LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 484-2015 proposto da:
D.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO MASSIMO, 45, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MATTEO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GALLUCCI;
– ricorrente principale –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, EMANUELE DE ROSE, ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO;
– resistente con mandato –
e contro
UNIVERSITA’ DEL *****, in persona del Rettore pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
e contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, EMANUELE DE ROSE, ESTER ADA SCIPLINO, CARLA D’ALOISIO;
– resistente con mandato –
avverso la sentenza n. 1658/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 25/06/2014 R.G.N. 3225/2012.
La CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:
RILEVA che:
la Dott.ssa D.B., già lettrice di lingua madre francese presso l’Università di *****, poi del *****, con ricorso depositato il 21 ottobre 2008 chiese accertarsi l’unitarietà del rapporto di lavoro sin dalla prima assunzione risalente febbraio 1982, con la qualifica di lettore universitario ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1900, con adeguamento della sua retribuzione secondo l’inquadramento economico del ricercatore ed assistente universitario a tempo pieno, o nel minimo, a quello di ricercatori a tempo definito, in via alternativa di accertare la spettanza della giusta retribuzione commisurata quella di ricettatore confermato a tempo pieno ovvero tempo definito, in via subordinata il riconoscimento ex art. 36 Cost. della retribuzione spettante ab origine e fatto salvo il miglior trattamento della retribuzione oraria massima goduta degli anni ovvero di quella prevista dal c.c.n.l. di categoria, o infine di quella più giusta ed equa, nonchè la condanna dell’Università al pagamento delle differenze dovute e alla regolarizzazione contributiva, ovvero risarcimento del danno da omessa contribuzione in caso di intervenuta prescrizione. L’Università convenuta eccepì che a seguito della sentenza n. 5245/1995, pronunciata dal pretore di Lecce, le parti avevano conciliato la lite in sede giudiziale definendo le pendenze economiche sino al 31 dicembre 1993, fatta salva l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal 1 gennaio 1994, contestando poi nel merito le pretese azionate ex adverso, chiedendone il rigetto;
con sentenza n. 2556 in data 7 marzo 2012 l’adito giudice del lavoro di Lecce dichiarò cessata la materia del contendere in relazione alla domanda principale, nonchè l’estinzione del giudizio L. n. 240 del 2010, ex art. 26, comma 3 osservando che la retribuzione del ricercatore confermato a tempo definito rappresentava soltanto un parametro di riferimento da adottare in sede di ricostruzione economica di carriera dalla data della prima assunzione e fino all’instaurazione del nuovo rapporto quale collaboratore esperto linguistico, e non già un trattamento spettante a regime;
l’anzidetta pronuncia fu appellata dall’attrice con ricorso del 26 ottobre 2012, sostenendo con il primo motivo che il succitato art. 26, comma 3, quale norma di interpretazione autentica della L. n. 63 del 2004, art. 1, comma 1 si poneva in contrasto con l’art. 6 CEDU e con i principi espressi dalla CGUE in tema di trattamento economico giuridico degli ex elettori. Con il secondo motivo l’appellante insisteva per l’accertamento del diritto alla retribuzione assicurata al ricercatore confermato da tempo definito con maggiorazione del 10% in considerazione dell’impegno lavorativo rapportato a 550 ore, in luogo delle 500, considerato dalla legge, laddove peraltro l’accordo transattivo aveva spiegato i suoi effetti soltanto fino al 31 ottobre 1991, sicchè la transazione non riguardava la domanda originaria di accertamento del pagamento della maggiore retribuzione spettante ai professori associati. Il petitum azionato nel precedente giudizio era quindi diverso, di modo che competeva il trattamento economico ragguagliato a quello dovuto ricercatore confermato. Il miglior trattamento economico spettava anche ai sensi dell’art. 36 Cost. ed in