LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. TRIA Lucia – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26130-2018 proposto da:
R.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA MENDOLA 32, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE POMPEO PINTO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2844/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/07/2018 R.G.N. 3423/2015.
RILEVATO
che:
1. con la sentenza n. 2844, resa in data 12 luglio 2018, la Corte d’appello di Roma respingeva il ricorso proposto, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, da R.D. per ottenere la revocazione della sentenza n. 6104/2015 della medesima Corte d’appello;
con la pronuncia di cui era stata chiesta la revocazione la Corte capitolina aveva respinto il reclamo proposto dalla R. contro la decisione del Tribunale di Roma che aveva rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza del Tribunale con cui il ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48 per la declaratoria di illegittimità del licenziamento alla predetta intimato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze era stato respinto sul presupposto che non si fosse in presenza di un licenziamento bensì di un provvedimento di decadenza dall’impiego pubblico per incompatibilità con lo svolgimento da parte della R. della professione forense;
riteneva la Corte territoriale che tutte le questioni sollevate dalla ricorrente non attenessero a fatti su cui la decisione impugnata per revocazione si era fondata ma riguardassero quella parte della sentenza relativa allo svolgimento del processo che non aveva avuto alcuna incidenza sulla statuizione finale, effettuata alla luce della valutazione di un fatto incontroverso tra le parti (che non poteva essere messo in discussione in sede di revocazione) circa la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti, interpretata in termini di decadenza dall’impiego dal Collegio a fronte di una valutazione dello stesso, da parte della ricorrente, quale vero e proprio licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo;
2. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso R.D. con nove motivi;
3. il Ministero dell’Economia e delle Finanze è rimasto intimato;
4. non sono state depositate memorie.
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere la Corte territoriale ritenuto sussistente un errore di fatto revocatorio consistito nella divergenza tra la realtà processuale come risultante dai fatti dedotti dall’istante a difesa dei propri diritti e interessi ed incontrovertibili alla stregua della documentazione prodotta nel giudizio di prime cure e ciò che risultava espressamente dalla sentenza di cui si chiedeva la revocazione che aveva fondato la propria decisione su fatti diversi da quelli introdotti con il ricorso;
2. con il secondo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5 e art. 158 c.p.c. quale error in procedendo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per essere stata la sentenza impugnata redatta dal giudice in formato elettronico e non sottoscritta con forma digitale;
3. con il terzo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza per error in procedendo ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per essere stata l’assenza di costituzione della parte convenuta dichiarata solo nel frontespizio della sentenza e non anche nella motivazione della decisione, per avere la Corte territoriale fondato la decisione su prove immaginarie cioè reputate dal giudice esistenti ma in realtà mai offerte, per aver ritenuto che si vertesse in tema di valutazione della prova laddove invece quello in discussione non era il valore probatorio di un fatto o atto (attività di valutazione) bensì l’individuazione del suo contenuto (attività di percezione), per non avere rilevato vizi relativi alla regolarità del processo e verificato che gli atti depositati irritualmente nel fascicolo telematico (in formato pdf e non in formato p7m) erano difformi rispetto al modello previsto dal D.Lgs. n. 28 del 2005, art. 24;
4. con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., artt. 112,114 c.p.c., art. 132, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la Corte d’appello erroneamente omesso di considerare che la pronuncia revocanda non aveva tenuto conto di fatti dedotti in causa e non contestati (e così della mancata reintegra in servizio della R. a seguito dell’ordine del Tribunale giusta sentenza n. 9643/2013, della sua inabilità al lavoro come da relazione medico-legale, della sua iscrizione come avvocato comunitario a seguito della mancata reintegra);
5. con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per essersi la Corte territoriale, con la sentenza revocanda, pronunciata su un fatto censurabile con la revocazione ordinaria, ossia su una presunta incompatibilità di lavoro non dimostrata agli atti a fronte di un fatto incontroverso, quale il licenziamento senza giusta causa nè giustificato motivo, come agli atti provato, senza aver verificato la sussistenza del diritto fatto valere in giudizio;
