LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. GILOTTA Bruno – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 27430/2013, promosso da:
G.R., ora rappresentato e difeso in giudizio dall’avv. Adriana La Rocca del foro di Milano ed elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’avv. Rita Gradara, Largo Somalia, 67;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza n. 65/45/13 del 2012 emessa il 15 aprile 2013 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, avente ad oggetto gli avviso di accertamento n. ***** per I.R.PE.F. e addiz. reg. 2006 e *****, per I.R.PE.F. e addiz.
reg. 2007.
RILEVATO
CHE:
Con l’avviso di accertamento in oggetto la Direzione Provinciale dell’Agenzia delle Entrate di ***** ha accertato in capo a G.R., ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e con gli effetti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e art. 41 bis, per il 2006 il reddito complessivo di Euro 303.105,00 a fronte di quello dichiarato di Euro 82.059,00, e per il 2007 il reddito complessivo di Euro 357.359,00 a fronte di quello dichiarato di Euro 90.325,00. Gli accertamenti erano stati imputati a maggiore reddito di partecipazione al 50% alla Società G.R. e C.N. s.n.c., nel presupposto dell’interposizione fittizia della Profil. Mec. S.r.l. nella distribuzione degli utili sociali, alla quale il contribuente aveva ceduto l’usufrutto sulle quote sociali della G. e C. s.n.c..
Gli accertamenti, impugnati dal contribuente, sono stati validati dalla Commissione Tributaria Provinciale di Varese, che ha rigettato i ricorsi proposti.
La decisione è stata confermata dalla Commissione Tributaria Regionale con la sentenza sopra indicata, avverso la quale il contribuente ricorre con cinque motivi.
Al ricorso l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
Per la trattazione è stata fissata l’adunanza in camera di consiglio del 18 dicembre 2019, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. n. 168 del 2016.
Il ricorrente ha depositato memoria a norma dell’art. 380-bis c.p.c..
CONSIDERATO
CHE:
Con il primo motivo il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè la Commissione tributaria regionale ha ritenuto applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, a prescindere dal possesso del reddito da parte del contribuente cui tale reddito è imputato”.
Sostiene il ricorrente che, secondo quanto già dedotto come motivo d’appello, “l’attribuzione ed imputazione di redditi formalmente prodotti da altri soggetti secondo lo schema dell’interposizione richiede prove approfondite e rigorose, il cui onere grava sull’Amministrazione finanziaria. (…) In particolare, l’Ufficio, nell’avviso di accertamento, senza fornire la prova, sostiene che l’operazione sarebbe antieconomica e che parte degli utili non sarebbero stati distribuiti alla società Profil.mec, in esecuzione del contratto di partecipazione…. Tali fatti, contestati dall’appellante e non provati dall’Ufficio, in ogni caso sono inidonei a costituire presunzioni gravi, precise e concordanti di evasione fiscale… l’Ufficio accertatore non ha rinvenuto alcun documento idoneo a dimostrare che il sig. G. detenesse il 50% dell’usufrutto sulle quote della società Account Service s.a.s.” A fronte di quanto dedotto dal contribuente, la Commissione Tributaria Regionale avrebbe dovuto esprimersi in ordine al fatto se, nel caso di specie, vi fosse la dimostrazione del possesso del reddito da parte del sig. G.. Ciò, infatti, è quanto richiede la disposizione in base alla quale sono stati emessi gli avvisi…. In violazione del chiaro dettato della norma, la CTR ha ritenuto che, ai fini dell’applicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, non è necessario che sia data prova che il contribuente ha posseduto il reddito oggetto di imputazione. La CTR ha affermato che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, è applicabile quando è riscontrata (anche solo) l’interposizione di un soggetto ad un altro, dunque, a prescindere dalla prova che l’interponente abbia avuto il possesso del reddito imputatogli ai sensi della predetta disposizione… Sono pertanto da censurare le affermazioni della CTR secondo cui “obiettivo della norma è l’individuazione del titolare effettivo del reddito da porre in tassazione. Il citato decreto, art. 37, comma 3, impone di ignorare le ingannevoli apparenze e di badare non alla finzione, ma alla realtà effettuale dei fenomeni nella loro vera conformazione giuridica”, e secondo cui il ” D.P.R. n. 600, art. 37, comma 3, che, correttamente interpretato, conduce ad affermare che l’accertamento dell’interposizione soggettiva di per sè sottende la finalità elusiva della corretta applicazione del regime impositivo”. Con tali affermazioni, infatti, la CTR dimostra di interpretare erroneamente il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, in quanto la CTR prescinde del tutto dalla condizione essenziale prevista dalla predetta disposizione, ai fini della sua applicabilità: l’avvenuta prova del possesso del reddito.