ogni caso erano dovuti gli incrementi retributivi derivanti dalla progressione in carriera, di anzianità, l’indennità di contingenza, per 13a, ferie e t.f.r.. Pertanto, l’appellante aveva insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate con l’atto introduttivo del giudizio. Successivamente, in data 30 maggio 2014, aveva depositato note difensive autorizzate nelle quali la stessa appellante evidenziava di aver conseguito il 28 maggio 2013 pagamento della somma lorda di 87.306,37 Euro, per cui l’Università era ancora debitrice di maggiori somme derivanti dal riconoscimento dell’equiparazione del trattamento riservato ricercatore confermato a tempo definito fin dal 13 aprile 1983;
la Corte d’Appello di Lecce con sentenza n. 1658 in data 11 – 25 giugno 2014 rigettava interposto gravame, dichiarando altresì “Spese irripetibili verso il Ministero e compensate verso l’I.N.P.S.” (in effetti la sentenza indica, nell’intestazione e nella motivazione, come appellata – contumace l’Università del *****, mentre il non meglio individuato Ministero è soltanto menzionato in dispositivo). In primo luogo, la Corte territoriale ha evidenziato che non vi era differenza tra la causa petendi di cui al giudizio definito con la sentenza pretorile del 1994, relativo al periodo 1983 / 31 dicembre 1993, e quella addotta con il successivo ricorso del 21-10-2008, con riferimento allo stesso arco temporale, per cui inoltre il primo giudizio fu dichiarato estinto in appello per effetto dell’esaminata conciliazione in data 2 aprile 1998. Ne derivava che la transazione era destinata a coprire il dedotto ed il deducibile limitatamente all’oggettiva situazione di contrasto composta, donde l’infondatezza del secondo motivo d’impugnazione con il quale era stata censurata la dichiarata cessazione della materia del contendere. Veniva, poi, anche respinto il primo motivo di appello, concernente la contestata applicazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, richiamando in proposito anche i precedenti di Cass. lav. n. 2941/13 in data 20/11/2012 – 7/2/2013, nonchè n. 5792/13 in data 3/10/2012 – 8/3/2013. Ad ogni modo la questione risultava di fatto superata in quanto l’Università, prima dell’udienza fissata ex art. 435 c.p.c., aveva corrisposto l’anzidetto importo, lordo, di 87.306,37 Euro, come da note difensive dell’appellante in data 30 maggio 2014, cui era stato allegato il prospetto contabile indicante il dettaglio di ciascuna voce unitamente al decreto rettorale nel quale si precisava che le somme erano state erogate in esecuzione dell’appellata sentenza e computate a decorrere dal primo gennaio 1994. Con tali note l’appellante si era limitata a ribadire il preteso diritto a differenze retributive per il periodo coperto dalla succitata transazione, però non dovute secondo la Corte distrettuale per quanto sopra in proposito osservato. Di conseguenza, restavano assorbite le altre questioni in ragione del pagamento dovuto nell’entità rimasta incontestata per il periodo successivo al primo gennaio 1994;
avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione la Dott.ssa D. come da atto notificato in data 23-12-2014 ed affidato a otto motivi, cui ha resistito l’Università del ***** mediante controricorso e ricorso incidentale condizionato di cui alla spedizione a mezzo posta in data 2 febbraio 2015 (lunedì), con un solo motivo; l’I.N.P.S. ha depositato unicamente procura speciale in calce al ricorso notificato all’ente; da ultimo parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa con richiesta di trattazione in pubblica udienza e remissione della causa al primo presidente di questa Corte per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, nonchè con richiesta di rimettere alla Corte di Giustizia la verifica di un eventuale contrasto tra il D.L. n. 2 del 2004, art. 2 come interpretato autenticamente dalla L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, da un lato, e le norme del diritto Europeo, dall’altro, poste a tutela del divieto di discriminazione come identificato ed applicato nelle note sentenze della Corte di Giustizia del 2001 (C-212/99), del 2006 (C-119/04) e del 2008 (caso Delay).