6. con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dell’art. 2110 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 per avere la sentenza impugnata omesso di considerare un fatto decisivo risultante dagli atti e cioè che la R. non avesse percepito alcunchè sin dall’ordine del Tribunale di Roma di reintegrazione non eseguito, giusta sentenza n. 9643/2013, che fosse stata licenziata in tronco in ragione di una presunta ed insussistente incompatibilità lavorativa, che il licenziamento fosse stato intimato senza giusta causa e giustificato motivo durante il periodo di infortunio che aveva causato l’inabilità permanente al lavoro;
7. con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per avere la Corte di merito riconosciuto il nesso di causalità circa la cessazione dal rapporto, ancorchè come decadenza dall’impego con la determina sottoscritta dal direttore del Ministero de quo, senza dare attuazione alle tutele previste nel caso di specie e segnatamente al diritto alla conservazione del posto per un periodo fissato dai contratti collettivi che non interrompe l’anzianità di servizio con diritto al trattamento economico ai sensi dell’art. 2110 c.c., così violando il principio della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non c.p.c.;
8. con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 63 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la Corte di merito omesso di considerare che la competenza a dichiarare la decadenza dall’impiego spettasse al Ministero competente e non ad un direttore generale che, fra l’altro, nel caso di specie, versava in stato di conflitto di interesse, essendosi costituito nel primo grado di giudizio, ancorchè privo di delega;
9. con il nono motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata per la violazione degli artt. 101,102,112, 115 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 4, degli artt. 244 c.p.c. e ss. e artt. 24, 37 e 111 Cost. per non avere la Corte territoriale deciso alcunchè rispetto alle doglianze sollevate dalla ricorrente, limitandosi ad affermare che “tutte le questioni sollevate da parte ricorrente non attengono a fatti su cui la decisione si è fondata”;
10. il ricorso, nei vari motivi in cui è articolato, è infondato;
11. occorre innanzitutto rilevare che oggetto di impugnazione è la sentenza della Corte romana resa su ricorso per revocazione;
11.1. è tale sentenza che delimita, in questa sede, l’oggetto del contendere e che rende inammissibili le doglianze che, invero in modo non del tutto chiaro, sembrano piuttosto essere dirette a censurare i passaggi logico-argomentativi della sentenza di cui era stata chiesta la revocazione e cioè della sentenza della Corte di appello di Roma n. 6104/2015, con rilievi (si pensi, ad esempio, a quelli di cui al settimo, all’ottavo ed al nono motivo) che avrebbero dovuto essere fatti valere con apposito ricorso per cassazione avverso tale sentenza;
11.2. si aggiunga, quale ulteriore profilo di inammissibilità, che la sopra indicata sentenza n. 6104/2015 sulla quale la ricorrente fonda quelle, tra le censure, che attengono direttamente alla decisione resa in sede di revocazione, risulta allegata al ricorso per cassazione ma della stessa non è riprodotto il testo nelle parti di interesse utili a reggere le censure: la stessa, infatti, meramente citata alle pagg. 8 e 16 del ricorso per cassazione risulta riportata, nel contenuto, per mera sintesi narrativa (pag. 24 del ricorso per cassazione) con ciò impedendo a questa Corte di comprendere appieno le ragioni per le quali di tale sentenza sia stata chiesta la revocazione (invero anche il ricorso ex art. 395 c.p.c. non è stato riprodotto integralmente nè allegato al ricorso per cassazione risultando solo a pag. 13 riassuntivamente riportate le ragioni a base dello stesso; di tale ricorso, peraltro, sono trascritti alcuni passaggi nella sentenza qui impugnata – v. pagg. da 2 a 5 -);
si ricorda che il ricorso per cassazione deve essere redatto nel rispetto dei requisiti imposti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c. che al comma 1, n. 6, richiede “la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”;
è, quindi, necessario che il ricorrente, oltre a riportare nel ricorso il contenuto del documento, quanto meno nelle parti essenziali, precisi in quale fase processuale è avvenuta la produzione ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione;
va precisato, al riguardo, che il requisito di cui al richiamato art. 366, n. 6 non può essere confuso con quello di procedibilità previsto dall’art. 369 c.p.c., n. 4 in quanto il primo risponde all’esigenza di fornire al giudice di legittimità tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (v. fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28 settembre 2016, n. 19048);
12. ciò chiarito, è infondato il rilievo con il quale la ricorrente si duole della mancata sottoscrizione con firma digitale, della sentenza qui impugnata, redatta in formato elettronico;