Nella memoria ex art. 380-bis c.p.c., il ricorrente richiama anche la sentenza 433/2013.
La doglianza è infondata.
Correttamente la sentenza impugnata pone l’accento non sul fatto che l’interponente sia stato colto nel possesso del reddito, ma sul fatto che l’interposizione, essendo stata fittizia e meramente apparente, abbia costituito indizio grave e sufficiente per ritenere che i redditi formalmente imputati all’interposta dovessero essere imputati invece all’interponente, quindi “l’effettivo possessore per interposta persona” del reddito.
L’interpretazione proposta dal ricorrente non solo si pone in contrasto con la lettera dell’art. 37, comma 3, (“quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore”: dove il possesso in capo all’interponente può essere indiscutibilmente conseguenza del quadro indiziario) ma produrrebbe l’effetto di rendere pressochè impossibile l’applicazione concreta della norma se l’individuazione della fattispecie dovesse partire non dalla fittizietà dell’interposizione, ma dalla prova (per lo più impossibile a darsi) del reale del possesso, in capo all’interponente, del reddito.
Il principio affermato dalla sentenza n. 433 del 2013 (secondo la quale il D.P.R. n. 600 del 1973, comma 3, si applica a tutti quei casi in cui i redditi attribuiti giuridicamente a un terzo siano invece riferibili ad un soggetto che ne ha l’effettiva disponibilità) lungi dal contrastare questa interpretazione, invece la conferma, perchè riferisce la norma richiamata a tutti i casi di interposizione, compresa quella reale (nella quale l’imputazione del reddito all’effettivo titolare richiede un apposito atto traslativo e sulla quale il caso si era posto); ma senza assolutamente escludere il caso di interposizione fittizia.
Con il secondo motivo deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., e degli artt. 2727 e 2729 c.c., comma 1, nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, avendo la Commissione Tributaria Regionale ritenuto l’elusività dell’operazione “su una circostanza, antieconomicità della cessione dell’usufrutto sulla quota nella G.R. & C.N. s.n.c., che non è un “fatto noto”, e che comunque è privo di gravità, precisione e concordanza, ai fini della inferenza, da tale fatto, della conseguenza ignota. Sostiene il ricorrente che “secondo l’Agenzia, e poi anche secondo la CTR, il carattere antieconomico di tale operazione deriverebbe dal raffronto, ex post, del corrispettivo percepito dal sig. G. per la cessione dell’usufrutto, e gli utili della società che egli avrebbe potuto percepire se non avesse ceduto l’usufrutto. Ma si sarebbe trattato di una valutazione errata, perchè compiuta ex post e non al momento in cui era stato stipulato il preliminare di cessione di usufrutto, nel febbraio del 2004, quando non sarebbe stato più possibile contare su operazioni straordinarie che avevano elevato il fatturato straordinario negli anni precedenti.
Anche questa censura è infondata.
La sentenza, nel ritenere fittizia la cessione dell’usufrutto della quota, ha richiamato le argomentazioni dell’atto accertativo sia in ragione delle “articolate partecipazioni” dell’usufruttuaria, sia in ragione dell’evidente antieconomicità dell’operazione.
La prima argomentazione fa implicito riferimento a quanto descritto dalla stessa ricorrente a pagina 5 del ricorso sul complicato trasferimento del diritto di usufrutto della sua quota del 50% sulla G. & C. prima alla collaterale (perchè partecipata al 96,16& dalla G. e C. s.n.c.) Account Service s.a.s.; poi da questa (lo stesso giorno:*****) al Profil.Mec s.r.l.: duplice trasferimento del quale il ricorrente, a confutazione della motivazione della sentenza, non ha dato spiegazione. Così come non fa accenno a quanto significativamente affermato dalla sentenza, là dove afferma che “dalla verifica fiscale operata dall’Amministrazione finanziaria risultava che evidente che la Profil.Mec era una società meramente strumentale utilizzata per la realizzazione di operazioni fraudolente a vantaggio di diversi contribuenti attraverso la stipulazione di fittizi contratti di associazioni in partecipazione e cessioni di diritto di usufrutto di quote.”
La seconda argomentazione è contestata dal ricorrente per il fatto che il contratto preliminare di cessione sarebbe avvenuto il 20 febbraio del 2004 e che pertanto la valutazione di antieconomicità dell’operazione sarebbe avvenuta ex post. Il ricorrente però non considera che la data certa della cessione è quella del *****, quando i risultati dell’esercizio economico non potevano non essere noti; che anche il preliminare del ***** avesse data certa il ricorrente non dice.