CONSIDERATO
che:
in via preliminare, vanno disattese le richieste di trattazione della causa in pubblica udienza, di invio degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del giudizio alle Sezioni Unite, nonchè di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, non sussistendo il presupposto della particolare rilevanza delle questioni di diritto sulle quali pronunciare ex art. 375 c.p.c., trattandosi di questioni già esaminate in plurime decisioni, ed analogamente va detto per quanto riguarda l’invocato quesito pregiudiziale alla C.G.U.E., di cui non si ravvisano gli estremi in base alle ragioni seguenti, previa sintetica esposizione dei motivi di ricorso;
con il primo motivo la ricorrente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 ha denunciato violazione della L. n. 63 del 2004, di conversione del D.L. n. 2 del 2004, emanata in applicazione della sentenza della corte di giustizia, nonchè della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, in relazione all’art. 2103 c.c. e art. 36 Cost. e delle sentenze della corte di giustizia del 26 giugno 2001 del 18 luglio 2007 – nonchè violazione dell’art. 6 della CEDU, come interpretati dalla corte di Strasburgo, in rapporto agli artt. 111 e 117 Cost.. La Corte di appello, ritenendo che la corresponsione da parte dell’Università, in seguito alla sentenza di primo grado ed in esecuzione della stessa, della somma di Euro 87.306,37 integrasse il pagamento di quanto dovuto come per legge, aveva respinto il gravame, in sostanza quindi applicando nel caso di specie il succitato art. 26. In tal modo risultavano violanti e principi e quelle norme che nel lungo iter giurisprudenziale avevano imposto prima con la L. n. 63 del 2004 e poi tramite molteplici pronunce di questa corte il riconoscimento ai c.e.l., già lettori universitari assunti D.P.R. n. 382 del 1980, ex art. 28 del trattamento retributivo qualificato quello dei ricercatori confermati a tempo definito. Tale decisione risultava ancora più ingiusta l’incomprensibile alla luce del fatto che la stessa Corte d’Appello in un’altra analoga fattispecie aveva disapplicato il citato art. 26 e riconosciuto alla lavoratrice stante quella equiparazione retributiva oggetto del presente giudizio. Pertanto secondo la ricorrente l’anzidetto art. 26, comportando il blocco della progressione economica dei collaboratori esperti linguistici equiparati a ricercatore confermato a tempo definito alla data del 1905 e l’impossibilità degli stessi di continuare a maturare progressioni stipendiare in funzione di anzianità maturata, si poneva in netto contrasto non solo con i citati pronunciamenti dei giudici Europei, ma anche con i basilari principi di cui all’art. 36 Cost. e art. 2103 c.c.;
con il secondo motivo formulato ex art. 360 c.p.c., n. 5 è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla esistenza della contestazione delle differenze retributive erogate dall’Università, laddove per contro la corte territoriale aveva ipotizzato una mancata contestazione delle somme corrisposte dall’Università giusta il decreto rettorale allegato alle note autorizzate depositate 30 maggio 2014.
Infatti l’appellante aveva specificamente contestata l’anzidetto pagamento parziale, evidenziando proprio l’insufficienza dello stesso perchè eseguito secondo quei criteri di cui alla L. n. 240, art. 26 oggetto, sotto i molteplici profili evidenziati nella precedente doglianza, di specifica contestazione, sicchè il pagamento era stato trattenuto dalla lavoratrice quale acconto sulle maggiori somme dovute oggetto dell’interposto gravame, sicchè l’Università rimaneva debitrici delle maggiori somme derivanti dal riconoscimento dell’equiparazione tra ricettatori confermato a tempo determinato e c.e.l. – ex lettore universitario sin dal primo anno di lavoro cioè dal 13 aprile 1900;
con la terza censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 è stata dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., di modo che il rigetto dell’appello, fondato sulla pretesa mancata contestazione della somma di Euro 87.306,37 corrisposta dall’Università nell’anno 2013, derivava da un non corretto uso da parte della corte salentina del potere-dovere di valutazione degli atti e dei documenti del processo, avuto riguardo alla succitata specifica contestazione da parte della ricorrente;
una quarta doglianza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 è stata dedotta sostenendosi violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 345 e 378 c.p.c., tenuto conto che con il ricorso introduttivo del giudizio era stata chiesta soltanto la condanna generica della convenuta in relazione alle azionate pretese creditorie. In tale contesto, secondo la ricorrente, l’avvenuto pagamento della somma di Euro 87.306,37 non autorizzava la Corte d’Appello ad ampliare e modificare il tema della decisione, sostituendo la domanda di condanna generica, in una, diversa, di liquidazione di una somma specifica, laddove oggetto del giudizio era il preteso riconoscimento dell’equiparazione retributiva più volte indicata, domanda per la quale la Corte territoriale avrebbe dovuto decidere;
