Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.9030 del 15/05/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAZZICONE Loredana – Presidente –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15121/2017 proposto da:

***** S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Piazza Vescovio n. 21, presso lo studio dell’avvocato Manferoce Tommaso, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Bortoluzzi Paolo, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Cesare Beccarla n. 29, presso lo studio dell’avvocato De Rose Emanuele, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati D’Aloisio Carla, Matano Giuseppe, Sciplino Ester Ada, Sgroi Antonino, Maritato Lelio, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Curatela Fallimentare ***** S.r.l., in persona del curatore fallimentare R.P., S.P., elettivamente domiciliata in Roma, Via delle Quattro Fontane n. 20, presso lo studio dell’avvocato Mattei Decio Nicola, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Auricchio Antonio, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Ancona, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Macerata;

– intimati –

avverso la sentenza n. 704/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 09/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/03/2020 dal cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza resa in data 9 maggio 2017 dalla Corte di appello di Ancona e avente ad oggetto il reclamo proposto da ***** s.r.l. avverso la sentenza di fallimento che la riguardava. La Corte di merito ha respinto il reclamo.

2. – L’impugnazione spiegata dalla società avanti a questa Corte si fonda su tre motivi. Resistono con controricorso la curatela e l’I.N.P.S., quale creditore istante. Sono state depositate memorie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Viene lamentata l’omessa pronuncia su di un motivo di reclamo.

Il secondo mezzo censura la sentenza impugnata per la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2016, art. 49, comma 4 e comma 9 ter, di conversione del D.L. n. 189 del 2016. Viene in sostanza denunciata la mancata applicazione della sospensione di un termine perentorio di natura sostanziale a un soggetto residente nell’area interessata al sisma del 2016.

I due motivi investono la sentenza impugnata nella parte in cui si è occupata della questione relativa alla sospensione del termine entro cui l’odierna parte ricorrente avrebbe potuto depositare domanda di concordato preventivo. Con riferimento all’evento sismico del 26 ottobre 2016 è infatti operante il D.L. n. 189 del 2016, art. 49, comma 4, convertito con modificazioni in L. n. 229 del 2016, recante interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016, il quale contiene la prescrizione, oggetto dell’odierno dibattito, secondo cui per taluni soggetti – quelli residenti, aventi sede operativa o esercenti la propria attività lavorativa, produttiva o di funzione nei Comuni interessati all’evento sismico alla data del 24 agosto 2016 – il decorso dei termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonchè dei termini per gli adempimenti contrattuali, è sospeso dal 24 agosto 2016 fino al 31 maggio 2017. Rileva la ricorrente che dal 26 ottobre 2016, data del sisma incidente sull’area in cui essa aveva la propria sede, e il 9 novembre 2016, in cui era stata pubblicata la sentenza di fallimento, il termine per il deposito della domanda di concordato non poteva decorrere. Viene anzitutto dedotto che la Corte di appello avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di reclamo specificamente incentrato sulla sospensione del termine per la proposizione della domanda di concordato preventivo: domanda che avrebbe potuto proporsi prima della declaratoria del fallimento. Viene poi ribadita l’applicabilità, alla fattispecie per cui è causa, del cit. art. 49, comma 4 e contestato, infine, l’assunto della Corte di appello secondo cui la mancata formulazione di una istanza di concordato, seppure in bianco, per tutto il periodo anteriore al sisma e nel tempo successivo, fino alla proposizione del reclamo fallimentare, avrebbe reso “palese la strumentalità del motivo che richiama fattispecie di abuso del diritto stigmatizzate dalla Cassazione”.