Con il terzo motivo deduce ” Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, là dove la Commissione tributaria regionale, pur affermando che le operazioni in contestazione sono elusive, ha negato l’applicabilità delle garanzie procedurali previste per gli accertamenti antielusivi, in particolare quelle di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, in quanto gli avvisi sono stati emessi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3".
Sostiene che la sentenza impugnata viola il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, “là dove ha statuito che con riguardo agli avvisi di accertamento, emessi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, anche se concernenti operazioni ipotizzate come elusive, l’Agenzia delle Entrate non è tenuta al rispetto delle garanzie procedimentali applicabili agli avvisi di accertamento cd. antielusivi, ed in particolare delle garanzie previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e seguenti.” Sicchè “in sostanza, le garanzie previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, commi 4 e seguenti, non si applicherebbero agli avvisi di accertamento concernenti comportamenti ipotizzati come elusivi, ma solo a quelli che siano formalmente emessi ai sensi della predetta disposizione”.
La censura è infondata.
Già con la sentenza 405/2015 questa Corte ha statuito, in materia d’imposte dirette, che il legislatore ha proceduto alla tipizzazione delle condotte elusive, sicchè può configurarsi un abuso del diritto solo qualora ricorra una delle operazioni indicate nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, il cui comma 3, limita l’ambito applicativo dei due precedenti commi. Non è, tuttavia, necessario che l’effetto elusivo derivi direttamente da una di tali condotte tipiche, di cui è sufficiente la presenza quale elemento della fattispecie.
Con la sentenza 24024/2015 ha ribadito e chiarito che pur costituendo l’abuso del diritto un principio generale, con radici comunitarie e costituzionali, rilevabile d’ufficio dal giudice, nonostante la mancata allegazione dell’Amministrazione finanziaria, il legislatore ha proceduto, con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, alla tipizzazione delle condotte elusive, sicchè può configurarsi un abuso del diritto solo qualora ricorra una delle operazioni ivi indicate nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, il cui comma 3, limita l’ambito applicativo dei due precedenti commi.
Con l’ordinanza 27886/2018 ha esplicitamente affermato che la disciplina antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, espressione del principio generale del divieto di abuso del diritto, non trova applicazione nell’ipotesi di interposizione di persona disciplinata dal detto decreto, art. 37, comma 3, non rientrando la stessa tra le operazioni negoziali tipizzate dal legislatore in presenza delle quali può configurarsi un abuso del diritto, da considerarsi tassative, avendo le finalità di limitare il rischio di una indiscriminata applicazione di tale figura, evitare controversie tributarie su accertamenti fiscali dall’esito incerto, ed impedire che i contribuenti siano sottoposti a inutili e complessi accertamenti fiscali a discapito di altre attività di controllo.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, per non aver esaminato, la CTR il fatto, ritenuto decisivo per il giudizio, ed oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla regolare esecuzione del contratto di cessione di usufrutto delle quote della società Account Service s.a.s., in particolare rappresentato dal pagamento eseguito dalla Profil.Mec S.r.l. (quale cessionaria dell’usufrutto) in favore della G.R. & C.N. s.n.c. (quale cedente dell’usufrutto), secondo quanto previsto nel contratto. La sentenza avrebbe fatto proprie le circostanze che avrebbero evidenziato la fittizietà del contratto con la Profil.Mec S.r.l. (in ragione delle articolate compartecipazioni), e l’irragionevolezza degli accordi pattuiti senza tener conto del fatto decisivo, dedotto dal contribuente, costituito dall’avvenuto pagamento, ad opera della Profil.Mec S.r.l. del prezzo dell’usufrutto acquistato sulle quote della società Account Service s.a.s.; pagamento dimostrato dal mastrino contabile, prodotto in giudizio dal contribuente.
Anche questo motivo è infondato.
La presenza di rappresentazioni contabili o bancarie a supporto delle operazioni fittizie, elusive o evasive, non è mai di per sè elemento decisivo per escluderle, trattandosi di un primo ed elementare strumento per simulare l’effettività dell’operazione. In giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, questa valutazione è divenuta ius receptum (Cass., 27566/2018; Cass., 1781/2016; Cass., 428/2015; Cass., 20059/2014) e questo spiega perchè la Commissione Tributaria Regionale non si è occupata esplicitamente di questo argomento difensivo.
Con il quinto motivo deduce “Violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, e del TUIR, art. 163, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR affermato che le predette disposizioni non si applicano al caso in questione, perchè il soggetto interposto ha diritto di chiedere il rimborso delle imposte accertate nei suoi confronti”, così come previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 4.