con il quinto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss., nonchè art. 1965 c.c., e dell’art. 115 nonchè art. 116 codice di rito – il tutto in relazione alla decorrenza delle differenze economiche ancora spettanti alla lavoratrice, che in sede di gravame aveva chiesto la riforma della sentenza impugnata anche nella parte in cui era stato ritenuto il giudicato in ordine alle pretese economiche maturate fino al 31 dicembre 1993. La delimitazione temporale delle pretese economiche, oggetto della conciliazione, era stata perfino riconosciuta in giudizio dall’Università nella sua memoria difensiva depositata il 10 febbraio 2011, secondo cui con la conciliazione si prendeva in considerazione tutto il periodo non interessato dai contratti di lavoro subordinato a tempo determinato iniziati nell’anno 1991/92. Appariva, quindi, evidente l’errore commesso dai giudici di merito che avevano male interpretato quanto indicato al punto a) della conciliazione, includendovi quindi nella determinazione del periodo di efficacia dell’accordo tutto il lasso di tempo disciplinato dai contratti di lavoro a tempo determinato, senza distinguere quello retto da contratti di lavoro autonomo da quello successivo di lavoro subordinato. La data del 31 dicembre 1993, indicata sia nella sentenza di primo grado che nella pronuncia d’appello era soltanto quella correlata alla vigenza dei menzionati contratti di lavoro subordinato a tempo determinato. Non era vero quindi nè giusto che le differenze retributive ancora spettanti per effetto dell’accertamento del diritto all’equiparazione economica alla figura del ricercatore confermato a tempo definito, dovessero decorrere dal 1 gennaio 1994, in quanto le stesse erano dovute sin dal 1 novembre 1991, termine finale dell’ultimo contratto di lavoro autonomo;
con il sesto motivo è stata denunciata ex art. 360 c.p.c., n. 4 la nullità parziale della sentenza impugnata per omessa pronuncia sulla domanda di riconoscimento delle pretese economiche, almeno fin dal 1 novembre 1911, per violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto le argomentazioni svolte con la quinta doglianza consentivano di censurare l’impugnata sentenza anche sotto il profilo del vizio di nullità per omessa pronuncia su di una parte della domanda, laddove parte appellante in via gradata aveva chiesto la validità dell’accordo soltanto con riferimento alle rivendicazioni economiche maturate sino al “31 ottobre 2011” (? 31 – 10- 1991) “In nessuna parte della sentenza di appello vi è un riferimento al motivo per il quale la conciliazione avrebbe effetto sino al 31.12.1993. Tale data, si ripete, è stata soltanto citata quando i giudici del gravame hanno affermato che “pertanto, è evidente che non vi è differenza sostanziale tra la causa pretendi azionata in quel giudizio dal 1983 al 31.12.1993 e quella ora addotta per il medesimo periodo”. Tale passo motivazionale non integrando di certo gli estremi di una specifica presa di posizione e motivazione sulla domanda, gradata, avanzati in appello dall’odierna ricorrente, determina il vizio di nullità indicato in epigrafe”;
con il settimo motivo è stata denunciata la nullità parziale della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa pronuncia sulla domanda di riconoscimento di interessi e rivalutazione sulle somme dovute, in violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè per mancata applicazione dell’art. 429 dello stesso, laddove, nonostante quanto in proposito richiesto con il ricorso introduttivo del giudizio, le somme corrisposte nel maggio 2013 non contenevano alcuna voce a titolo di interessi e rivalutazione come risultante dal prospetto esplicativo degli importi erogati, parte integrante del Decreto Rettorale 9 maggio 2013, n. 487 (Euro 8698,25 per l’anno 1994, Euro 78.608,12 per quanto maturato dal 1995 a aprile 2013, nulla invece a titolo di accessori, sebbene richiesti e dovuti, in quanto nonostante la natura pubblica dell’ente rapporto di lavoro rimaneva di diritto privato ai sensi della L. n. 236 del 1995, cui non si applicava il divieto di cumulo sancito dalla L. n. 724 del 1994);
