Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.5241 del 26/02/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17544-2018 proposto da:

Z.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO MASSIMO N. 95, presso lo studio dell’Avvocato SILVIO CALVOSA, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNICA ELLE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio legale Gerardo Vesci & Partners, e rappresentata e difesa dall’Avvocato GERARDO VESCI in virtù di delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1729/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 02/05/2018 R.G.N. 224/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

RILEVATO

CHE:

1. Con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48 Z.F. ha adito il Tribunale di Roma al fine di sentire dichiarare inesistente o nullo il licenziamento comunicatole, telefonicamente, dalla Unica Elle srl, nella serata del 31.7.2005 e reiteratole oralmente il 3.8.2015, con ogni condanna consequenziale.

2. La ricorrente aveva dedotto che il 30.7.2015 era stata invitata a recarsi presso un ufficio sito in ***** per ricevere alcuni pagamenti arretrati e, quando il giorno successivo era giunta sul posto, aveva scoperto che si trattava della sede di una associazione sindacale; in quella occasione era stata tratta in inganno perchè indotta a firmare una conciliazione sindacale “senza essere stata posta nelle condizioni di leggere il contenuto del documento” e senza sapere che dal giorno seguente sarebbe rimasta priva di occupazione.

3. Il giudice del lavoro di Roma, sia in fase sommaria che in sede di opposizione alla L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 51 ha respinto le domande della lavoratrice, ivi compresa quella subordinata volta ad ottenere l’annullamento della transazione sindacale eccepita dalla società.

4. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 1729 del 2018, ha confermato la pronuncia di prime cure, precisando che: a) sebbene l’accordo sottoscritto da entrambe le parti in sede sindacale non presentasse una esplicita e distinta clausola sulla cessazione del rapporto, tuttavia lo stesso conteneva clausole inequivocabilmente riferibili a detto evento; b) le clausole n. 3 e n. 4 dell’accordo conciliativo non erano nulle perchè non contenevano alcuna rinuncia a diritti futuri, neppure indicati dalla Z.; c) non era credibile la tesi della lavoratrice secondo cui ella avrebbe sottoscritto sia il mandato alla UIL TUCS, per l’assistenza di una sindacalista in sede di conciliazione sia l’atto di conciliazione senza avvedersi di ciò che firmava, tenuto conto che da tutto il comportamento adottato non poteva certo desumersi che fosse una persona sprovveduta, nè erano state allegate circostanze da cui evincere che fosse stata oggetto di artifici e raggiri.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per la cassazione Z.F. affidato a quattro motivi cui ha resistito con controricorso la Unica Elle srl, illustrato con memoria.

6. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.

CONSIDERATO

CHE:

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente denunzia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2113,1965,1362 c.c. e ss. e all’art. 112 c.p.c., per avere erroneamente i giudici del merito interpretato il verbale di conciliazione come diretto a regolare la cessazione del rapporto e per non avere la Corte territoriale deliberato con argomentazioni pertinenti rispetto alle censure mosse. Deduce che, al di là dei richiami formali, cui i giudici di seconde cure avevano fatto riferimento, si sarebbe dovuto indagare se effettivamente le dichiarazioni imputate ad essa lavoratrice fossero il frutto della sua volontà ovvero rappresentassero clausole di stile prive di efficacia negoziale. Ribadisce che l’oggetto della conciliazione non era la cessazione del rapporto ma la richiesta delle differenze retributive, come risultanti dalla premessa del verbale e che durante le trattative non era mai stata trattata la risoluzione al 31.7.2015 del rapporto. Conclude nel sottolineare che le modalità di conduzione delle trattative, della redazione del verbale sindacale ed il contegno, successivamente assunto dalle parti, erano tutti elementi che facevano presumere il raggiro subito che le era costato il posto di lavoro.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1418 e 1419 c.c., per non avere la pronuncia gravata, nel giudicare il secondo motivo di reclamo, colto nel segno dell’eccezione circa la nullità dei punti 3 e 4 della conciliazione, avente ad oggetto esclusivo diritti ed azioni non ancora sorti nè maturati al momento in cui la lavoratrice aveva sottoscritto l’atto. Si precisa, infatti, che, non regolando la conciliazione la cessazione del rapporto di lavoro, le rinunce all’impugnazione del licenziamento e alle azioni connesse alla cessazione del rapporto, riguardavano diritti futuri e, in quanto tali, erano nulli.

4. Con il terzo motivo la Z. lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e all’art. 2697 c.c., perchè la motivazione della sentenza impugnata, in relazione al terzo motivo di reclamo, era apparente, frutto per lo più di congetture e convincimenti personali e privi di riscontro probatorio: in particolare, si sostiene che, senza attività istruttoria, era stato erroneamente affermato che la sindacalista aveva puntualmente svolto il proprio ruolo e che non era credibile che la lavoratrice avesse sottoscritto due atti negoziali senza avvedersi di ciò che firmava.

5. Con il quarto motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione agli artt. 1427 c.c. e ss. e agli artt. 112 e 99 c.p.c., per avere erroneamente la Corte territoriale rilevato un difetto di allegazione in ordine ad una eventuale impugnazione della conciliazione per vizi della volontà, con riguardo alle condizioni proprie della violenza e dell’errore quando, invece, indipendentemente dal nomen iuris essa lavoratrice aveva esposto le circostanze poste a base della dedotta truffa che assumeva avere subito anche attraverso il deposito della denuncia-querela che valeva ad integrarne il contenuto della domanda avanzata in sede civile.

6. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente per connessione logico-giuridica, non sono fondati.

7. E’ opportuno premettere, avendo il ricorrente denunziato il vizio ex art. 112 c.p.c. in relazione ad una mancata deliberazione, da parte della Corte territoriale, rispetto alle censure mosse, che la differenza tra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c. e l’omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nuova formulazione) si coglie nel senso che, mentre nella prima è ravvisabile la totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, la seconda, invece, presuppone una “totale pretermissione di uno specifico fatto storico”, oppure la “mancanza assoluta di motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, una “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. n. 21257 del 2014).

8. Entrambi i vizi non sono ravvisabili nella pronuncia impugnata la quale, con argomentazioni congrue ed adeguatamente motivate, ha interpretato il verbale di conciliazione pervenendo alla conclusione che lo stesso si riferiva anche alla cessazione del rapporto intercorso tra le parti e che la nullità delle clausole di cui ai punti 3 e 4 dell’accordo conciliativo non sussistevano perchè non riguardanti la rinuncia ad alcun diritto futuro.

9. Parimenti non sono meritevoli di accoglimento neanche le doglianze sulle asserite violazioni degli artt. 2113,1965,1362 c.c. e ss. in quanto con le stesse la ricorrente si è limitata ad offrire solo una diversa opzione interpretativa delle risultanze documentali.

10. Invero, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., con la conseguenza che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e ai principi in esse contenute, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (cfr. Cass. n. 873 del 2019; Cass. n. 27136 del 2017).

11. La Suprema Corte ha pure ripetutamente chiarito che “per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica possibile o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni: sicchè in tema di sindacato sulla interpretazione dei contratti, la parte che ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola contrattuale non può contestare, quindi, in sede di giudizio di legittimità la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice di merito se non con le condizioni sopra indicate (Cass. n. 24539 del 2009; Cass. n. 6125 del 2014).

12. La Corte territoriale ha argomentato le ragioni per le quali ha ritenuto che la volontà di entrambe le parti, desumibile dal verbale di conciliazione, fosse quella di addivenire, sia dal comportamento tenuto nella fase delle trattative sia dagli elementi oggettivi riscontrabili nella redazione della scrittura, alla risoluzione del rapporto di lavoro e la ricorrente non ha indicato con esattezza perchè la suddetta motivazione contrasti con i criteri legali letterali e logico-sistematici, insistendo, invece, unicamente per una diversa interpretazione delle clausole: interpretazione che, per quanto sopra detto, si sostanzia unicamente in una inammissibile richiesta di riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 17168 del 2012).

13. Il terzo e quarto motivo sono inammissibili.

14. Con essi, infatti, si lamenta un vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., riguardante questioni in fatto, è inammissibile perchè si verte in ipotesi di cd. “doppia conforme”.

15. In ogni caso, va osservato che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

16. In tema di ricorso per cassazione, poi, una questione di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).

17. In realtà le censure di cui ai motivi, sebbene articolate sotto il profilo di plurime violazioni di legge, tendono a fare valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo della parte. Al riguardo va osservato che non può essere proposto un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento giacchè, diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e cioè di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura e alla finalità del giudizio di legittimità.

18. Infine, va richiamato il principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale l’interpretazione operata dal giudice di appello, riguardo al contenuto e all’ampiezza della domanda giudiziale, è assoggettabile al controllo di legittimità limitatamente alla valutazione della logicità e congruità della motivazione e, a tal riguardo, il sindacato della Corte di Cassazione comporta la identificazione della volontà dalla della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite, in un ambito in cui, in vista del predetto controllo, tale volontà si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio, diversamente dall’interpretazione riferibile agli atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Cass. n. 17947 del 2006; Cass. n. 2467 del 2006); inoltre è stato sottolineato che il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Cass. n. 21087 del 2015).

19. Ciò posto, del tutto correttamente i giudici di seconde cure hanno affermato che alla conclusione del Tribunale, circa la mancata allegazione delle condizioni proprie della violenza (vis compulsiva) e dell’eventuale errore, non era stata mossa alcuna censura nè il reclamo proposto aveva offerto elementi contrari. I medesimi giudici hanno, poi, avvalorato tale interpretazione specificando che tale mancanza di allegazione era stata rilevata pure in sede penale ove il GIP – nel provvedimento di rigetto, emesso all’esito dell’opposizione avverso la richiesta di archiviazione del PM per il reato di truffa – aveva evidenziato come, in concreto, non era stato in alcun modo possibile individuare in che cosa fossero consistiti gli assunti raggiri ed artifici costituenti l’essenza del reato di truffa invocato dalla querelante: il tutto avallato dalle risultanze delle deposizioni degli informatori escussi in sede penale e dalla genericità della prova per testi articolata in sede civile.

20. Con la censura la ricorrente, pertanto, lungi dallo specificare i modi e le forme dell’eventuale scostamento della pronuncia gravata dai canoni ermeneutici legali che ne orientano il percorso interpretativo della domanda giudiziale, risulta essersi limitata ad argomentare unicamente il proprio dissenso dall’interpretazione fornita dai giudici di merito sul contenuto della domanda, così risolvendo le doglianze proposte ad una questione di fatto non proponibile in sede di legittimità.

21. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

22. Al rigetto del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

23. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2020

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