Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.7467 del 19/03/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 11923/2015 proposto da:

Comune di Venezia, in persona del Commissario Straordinario pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via B. Tortolini n. 34, presso lo studio dell’avvocato Paoletti Nicolò, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati Ballarin Maurizio, Iannotta Antonio, Ongaro Nicoletta, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.G., già titolare della F.E.P., elettivamente domiciliata in Roma, Via Caio Mario n. 7, presso lo studio dell’avvocato Fedeli Barbantini Luigi, rappresentata e difesa dall’avvocato Gallese Riccardo, giusta procura speciale per Notaio Dott. D.R. di ***** – Rep. n. ***** del *****;

– controricorrente –

contro

V.E.R.I.T.A.S. – Veneziana Energia Risorse Idriche Territorio Ambiente Servizi S.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2831/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 17/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2020 dal cons. TERRUSI FRANCESCO.

RILEVATO

che:

su richiesta del comune di Venezia, R.G., titolare dell’impresa individuale *****, consegnò in prova un macchinario trituratore-sminuzzatore “Python” per le esigenze del cimitero di *****;

passati diversi anni la predetta R., rientrata in bonis dopo esser stata dichiarata fallita, convenne in giudizio il comune e la società Vesta, già Amav, titolare del servizio di gestione dei cimiteri, chiedendo la restituzione del macchinario e l’indennizzo per la diminuzione di valore del medesimo;

radicatosi il contraddittorio i convenuti contestarono la domanda e il tribunale di Venezia accolse quella di restituzione ma non quella di pagamento dell’indennità, perchè la pretesa dovevasi dire compensata dalle spese sostenute per la manutenzione del macchinario e dall’inerzia pluriennale dell’attrice;

su gravame di questa, la corte d’appello di Venezia ha riformato la decisione nella parte corrispondente, osservando che la domanda, sebbene senza riferimenti testuali, era stata fin dall’inizio proposta secondo il paradigma dell’art. 2037 c.c., così da dover esser in tal senso qualificata; che in effetti l’obbligo di pagamento doveva affermarsi come conseguente al fatto che la consegna del trituratore era avvenuta per un periodo di prova di 30 giorni, dopodichè, scaduto tale periodo senza comunicazione da parte del comune della volontà di acquisto, la detenzione della macchina era divenuta indebita; che il comune, appreso del fallimento, era tenuto a riconsegnare il bene alla curatela, eventualmente mediante offerta reale, cosa che scientemente non aveva fatto; che dunque l’illegittima ritenzione del macchinario era avvenuta in malafede;

contro la sentenza il comune ha proposto ricorso affidato a due motivi, poi illustrati da memoria;

la R. ha replicato con controricorso;

la società Veritas, già Vesta, contumace in appello, non ha svolto difese.

CONSIDERATO

che:

I. – col primo motivo il comune di Venezia censura la sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. e per violazione e falsa applicazione dell’art. 2037 c.c.: dal primo punto di vista assume che la sentenza sarebbe affetta da extrapetizione in quanto l’attrice aveva ricondotto la pretesa all’ambito dell’art. 2037 solo mediante la memoria ex art. 183 c.p.c., comma 5, a fronte delle conclusioni rassegnate in citazione facenti riferimento all’art. 2041 c.c. cosicchè la domanda non era stata così semplicemente precisata, sebbene mutata radicalmente; dal secondo punto di vista soggiunge che l’azione ex art. 2037 c.c. comunque difettava dei presupposti, in quanto la ritenzione del trituratore non poteva in alcun modo considerarsi indebita essendo state, la consegna e la ritenzione, immediatamente riconducibili a una convenzione di noleggio in data 20-2-1991; il comune assume di aver messo il macchinario a disposizione della ditta ***** per il suo ritiro, mentre proprio la ditta non aveva per anni manifestato la volontà di riprendersi il bene in considerazione dei rilevanti costi di trasporto;

col secondo motivo il ricorrente denunzia il vizio di motivazione siccome insufficiente e contraddittoria – per avere la sentenza riconosciuto la malafede nonostante che questa non fosse stata mai provata, e omesso di considerare invece il fatto decisivo della citata inerzia della ditta ***** ai fini della restituzione del bene;