infine, con l’ottavo motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 è stata dedotta la violazione falsa applicazione delle norme sulla cessazione della materia del contendere in relazione all’art. 92 dello stesso codice di rito, di modo che, avuto riguardo all’intervenuto pagamento nel corso del giudizio, la Corte territoriale avrebbe dovuto dichiarare la cessazione della materia del contendere invece di rigettare l’appello, con il quale tra l’altro la dottoressa D. aveva censurato l’impugnata pronuncia anche nella parte in cui avendo dichiarato estinto il giudizio non aveva pronunciato una domanda di pagamento sulle somme dovute in applicazione del citato art. 26, laddove soltanto se l’Università avesse eseguito il pagamento prima del giudizio di secondo grado la decisione di rigetto dell’impugnazione sarebbe stata corretta, avendo la motivazione indicato che la somma doveva ritenersi satisfattiva delle pretese rivendicate, mentre la regolarizzazione – per come intesa dall’Università – della posizione economica in argomento per intervenuta soltanto nel maggio 2013. Pertanto, a fronte dell’anzidetto ritardato pagamento la sentenza impugnata in applicazione dell’art. 92 c.p.c. avrebbe dovuto prevedere nei confronti dell’Università, quantomeno, una condanna alle spese informa parzialmente compensata;
con il ricorso incidentale condizionato Università controricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione della L. n. 240 del 2010, art. 26 sostenendosi che in forza di quanto correttamente stabilito dal citato decreto rettorale n. 487 del 2013, la Corte d’Appello avrebbe dovuto ancor più espressamente affermare l’applicabilità nella specie del succitato art. 26, riconoscendo la debita attuazione della disciplina sostanziale del rapporto ivi prevista da parte datoriale, confermando quindi l’estinzione del giudizio in connessione con l’intervenuto soddisfacimento della pretesa ivi azionata; tanto premesso, il ricorso principale appare soltanto in parte fondato, di modo che va accolto per quanto di ragione, mentre va integralmente disatteso quello incidentale, per le seguenti ragioni;
invero, appare del tutto corretta la decisione impugnata per quanto concerne la delimitazione del thema decidendum in ordine alle pretese azionate dalla Dott.ssa D. relativamente al periodo successivo al 31 dicembre 1993 (tenuto conto peraltro che il ricorso introduttivo di questo processo risale al 21-10-2008), alla luce di quanto convenuto dalle parti con il verbale di conciliazione in sede giudiziale in data due aprile 1998, il cui tenore risulta dettagliatamente esaminato e valutato, in punto di fatto e di diritto, dalla Corte di merito (cfr. in particolare la motivazione a pag. 4 della sentenza impugnata), a fronte per giunta delle carenti allegazioni in proposito fornite da parte ricorrente (senza adeguate e compiute riproduzioni, specialmente dell’anzidetto accordo, in violazione quindi soprattutto delle necessarie indicazioni a pena d’inammissibilità richieste dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 donde un evidente difetto di autosufficienza e di specificità, avendo altresì mancato la ricorrente principale di precisare in quali effettivi termini sarebbero stati violati gli artt. 1362 c.c. e ss. da parte dei giudici d’appello nell’interpretazione della transazione);
quanto, poi, agli effetti della suddetta conciliazione corrette appaiono anche le relative argomentazioni sul punto svolte con la sentenza de qua (v. Cass. Sez. 6 – 1, ordinanza n. 23482 del 9/10/2017, secondo cui l’oggetto del negozio transattivo va identificato non in relazione alle espressioni letterali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrapposte pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto che le parti stesse hanno inteso comporre attraverso reciproche concessioni, giacchè la transazione – quale strumento negoziale di prevenzione di una lite – è destinata, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto ed il deducibile. In senso conforme Cass. I civ. sent. n. 690 del 14/01/2005, nonchè Sez. lav. n. 1183 del 12/02/1985, entrambe in modo pertinente citate nella pronuncia qui impugnata.
Ricordando poi la nozione della transazione ex art. 1965 c.c., quale atto negoziale con il quale i soggetti interessati non solo possono prevenire una lite potenziale, ma anche porre fine ad una lite già incominciata, Cass. 1185/85 cit. ebbe modo di precisare ulteriormente che, pertanto, ove il lavoratore in sede di conciliazione giudiziale abbia manifestato il proprio consenso alla risoluzione del rapporto di lavoro, l’efficacia transattiva dell’accordo raggiunto non può che essere riferita, in mancanza di specifiche limitazioni, a tutti i diritti scaturenti dal rapporto che risultino obiettivamente determinabili);
pertanto, appaiono inammissibili tutte le doglianze della ricorrente principale inerenti a pretesi diritti maturati in epoca anteriore al 31 dicembre 1993, ciò con particolare riguardo alle censure di cui ai motivi quinto e sesto;