nella specie, infatti, la sentenza qui impugnata è stata prodotta in copia cartacea ritualmente sottoscritta dall’estensore e dal Presidente con in calce l’attestazione di conformità al corrispondente esemplare informatico ivi contenuto e per legge equivalente all’originale;
tale attestazione di conformità all’originale della copia della sentenza civile in forma digitale dimostra anche l’avvenuta sottoscrizione di quest’ultima da parte del giudice, senza possibilità di contestazione, se non tramite querela di falso, poichè, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23 (codice dell’amministrazione digitale), le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte, se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (v. Cass. 19 giugno 2017, n. 15074; Cass. 16 agosto 2018, n. 20747);
13. del pari infondata la denuncia di error procedendo per non avere la Corte territoriale dichiarato la mancata costituzione della parte convenuta nella motivazione della decisione;
come da questa Corte già affermato, una volta accertata la regolare costituzione del contraddittorio nei confronti della parte non costituita (la quale soltanto è legittimata a denunciarne la violazione), la mancata formale dichiarazione di contumacia di tale parte non è di per sè causa di nullità del procedimento o della sentenza, avendo tale declaratoria il solo scopo di fornire la prova dell’avvenuto accertamento, da parte del giudice, della regolare notificazione dell’atto introduttivo alla parte non comparsa (Cass. 4 luglio 2019, n. 17928; Cass. 5 settembre 2013, 20406; Cass. 3 agosto 2005, n. 16229);
14. del tutto inammissibili sono, poi, i rilievi che riguardano la formazione del fascicolo telematico con documenti che si assume siano stati inseriti solo in formato pdf (con file contenente la sottoscrizione tipo PAdES inglobata insieme al documento stesso), e non con l’estensione p7m (con firma digitale CAdES inserita insieme con il documento firmato in una busta);
14.1. non si comprende, infatti, a quali specifici atti il rilievo si riferisca (se cioè si tratti di atti relativi al giudizio di primo grado o a quello di appello – per i quali le censure avrebbero dovuto essere fatte valere rispettivamente con l’atto di gravame avverso la sentenza del Tribunale o con il ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello ovvero di atti relativi al giudizio per revocazione) facendo la ricorrente generico riferimento a vizi relativi alla regolarità del processo ed al fascicolo telematico della causa in tutti i suoi gradi di giudizio;
nè tali atti sono stati trascritti nel loro contenuto e allegati al ricorso per cassazione (essendo solo richiamato, a pag. 28 del ricorso, l’estratto del registro del fascicolo telematico);
neppure si evince se ed in che termini il vizio eventualmente interessante il giudizio di revocazione sia stato dedotto innanzi ai giudici di tale giudizio;
14.2. peraltro come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle decisione del 27 aprile 2018 n. 10266 “si deve escludere che le disposizioni tecniche tuttora vigenti (pure a livello di diritto dell’UE) comportino in via esclusiva l’uso della firma digitale in formato CAdES, rispetto alla firma digitale in formato PAdES. Nè sono ravvisabili elementi obiettivi, in dottrina e prassi, per poter ritenere che solo la firma in formato CAdES offra garanzie di autenticità, laddove il diritto dell’UE e la normativa interna certificano l’equivalenza delle due firme digitali, egualmente ammesse dall’ordinamento sia pure con le differenti estensioni p7m e pdf;
15. nè fondatamente la ricorrente si duole della violazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4 (che permea tutti gli ulteriori rilievi);
15.1. nella specie, per quanto si evince dalla sentenza qui impugnata (ed anche a voler superare i rilievi di inammissibilità di cui sopra si è detto), il ricorso per revocazione era stato proposto da R.D., ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, sostenendosi che la sentenza impugnata fosse frutto di un errore di fatto risultante dagli atti e dai documenti del processo, per essere fondata su situazioni di fatto inesistenti;
15.2. tali fatti asseritamente inesistenti sarebbero stati: 1) l’aver la stessa R. assunto l’illegittimità del provvedimento di decadenza dall’impiego pubblico D.P.R. n. 1071 del 1957, ex art. 63 prot. n. 14749 emesso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 23/12/2013 nei suoi confronti laddove, nella specie, la decadenza dall’impiego era stata firmata dalla Direttrice generale, in luogo del previsto decreto del Ministro competente; 2) l’aver la Corte territoriale ricostruito la vicenda relativa alla richiesta di sospensione del giudizio in attesa dell’esito della querela di falso proposta dalla R. innanzi al Tribunale di Roma in modo non coincidente con quello realmente allegato al processo; 3) l’aver fatto riferimento alla costituzione in giudizio del Ministero per mezzo dell’Avvocatura dello Stato, fatto insussistente agli atti del processo; 4) l’aver ritenuto infondate le doglianze della R. relative alla regolare costituzione