Con riguardo alla doglianza oggetto del primo motivo è sufficiente osservare che essa mostra di non cogliere appieno la ratio decidendi della pronuncia impugnata, secondo cui la deduzione basata sulla richiamata sospensione del termine era stata fatta valere tardivamente, con la memoria del 28 febbraio 2017, e non, quindi, con l’atto di reclamo: sicchè doveva farsi applicazione del principio per cui nel giudizio di reclamo fallimentare, pur se risulti attenuato il requisito dell’art. 342 c.p.c., è nondimeno inammissibile la deduzione di motivi di impugnazione nuovi e diversi rispetto a quelli tempestivamente addotti con l’atto introduttivo (così, infatti, Cass. 13 giugno 2014, n. 13505). Sul punto non si ravvisa, pertanto, alcuna omessa pronuncia, avendo la Corte di Ancona statuito sul tema che qui interessa: è anzi da sottolineare che detta Corte ha reso una motivazione più ampia, non limitata alla preclusione processuale, ma estesa a due ulteriori argomenti (la non configurabilità, con riferimento la domanda di concordato, di termini di decadenza in senso proprio; l’abuso del diritto desumibile dalla mancata proposizione di alcuna domanda nel senso indicato).

Nella propria memoria ex art. 380 bis.1 la ricorrente pare spostare il fuoco della censura sulla pronuncia resa dalla Corte di merito in ordine all’abbandono del motivo di reclamo con cui aveva invocato (infondatamente, secondo quanto osservato dalla Corte di appello, a pag. 2 della sentenza) la sospensione del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento e la moratoria delle proprie obbligazioni contributive: tuttavia, il motivo di ricorso non contiene alcuno sviluppo argomentativo sul tema ed è, di contro, incentrato sull’affermata sospensione del termine per la proposizione della domanda di concordato (cfr., in particolare, pagg. 11 ss.). E’ qui appena il caso di ricordare che nelle memorie conclusive del giudizio di cassazione non possono essere dedotte nuove censure nè sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di ricorso (per tutte: Cass. 12 ottobre 2017, n. 24007).

A questo punto vale osservare che il condivisibile rilievo formulato dal giudice distrettuale con riferimento alla tardiva proposizione della questione circa la sospensione del termine rende inaccoglibili i motivi di censura formulati col secondo motivo: se, infatti, la censura relativa alla richiamata sospensione del termine non venne fatta valere tempestivamente in sede di reclamo, per certo essa non può trovare ingresso in questa sede, stante il giudicato interno prodottosi al riguardo.

E’ solo per completezza, quindi, che si formulano due ulteriori considerazioni con riferimento alle richiamate doglianze, che valgono a rimarcare la non decisività delle medesime.

Parte ricorrente invoca l’art. 49 cit., comma 4 nella parte in cui ha ad oggetto, come si è visto, i “termini perentori, legali e convenzionali, sostanziali e processuali, comportanti prescrizioni e decadenze da qualsiasi diritto, azione ed eccezione, nonchè dei termini per gli adempimenti contrattuali”. Nessun termine di tale natura è tuttavia stabilito per la proposizione della domanda di concordato (come del resto rettamente osservato, ad abundantiam, dalla Corte di merito). E’ senz’altro vero che l’imprenditore può presentare domanda di concordato preventivo soltanto fino a che il suo fallimento non è dichiarato, ma ciò si spiega con ragioni di carattere sistematico, dal momento che il coordinamento tra la procedura del concordato preventivo e quella fallimentare esige che sia assicurato il previo esaurimento della prima (Cass. Sez. U. 15 maggio 2015, n. 9935, in motivazione, par. 5): la fattispecie in esame è quindi estranea alla richiamata previsione del cit. comma 4. Tale norma, sul versante processuale, mira a tutelare la parte che, per avere la propria residenza, la propria sede, o il proprio centro di interessi lavorativo, in zona sismica, possa ricevere pregiudizio dal decorso di un termine perentorio che, proprio a causa del terremoto, non sia in condizione di osservare. La disposizione valorizza la decadenza che si produce in ragione del mancato compimento dell’atto nel termine assegnato: decadenza che non è propriamente riferibile a quelle attività processuali che la parte ha bensì la facoltà di compiere, ma all’interno di una determinata fase processuale o, comunque – ed è il caso in esame – prima che intervenga il provvedimento che definisce il giudizio. L’interesse sotteso allo svolgimento di tali attività è bensì tutelato, ma in presenza di una condizione diversa e più grave (l’essere l’ufficio giudiziario ubicato nella zona sismica) e con altro strumento, di più incisiva portata (la sospensione del procedimento, giusta l’art. 49 cit., comma 1).