ugualmente inammissibili appaiono i motivi secondo, terzo e quarto, laddove in primis la censura ex art. 360 c.p.c., n. 5 non individua alcun preciso fatto storico, rilevante e decisivo, di cui la Corte di merito abbia omesso l’esame, peraltro in via preliminare cronologicamente circoscritto nei sensi in precedenza indicati, mentre al riguardo la ricorrente principale prospetta in effetti questioni di mancata contestazione, perciò essenzialmente processuali, dunque estranee alla portata del vigente art. 360, n. 5, nella specie ratione temporis applicabile con riferimento all’impugnata sentenza risalente al giugno 2014. Parimenti va osservato in relazione alle pretese violazioni degli artt. 115 e 116 codice di rito, laddove tuttavia la ricorrente finisce per sindacare, ma inammissibilmente in questa sede di legittimità, quanto apprezzato e accertato dalla Corte di merito in punto di fatto, circa il pagamento eseguito nel maggio 2013, ancor prima della fissazione dell’udienza ex art. 435 c.p.c., come pure puntualizzato dai giudici d’appello a tal riguardo, sicchè, ribadita ancora l’esclusione dal tema del decidere di ogni questione inerente a fatti anteriori al primo gennaio 1994, correttamente l’esame è stato delimitato al periodo successivo per il quale non risultavano specifiche contestazioni da parte appellante sul quantum dovuto, riguardo alla sorta capitale maturata per l’epoca posteriore. Di conseguenza, si appalesa inconferente anche la denuncia di violazione degli artt. 345 (? – semmai 437), 378 (rectius 278) e 112 c.p.c., posto che per quanto in precedenza osservato evidentemente nella specie è insussistente ogni possibile vizio di omessa pronuncia ovvero di ultrapetizione, avendo la Corte distrettuale motivatamente delimitato il suo esame e quindi la sua decisione alle questioni devolutele, – però nei termini giudicati ammissibili per effetto della succitata conciliazione, prendendo quindi comunque atto del sopraggiunto pagamento, ritenuto utile per il successivo arco temporale, con conseguente rigetto delle ulteriori rivendicazioni, indipendentemente quindi anche dalla richiesta di condanna generica formulata da parte attrice, ritenuta per l’effetto nel merito ad ogni modo infondata sull’an debeatur nel merito circa la reiterata istanza in ordine al vantato diritto a differenze retributive per il periodo coperto dalla transazione, che per quanto esposto con riferimento al primo motivo d’appello non competevano, donde altresì il rigetto dell’appello, restando assorbite le altre questioni in ragione del pagamento dovuto nell’entità rimasta incontestata per il periodo successivo all’1.1.1994. Peraltro, va anche detto che il quarto motivo del ricorso principale risulta irritualmente formulato ex art. 360 c.p.c., n. 3, laddove, trattandosi evidentemente di (asseriti) errores in procedendo, indipendentemente anche dal più corretto riferimento all’ipotesi sub n. 4, contemplata dall’art. 360, comma 1, comunque la censura andava di conseguenza univocamente enunciata in termini di nullità (cfr. sul punto Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 24/07/2013, nonchè II civ. n. 10862 del 7/5/2018 e n. 24247 del 29/11/2016), ciò che non risulta invece dedotto;
vanno per il resto trattati congiuntamente, attesa la loro connessione, ancorchè parziale, il primo ed il settimo motivo del ricorso principale, con conseguente assorbimento della sua ottava censura, unitamente all’unica doglianza espressa con il ricorso incidentale;
in proposito deve ribadirsi il principio di diritto affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 19164 del 4/7 – 2/08/2017, alle cui condivise argomentazioni integralmente per brevità si rimanda, secondo cui in particolare, per quanto nella specie di rilevante interesse, in tema di controversie promosse dai collaboratori esperti linguistici già lettori di madre lingua straniera, la L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, ultimo periodo, – che ha previsto l’estinzione dei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della norma – si interpreta nel senso che tale disposizione si applica esclusivamente ai processi nei quali rileva la disciplina sostanziale, quanto al trattamento economico ed ai parametri per il riconoscimento dei diritti maturati in virtù dei precedenti rapporti lavorativi, di cui allo stesso art. 26, nel rispetto del diritto di azione ex art. 24 Cost., comma 1. In sintesi, con la sentenza n. 19164/17, in continuità con l’orientamento già espresso da Cass. nn. 10452 e 19190 del 2016, è stato evidenziato che la previsione processuale contenuta nel richiamato art. 26 si pone in stretta correlazione con la disciplina delle pretese sostanziali, sicchè non devono essere dichiarati estinti tutti i processi intentati dagli ex lettori nei confronti delle università, ma solo quelli nei quali rilevi il nuovo assetto dato dal legislatore alla materia, senza che ne derivi una vanificazione dei diritti azionati. E’, quindi, imprescindibile che la pretesa fatta valere in giudizio sia esattamente coincidente con quanto