Sostiene che quanto affermato dalla CTR è in contrasto con il divieto di doppia imposizione interna previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, e dal T.U.I.R., art. 163, ove è sancito che “la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”. La disposizione riguarda la fase di accertamento del tributo, come si evince dalla sua collocazione nel D.P.R. n. 600 del 1973, in tema accertamento, e non nel D.P.R. n. 602 del 1973, che riguarda la riscossione e quindi va interpretata nel senso che la stessa imposta non può essere “accertata” o “pretesa” più volte, nemmeno nei confronti di soggetti diversi. Nel caso di specie i redditi derivanti dal contratto di cessione dell’usufrutto hanno regolarmente concorso alla formazione del reddito della società usufruttaria e sono stati accertati anche nei confronti della Profil.Mec s.a.s.
La censura è infondata.
La sentenza della Commissione Tributaria Regionale si pone infatti in linea con la giurisprudenza – applicabile anche in tema di imposte dirette – secondo cui l’avviso di accertamento per il recupero d’IVA non versata, emesso nei confronti di società che ha effettuato cessioni di beni, non può essere ritenuto illegittimo in quanto analoga azione è stata avviata nei confronti del cessionario, atteso che non sussiste, in tale ipotesi, alcuna violazione del divieto della cd. doppia imposizione, ravvisabile solo quando una medesima imposta gravi sullo stesso soggetto e non già invece quando l’ente impositore la richieda a persone diverse. In quest’ultimo caso, individuato il soggetto effettivamente debitore, l’estraneo maturerà il diritto a richiedere il rimborso di quanto eventualmente versato (Cass., 18917/2015).
In caso contrario, non si capirebbe l’esplicita previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 5, che prevede che le persone interposte, che provino di aver pagato imposte in relazione a redditi successivamente imputati, a norma del comma 3, ad altro contribuente, possono chiederne il rimborso (e in misura non superiore a quanto effettivamente riscosso dall’interposto). Fattispecie che, contrariamente all’assunto del ricorrente, pur riferendosi al caso in cui l’accertamento a carico dell’interponente sia divenuto definitivo dopo il pagamento da parte dell’interposto, non esclude che l’Agenzia abbia dovuto procedere contemporaneamente nei confronti di entrambi i soggetti, secondo una valutazione legislativa dove pesa il disvalore dell’interposizione (sia reale che fittizia) e il principio di affidamento nei confronti dei terzi (fra questi compresa l’amministrazione finanziaria) che si esprime anche nella limitazione del rimborso a quanto effettivamente riscosso dall’interponente.
Il ricorso va quindi rigettato.
Ciononostante, la sentenza va cassata nella parte che riguarda l’applicazione delle sanzioni e in forza dello ius superveniens portato dal D.Lgs. n. 158 del 2015.
Come già affermato da questa Corte (Cass., 33040/2016), in materia di irrogazione di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, nel rispetto del principio del “favor rei”, trova applicazione il trattamento più favorevole di cui al D.Lgs. n. 158 del 2015, la cui utilizzabilità quale “ius superveniens” è assicurata in pendenza di giudizio dall’art. 32, comma 1, (come modificato dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 133), a condizione che vi sia un processo ancora in corso ed il provvedimento impugnato non sia, quindi, divenuto definitivo (Sez. 5, n. 15978 del 27/06/2017; id. n. 1706 del 24/01/2018). In altre successive pronunce (Sez. 5 n. 15828 del 15/06/2018; n. 17143 del 28/06/2018; n. 31062 del 30/11/2018) si è avuto modo di specificare che lo ius superveniens non ha avuto l’effetto di rendere automaticamente illegale la sanzione applicata, con la conseguenza che la mera pendenza del giudizio non è condizione esclusiva di applicazione della nuova normativa, avendo il contribuente l’onere, oltre che di invocarne l’applicazione, anche di fornire specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione in fase di giudizio di rinvio.
Nel caso di specie il contribuente, nell’indicare che l’atto impositivo ha indicato nel minimo applicabile la sanzione applicata, pari al 100% della maggiore imposta accertata, fondatamente introduce il criterio di un nuovo ricalcolo, che, in ragione della nuova normativa, non potrà superare il minimo oggi previsto sulla maggiore imposta accertata.
Lo ius superveniens giustifica la cassazione dalla sentenza impugnata con rinvio delle parti innanzi alla Commissione tributaria regionale per la Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese del presente grado di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta i motivi di ricorso, cassa la sentenza impugnata sul punto relativo alle sanzioni applicate e rinvia alla Commissione tributaria regionale per la Lombardia, in diversa composizione, per la rideterminazione delle stesse a norma del D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15, e per le statuizioni sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 18 dicembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2020