Il secondo rilievo concerne la censura attinente all’abuso di concordato, che la ricorrente non contrasta efficacemente. A fronte di quanto osservato dalla Corte di appello, l’istante si limita ad assumere che, potendo ancora proporre domanda di concordato, doveva trovare applicazione la norma sulla sospensione dei termini: ma anche a voler prescindere da quanto testè osservato a proposito di quest’ultima disposizione, la censura non colpisce il ragionamento della Corte di merito nel suo nucleo argomentativo centrale: quello per cui una domanda di concordato proposta nel frangente processuale in cui si sarebbe dovuta collocare l’invocata sospensione del termine avrebbe costituito, comunque, un abuso (e sarebbe, stata, quindi inammissibile: cfr. ad es. Cass. 26 novembre 2018, n. 30539).

Il primo e il secondo motivo di ricorso vanno quindi disattesi.

2. – Col terzo mezzo ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 15, comma 9, oltre che della falsa applicazione dei principi regolatori dell’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c. e della nullità della sentenza ex art. 132 c.p.c., n. 4. Il ricorrente deduce la mancata diretta verifica, da parte del giudice del reclamo, dell’avvenuto superamento della soglia di fallibilità contemplata con riferimento ai debiti scaduti a non pagati risultanti degli atti dell’istruttoria prefallimentare.

Il motivo è infondato.

La Corte di merito, richiamandosi a elementi di giudizio rappresentati dalla curatela fallimentare con riguardo alle diverse passività della fallita, ha osservato come risultasse “indiscutibilmente accertato un complessivo debito contributivo e fiscale di rilevanti proporzioni, ben superiore alla soglia legale”. Ha aggiunto che in sede di reclamo la curatela aveva “fornito ulteriori elementi (anteriori alla pronuncia di fallimento e conosciuti in sede di gravame) che (attestavano) con certezza l’esistenza di una complessiva esposizione debitoria ben superiore” alla detta soglia.

Ciò posto, non si ravvisa, sul punto, alcun vizio motivazionale, tenuto conto che, come è noto, nella nuova formulazione dell’art. 360, n. 5, risultante dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012, è mancante ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, risultante dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054).

Non è nemmeno prospettabile l’errata applicazione della norma che regola l’onere probatorio, dal momento che la Corte di appello ha reso la decisione basandosi sulle risultanze di causa, mentre la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. può configurarsi soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 29 maggio 2018, n. 13395; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107).

Non è infine concludente la contestazione formulata dalla ricorrente con riguardo alla indebita valorizzazione, da parte del giudice del reclamo, di elementi di prova, rilevanti ai fini del superamento del limite di cui alla L. Fall., art. 15, u.c., anteriori alla pronuncia di fallimento e forniti dalla curatela in sede di reclamo. Per un verso la censura è carente di autosufficienza, in quanto non chiarisce il contenuto di tali evidenze; per altro verso essa si infrange contro il principio per cui ai fini del computo del limite minimo di fallibilità deve aversi comunque riguardo al complesso dei debiti scaduti e non pagati accertati non già alla data della proposizione dell’istanza di fallimento, ma a quella in cui il tribunale decide sulla stessa, anche se conosciuti successivamente in sede di gravame (Cass. 30 settembre 2019, n. 24424; Cass. 27 maggio 2015, n 10952).

3. – Il ricorso è dunque respinto.

4. – Le spese di giudizio seguono la soccombenza.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2020

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