in giudizio del Ministero nella fase sommaria affermando che la costituzione a mezzo dei funzionari era prevista dall’art. 417 c.p.c., laddove dette doglianze avevano avuto differente contenuto; 5) l’aver frainteso l’oggetto della querela di falso; 6) il non aver considerato la decadenza dall’impiego quale caso di cessazione anticipata dal contratto di lavoro a tempo indeterminato in difformità rispetto alla situazione dedotta agli atti del giudizio; 7) l’aver inteso le conclusioni della R., in dipendenza degli errori di cui ai punti precedenti, in modo difforme rispetto all’articolato ed ampio contenuto delle stesse; 8) l’aver fatto riferimento ad una memoria difensiva dell’Avvocatura Generale dello Stato che non si rinveniva negli atti del fascicolo d’ufficio;
15.3. orbene, la Corte territoriale, dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decisività delle circostanze oggetto del denunciato errore di fatto (così Cass. 26 settembre 2013, n. 22080 e Cass. 5 aprile 2017, n. 8828) e quella differenziante l’errore meramente percettivo da quello valutativo (cosi Cass., Sez. Un., 11 aprile 2018, n. 8984; Cass. 15 gennaio 2009, n. 844; Cass. 31 marzo 2011, n. 7488), ha escluso la sussistenza dei presupposti dell’errore revocatorio;
ha, in particolare, evidenziato che non si era trattato di valutare come esistenti fatti inesistenti bensì solo di interpretare una determinata circostanza (la cessazione del rapporto) in modo diverso da quello preteso, riconducendola ad una ipotesi di decadenza dall’impiego piuttosto che ad un licenziamento privo di causa o giustificato motivo;
15.4. a fronte di tale passaggio argomentativo, che ha ricondotto i prospettati rilievi al più ad errori valutativi ma non certo ad errori percettivi, la ricorrente si è limitata, da un lato, a reiterare le censure sottoposte a giudice della revocazione, senza specificamente contrastare il suddetto giudizio della Corte territoriale, e dall’altro a formulare critiche ultronee, come se la sentenza impugnata, respingendo il ricorso per revocazione, avesse inglobato in sè le valutazioni della sentenza revocanda;
15.5. le considerazioni espresse dai giudici capitolini sono, del resto, del tutto in linea con l’orientamento espresso da questa Corte;
15.6. va infatti ricordato che l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a determinare la revocazione delle sentenze, secondo consolidata giurisprudenza, deve: 1) consistere in un’errata percezione del fatto, in una svista di carattere materiale, oggettivamente ed immediatamente rilevabile, tale da avere indotto il giudice a supporre la esistenza di un fatto la cui verità era esclusa in modo incontrovertibile, oppure a considerare inesistente un fatto accertato in modo parimenti indiscutibile; 2) essere decisivo, nel senso che, se non vi fosse stato, la decisione sarebbe stata diversa; 3) non cadere su di un punto controverso sul quale la Corte si sia pronunciata; 4) presentare i caratteri della evidenza e della obiettività, sì da non richiedere, per essere apprezzato, lo sviluppo di argomentazioni induttive e di indagini ermeneutiche; 5) non consistere in un vizio di assunzione del fatto, nè in un errore nella scelta del criterio di valutazione del fatto medesimo; sicchè detto errore non soltanto deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, ma non può tradursi, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, ovvero di norme giuridiche e principi giurisprudenziali, vertendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’errore di giudizio, inidoneo a determinare la revocabilità delle sentenze della Cassazione;
15.7. è stato, in particolare, ritenuto che resta fuori dell’area del vizio revocatorio la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perchè siffatto tipo di errore, ove pure in astratta ipotesi fondato, costituirebbe un errore di giudizio e non un errore di fatto (cfr. Cass. 14 aprile 2017, n. 9673 nonchè Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 30994);
15.8. è stato altresì escluso l’errore revocatorio dell’erronea comprensione del contenuto giuridico-concettuale delle difese (v. Cass. 22 marzo 2005, n. 6198) e l’inesatta qualificazione dei fatti ivi esposti (Cass. 10 giugno 2009, n. 13367); l’errato apprezzamento di un motivo di ricorso (Cass. 15 giugno 2017, n. 14937);
15.9. tale essendo il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, la decisione della Corte territoriale si sottrae ad ogni rilievo;
16. da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato;
17. nulla va statuito sulle spese in difetto di attività difensiva del Ministero;
18. va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 poichè l’obbligo del pagamento dell’ulteriore contributo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (cosi Cass., Sez. Un., 7 ottobre 2014, n. 22035.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo prescritto a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 novembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020
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