stabilito dalla norma di interpretazione autentica in merito alla quantificazione del trattamento economico spettante agli ex lettori. L’esegesi della disposizione, infatti, deve essere orientata alla salvaguardia del diritto di azione, costituzionalmente garantito, sicchè l’estinzione può operare solo “in ragione, del pieno riconoscimento a favore degli ex lettori di madrelingua straniera del bene della vita al quale i medesimi aspirano con la proposizione del contenzioso” (Corte Cost. n. 38/2012). Nella fattispecie qui in esame non è dato possibile riscontrare l’anzidetta precisa corrispondenza. Va altresì rilevato che, anche qualora sia denunziata violazione e falsa applicazione della legge, è necessario che parte ricorrente indichi le argomentazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con la fonte normativa perchè, altrimenti, il motivo, richiederebbe un inesigibile intervento integrativo da parte della Corte di legittimità (Cass. n. 328/2007, n. 21611/2013, n. 20957/2014, n. 635/2015). Nel caso di specie il ricorso incidentale, pur denunciando la violazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3 nella sua interezza, riferisce la violazione stessa alla sola mancata pronuncia di estinzione, laddove ad ogni modo rilevava la complessiva pretesa creditoria azionata dalla ricorrente, ancorchè in parte infondata o comunque preclusa dalla surriferita conciliazione, sicchè il giudizio non poteva definirsi con una mera declaratoria di estinzione ex cit. art. 26, comma 3. Di conseguenza, l’impugnazione incidentale va integralmente disattesa, mentre quella principale va accolta, però limitatamente ai crediti vantati per il periodo successivo al 31 dicembre 1993 ed unicamente per quanto concerne gli accessori di cui è stato lamentato il mancato riconoscimento per omessa pronuncia, dunque soltanto in parte con riferimento alle censure di cui al primo ed al settimo motivo nei seguenti termini (dovendosi, tuttavia, anche richiamare quanto già affermato da Cass. lav. n. 20765 del 17/08/2018, secondo cui la conservazione del trattamento di miglior favore previsto dal D.L. n. 2 del 2004, conv. con modif. in L. n. 63 del 2004, opera nei limiti precisati dalla L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, sicchè dalla data di sottoscrizione del contratto in qualità di collaboratore esperto linguistico all’ex lettore va attribuita la differenza, a titolo di assegno personale, fra la retribuzione determinata ai sensi del D.L. n. 2 del 2004, cit., eventualmente maggiorata per effetto della clausola di salvaguardia, ed il trattamento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva di comparto e decentrata, restando escluso che la retribuzione stessa possa rimanere agganciata, anche per il periodo successivo alla stipula del contratto di collaborazione, alle dinamiche contrattuali previste per i ricercatori confermati a tempo definito);
invero, con il pagamento eseguito in base al decreto rettorale del 9 maggio 2013 nulla risulta riconosciuto alla Dott.ssa D. a titolo di interessi legali e di rivalutazione monetaria, però dovuti, atteso l’evidente ritardo di detto pagamento in relazione a differenze retributive maturate fin dall’anno 1994. A tal riguardo, tuttavia, occorrono opportune precisazioni e delimitazioni. Vero è infatti che questa Corte ha evidenziato che “la pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale n. 459 del 2000, per la quale il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non opera per i crediti retributivi dei dipendenti privati, ancorchè maturati dopo il 31 dicembre 1994, non può trovare applicazione per i dipendenti privati di enti pubblici non economici – nella specie, lettori di lingua dell’Università degli studi -, per i quali ricorrono, ancorchè i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le ragioni di contenimento della spesa pubblica che sono alla base della disciplina differenziata secondo la ratio decidendi prospettata dal Giudice delle leggi” (v. Cass. 10 gennaio 2013, n. 535 e 5 luglio 2011, n. 14705). Infatti, in tema di accessori dei crediti di lavoro, la L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, ha introdotto il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria e interessi il cui diritto alla percezione non sia maturato entro il 31 dicembre 1994. Tale norma è stata oggetto dell’intervento della Corte costituzionale (sent. n. 459 del 2000), che quindi con pronuncia di accoglimento ha affermato che il divieto di cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi non trova applicazione per i crediti retributivi dei dipendenti privati, ancorchè maturati dopo il 31 dicembre 1994. Il divieto, per contro, continua ad avere applicazione per i dipendenti di enti pubblici non economici, per i quali ricorrono, ancorchè i rapporti di lavoro risultino privatizzati, le “ragioni di contenimento della spesa pubblica”, in coerenza con la ratio decidendi prospettata dal Giudice delle leggi (v. pure Cass. n. 16889 del 2015 e n. 15272 del 2017, nonchè Cass. n. 4652/2011). Tuttavia, la presente fattispecie si colloca temporalmente in epoca anche anteriore rispetto al divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria previsto dalla L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 22, comma 36, con la conseguenza che tale cumulo, fino al 31 dicembre 1994, non può essere escluso;
