla Presidenza del Consiglio dei ministri (vedi, per tutte: Cass. 17 maggio 2011, n. 10814 e successiva giurisprudenza conforme)… 8.- Invero, le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza 17 aprile 2009, n. 9147) hanno precisato che per effetto dell’omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi) sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno. Tale sentenza ha statuito che il diritto così qualificato è configurabile soltanto nei confronti dello Stato stesso ed ha quindi ribadito la non azionabilità di tale diritto nei confronti delle Università degli Studi, presso le quali i corsi di specializzazione erano stati seguiti, trattandosi di enti privi della relativa legittimazione sostanziale. Successivamente, Cass. 22 ottobre 2009, n. 22440, nel sottolineare specificamente l’esclusione della legittimazione passiva delle Università, ha precisato che il diritto alla reintegrazione per equivalente di quanto non fruito per il tardivo adempimento dell’obbligo di dare attuazione delle direttive comunitarie non può essere fatto valere nei rapporti con organismi diversi dall’Amministrazione centrale dello Stato – come le Università – cui non è imputabile alcun comportamento inerte. Nel corso del tempo tale orientamento si è consolidato, soggiungendosi che la suddetta legittimazione passiva in senso sostanziale, di esclusiva attribuzione dello Stato Italiano, non riferibile alle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita, “neppure correntemente” (vedi, per tutte: Cass. 17 maggio 2011, n. 10814). Successivamente, il tema dell’assoluta carenza di legittimazione in senso sostanziale delle Università veniva nuovamente esaminato e ribadito funditus da Cass. 11 novembre 2011, n. 23576 e, quindi, detta carenza è stata riaffermata da numerosissime ulteriori decisioni, tra le quali: Cass. 9 gennaio 2014, n. 307; Cass. n. 1157 del 2013; n. 238 del 2013; nn. 22037, 22036, 22035, 29329, 21720, 21006 del 2012; nn. 24087, 23577, 23558, 17682 del 2011. Alle cui motivazioni si fa rinvio. Tale orientamento – sviluppatosi sulla base di Cass. SU n. 9147 del 2009 cit., la cui impostazione non è mai stata modificata dalle Sezioni Unite – risulta del tutto conforme al generale canone ermeneutico dell’obbligo degli Stati UE della interpretazione del diritto nazionale in conformità con il diritto comunitario, come interpretato dalla CGUE (vedi, tra le molte, le sentenze della CGUE 5 ottobre 2004, C-397/01-403/01; 22 maggio 2003, C-462/99; 15 maggio 2003, C-160101; 13 novembre 1990, C-106/89), sistematicamente applicato da questa Corte di cassazione (vedi, tra le tante: Cass. SU 14 aprile 2011, n. 8486; Cass. SU 16 marzo 2009, n. 6316; Cass. 18 aprile 2014, n. 9082; Cass. 30 dicembre 2011, n. 30722; Cass. 16 settembre 2011, n. 19017; Cass. 1 settembre 2011, n. 17966; Cass. 9 agosto 2007, n. 17579; Cass. 19 aprile 2001, n. 5776; Cass. 26 luglio 2000, n. 9795; Cass. 10 marzo 1994, n. 2346; Cass. 13 maggio 1971, n. 1378)….

La sentenza impugnata, che ha deciso in difformità, deve pertanto essere cassata, dovendosi dichiarare inammissibile il primo motivo ed accogliere il terzo motivo, assorbiti il secondo ed il quarto motivo (che attengono alla prescrizione degli adeguamenti pretesi ed all’individuazione del sistema di adeguamento). Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto la causa può esser decisa nel merito con rigetto della domanda di adeguamento dell’importo delle borse di studio per il periodo 1999 – 2005 proposta dagli attuali controricorrenti. 10. In conclusione, va accolto il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri. Discende la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ex art. 382 c.p.c., comma 3, considerato che la causa non poteva essere proposta nei confronti dell’Università, con conseguente impossibilità di prosecuzione dell’azione (cfr. Cass. S.U. 9.2.2012, n. 1912)….”. Cfr., in part., Cass. III civ. n. 23558 – 11/11/2011, sopracitata, secondo cui il diritto al risarcimento dei danni per omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie va ricondotto allo schema della responsabilità contrattuale per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria. Ne consegue che, essendo lo Stato italiano l’unico responsabile di detto inadempimento e, dunque, l’esclusivo legittimato passivo in senso sostanziale, non è configurabile una responsabilità, neppure solidale, delle Università presso le quali la specializzazione venne acquisita, con l’ulteriore conseguenza che l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università evocata in giudizio non può giovare all’Amministrazione statale anch’essa convenuta);

pertanto, alla stregua dei richiamati principi di diritto, condivisi dal collegio, relativi alla succitata ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, pienamente condivisa da questo collegio, va accolto il primo ed assorbente motivo di ricorso, di guisa che, non essendo evidentemente perciò necessario alcun ulteriore accertamento in punto di fatto, per quanto concerne la posizione dell’Università (la quale risulta l’unica parte ad aver impugnato l’anzidetta pronuncia d’appello), la causa può essere decisa nel merito, con il conseguente rigetto delle domande (per quanto accolte in secondo grado) del Dott. C., nei confronti quindi esclusivamente dell’Università La Sapienza;

tenuto conto dei pur contrastanti orientamenti interpretativi sortì sull’argomento (v. infatti Cass. lav. n. 16507 del 18/06/2008, secondo cui il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6, comma 3, pone a carico del Ministero del Tesoro, su proposta dei Ministri dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica e della Sanità, l’assegnazione e la ripartizione dei fondi alle Università, alle quali compete, ai sensi del comma 2 della citata norma, la concreta erogazione delle somme in sei rate bimestrali posticipate. Di conseguenza, sia i Ministeri che l’Università sono processualmente legittimati dal lato passivo in quanto tenuti, solidalmente, al pagamento del compenso agli specializzandi, assumendo la ripartizione degli adempimenti tra gli enti medesimi una rilevanza esclusivamente interna. Conformi id. n. 20403 del 22/09/2009 e n. 7753 del 17/05/2012), sussistono valide ragioni per compensare tra le parti anche le spese di questo giudizio di legittimità, con conseguente loro irripetibilità da parte della ricorrente nei confronti dei suddetti intimati;

infine, visto l’esito positivo dell’impugnazione proposta dall’Università, non sussistono i presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore contributo unificato.

PQM

la Corte ACCOGLIE il PRIMO MOTIVO di ricorso, dichiarando assorbiti gli altri. CASSA l’impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, e, DECIDENDO NEL MERITO, RIGETTA le DOMANDE proposte NEI CONFRONTI della RICORRENTE UNIVERSITA’ degli Studi di Roma. Dichiara, inoltre, compensate le relative spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2020

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