II. – il primo motivo è inammissibile, sia nel riferimento all’extrapetizione sia nel resto;

la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il petitum e la causa petendi; questi vanno determinati in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, tenuto conto del fondamento sostanziale della pretesa; la valutazione afferente non va confusa con le ipotesi in cui il giudice, espressamente o implicitamente, dia al rapporto controverso o ai fatti che siano stati allegati (identificativi della causa petendi) una qualificazione giuridica, finanche diversa da quella prospettata dalle parti (ex aliis Cass. n. 11289-18, Cass. n. 30607-18, Cass. n. 5153-19); invero il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche ed eventualmente in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nella violazione del divieto di extrapetizione o di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, ovvero a seconda dei casi ecceda dai limiti della domanda medesima modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà in fatto non dedotta o allegata in giudizio;

nella concreta fattispecie la corte d’appello ha qualificato la domanda affermando che i fatti costitutivi fin dall’inizio erano stati prospettati secondo un paradigma corrispondente all’art. 2037 c.c., benchè la parte attrice avesse evocato in citazione solo l’art. 2041;

l’affermazione per cui i fatti necessari al perfezionamento della fattispecie ritenuta applicabile coincidessero con quelli della fattispecie concreta sottoposta al giudizio non è stata contestata; di modo che, essendosi trattato di un’attività qualificatoria, non è rilevante il profilo rapportato al ius poenitendi di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5;

III. – nè d’altronde il ricorso soddisfa il fine di autosufficienza, atteso che il contenuto della citazione nella parte attinente ai fatti dedotti non è riportato, onde potersi ricavare una qualche incrinatura del ragionamento svolto dalla corte territoriale in ordine alla suddetta qualificazione della domanda; giova al riguardo rammentare che il principio di autosufficienza trova applicazione anche con riferimento alla asserita violazione di norme processuali (v. Cass. Sez. U n. 8077-12, e poi tra le tante Cass. n. 25482-14);

IV. – in ordine al profilo ulteriormente consegnato al primo motivo, è decisivo rilevare che l’art. 2037 c.c. considera la posizione di chi ha ricevuto indebitamente una cosa determinata e che, pertanto, è tenuto a restituirla;

la corte d’appello ha stabilito che il macchinario era stato consegnato dall’attrice al comune di Venezia, in prova, per un periodo di 30 giorni, cosicchè una volta concluso tale periodo la detenzione del comune, che non aveva manifestato alcuna volontà di acquisito, era divenuta indebita;

l’affermazione integra un accertamento di fatto non sindacabile, poichè non giova affermare che la consegna era avvenuta sulla base di una convenzione di noleggio;

tale circostanza – peraltro ancora una volta evocata genericamente, senza il necessario corredo di autosufficienza niente aggiunge all’avere la corte d’appello accertato che la cosa era stata comunque ritenuta dal comune scientemente, nonostante la scadenza della pattuizione attinente al periodo di prova;

nel contempo non è proficuo segnalare – come invece il ricorrente ha fatto – che, sopravvenuto il fallimento, la curatela non aveva chiesto la restituzione;

discutendosi di un bene non rinvenuto tra quelli materialmente a disposizione del fallito alla data della sentenza dichiarativa (art. 42 L. Fall., testo pro tempore), non risulta in alcun modo che la curatela avesse avuto concreta conoscenza del tipo di accordo intercorso tra le parti e, prima ancora, finanche dell’esistenza del bene presso il comune;

dire questo presupporrebbe una verifica di merito, non compatibile coi noti limiti cognitivi del giudizio di cassazione;

ne segue che resta incensurata (o comunque non idoneamente censurata) la considerazione della corte territoriale secondo la quale era onere del comune consegnare il bene – finanche alla curatela -, facendone eventuale menzione mediante offerta reale, così da liberarsi dall’obbligo restitutorio su di esso gravante;

V. – il secondo motivo è inammissibile in sè;

il vizio di motivazione, rilevante in cassazione in base al testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 conseguente alle modifiche di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, postula l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (v. Cass. Sez. U n. 8053-14);

è onere della parte indicare specificamente quale sia codesto fatto storico;

nel caso concreto il comune evoca una sorta di insufficienza motivazionale, o di contraddittorietà, per avere la sentenza omesso di esaminare il fatto costituito dall’inerzia della ditta *****; sennonchè, in disparte che l’insufficienza di motivazione non rileva nell’ambito dell’attuale testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e che la contraddittorietà supporrebbe evincersi affermazioni della sentenza tra loro in contrasto (cosa neppure ventilata), è da osservare che la corte d’appello non ha mancato di esaminare la deduzione di parte circa l’inerzia della ***** (tornata in bonis), ma l’ha molto più semplicemente ritenuta ininfluente rispetto alla volontà della parte convenuta di ritenere il bene nonostante la consapevolezza di non averne titolo; e tale valutazione integra – ancora una volta – un aspetto di merito, istituzionalmente devoluto al giudice a quo;

le spese processuali seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese processuali, che liquida in 7.200,00 EUR, di cui 200,00 EUR per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale massima di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, il 28 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2020

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