l’accoglimento del ricorso principale, negli anzidetti termini, comporta l’assorbimento anche delle questioni esposte dalla ricorrente principale con l’ottavo motivo, inerente al regolamento delle spese di lite, fondato essenzialmente sulla censurata omessa declaratoria di cessazione della materia del contendere, invece del pronunciato rigetto del gravame, laddove tale rigetto risultava giustificato, ancorchè in parte, alla stregua delle precedenti considerazioni, per cui da ultimo la questione appare, comunque, superata, atteso l’accoglimento per quanto di ragione delle doglianze espresse dalla stessa ricorrente principale. Ciò che determina, inevitabilmente, la conseguente cassazione della sentenza impugnata anche in ordine alle spese (infatti, il principio, previsto dall’art. 336 c.p.c., comma 1, secondo il quale la cassazione parziale ha effetto anche sulle parti della sentenza dipendenti da quella cassata – c.d. effetto espansivo – comporta che la caducazione, in sede di legittimità, della pronuncia nel merito del giudice di appello, ancorchè limitata ad un capo di essa, si estende alla statuizione relativa alle spese processuali – cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. nn. 19305/2005 e n. 13428/2007);
pertanto, in conclusione vanno accolti, negli anzidetti limiti, il primo ed il settimo motivo del ricorso principale, con assorbimento dell’ottavo, disattesi tutti gli altri, integralmente per di più quello incidentale. Di conseguenza, l’impugnata sentenza deve essere cassata per quanto di ragione, in relazione ai motivi accolti;
non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., con la condanna dell’Università al pagamento, in favore della Dott.ssa D., sulle differenze retributive come già liquidate con il succitato Decreto Rettorale 9 maggio 2013 in relazione al periodo gennaio 1994 / aprile 2013, degli interessi e della rivalutazione monetaria ex art. 429 c.p.c. fino al 31 dicembre 1994, nonchè della maggior somma tra interessi al tasso legale e rivalutazione monetaria per il periodo successivo (sono poi dovuti sugli anzidetti accessori gli ulteriori interessi di mora come per legge sono al definitivo soddisfo);
le illustrate ragioni della decisione e la solo parziale riforma dell’impugnata sentenza inducono a ravvisare valide e giuste ragioni per compensare le spese dell’intero processo, ivi compreso quindi il giudizio di legittimità. Nulla peraltro a tal riguardo va disposto nei confronti dell’I.N.P.S., che non ha svolto alcuna attività difensiva a seguito della notifica del ricorso, perciò nemmeno formulando alcuna conclusione di sorta;
deve darsi atto, infine, quanto al solo all’integrale rigetto del ricorso incidentale, della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, visto che l’Università del ***** non è equiparabile pienamente ad un’amministrazione dello Stato, sicchè non è del tutto obbligata ad avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, il cui patrocinio deve intendersi meramente “autorizzato” in difetto di espressa e motivata deliberazione che vi deroghi a favore di avvocati del libero foro.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale nei limiti di cui in motivazione e rigetta integralmente quello incidentale. Cassa, per l’effetto, l’impugnata sentenza, per quanto di ragione, e, decidendo nel merito, condanna l’Università del ***** al pagamento, in favore della ricorrente principale, sulle differenze retributive come già liquidate in relazione al periodo gennaio 1994 / aprile 2013, degli interessi e della rivalutazione monetaria fino al 31 dicembre 1994, nonchè della sola maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria per il periodo posteriore, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 22, comma 36, dalla maturazione dei crediti di cui al Decreto Rettorale 9 maggio 2013, n. 487 (con successiva corresponsione del 28 maggio 2013), oltre successivi interessi fino al saldo.
Dichiara compensate tra le parti le spese dell’intero processo (nulla per l’I.N.P.S. quanto al presente giudizio di legittimità).
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell’Università del ***** – ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 4 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2020
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