Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.16357 del 10/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8112-2014 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. AVEZZANA 1, presso lo studio dell’avvocato MANFREDINI ORNELLA, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SCRIPELLITI NINO, BELLANDI ELENA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5/2013 della COMM. TRIB. REG. della Toscana Sez. FIRENZE, depositata il 04/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/09/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

RILEVATO

Che:

F.A. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 5/16/2013, depositata il 4.02.2013 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, che, confermando la pronuncia di primo grado, aveva rigettato l’impugnazione dell’avviso di accertamento notificatogli dall’Agenzia delle entrate per l’anno d’imposta 2003.

Con l’atto impositivo erano stati rideterminati i ricavi relativi all’esercizio dell’attività di tassista in Firenze, accertati nella misura di Euro 57.205,00 a fronte dei dichiarati Euro 9.690,00. Ne era derivata la contestazione di maggiori imposte, oltre sanzioni amministrative e addizionali. L’accertamento era stato avviato perchè, pur nella formale regolarità delle scritture contabili, erano stati ritenuti poco credibili i ricavi e i compensi dichiarati. Si era pertanto proceduto ad un accertamento analitico-induttivo ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-sexies, comma 3, conv. in L. 29 ottobre 1993, n. 427.

Era seguito il contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie toscane. In primo grado, con sentenza n. 59/04/2009, la Commissione provinciale aveva accolto in parte le doglianze del contribuente, confermando sostanzialmente l’impianto accertativo ma riducendo il maggior reddito contestato nell’atto impositivo. La Commissione regionale invece, con la sentenza ora impugnata, aveva rigettato integralmente le ragioni del contribuente, accogliendo anche l’impugnazione incidentale dell’Amministrazione finanziarla. Il giudice d’appello ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per ricorrere all’accertamento analitico-induttivo, pur in presenza di dichiarazione congrua rispetto agli studi di settore, ed ha valorizzato gli elementi presuntivi raccolti dall’Ufficio, ritenendo provato il maggior reddito attribuito al Frilli.

Il contribuente ha censurato la sentenza del giudice d’appello con cinque motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2729 c.c., della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver tenuto adeguatamente conto della congruità dei redditi dichiarati dai contribuente rispetto agli studi di settore, non facendo pertanto buon governo delle regole probatorie;

con il secondo per violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver considerato che i documenti, cui l’avviso di accertamento rinviava, non risultavano allegati all’atto impositivo medesimo;

con il terzo per motivazione insufficiente, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per essersi limitata ad affermazioni astratte e generiche sui presupposti giustificativi del ricorso all’accertamento analitico induttivo;

con il quarto per motivazione insufficiente e illogica, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver valorizzato elementi presuntivi, trascurando fatti e risultanze di causa decisivi per il giudizio, oggetto di discussione;

con i quinto per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), nonchè degli artt. 2727 e 2729 c.c., per aver fondato la decisione su elementi privi di gravità, precisione e concordanza.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, con decisione nel merito.

Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato la fondatezza del ricorso, di cui ha chiesto i rigetto.

CONSIDERATO

Che:

Con il primo motivo il contribuente lamenta un’erronea applicazione dei principi di diritto relativi al buon governo delle regole probatorie. In particolare sostiene che occorreva valorizzare Vincontestata circostanza che i redditi dichiarati fossero coerenti con i ricavi o compensi degli studi di settore, sicchè l’accertamento analitico induttivo per gravi incongruenze doveva fondarsi su un impianto probatorio più rigoroso, e non semplicemente limitato a medie di settore e presunzioni, che non possono costituire fatti noti da cui argomentare quelli ignoti, come invece avvenuto.

Il motivo è infondato.

Premessa la reiterata affermazione che gli studi di settore costituiscono, come desumibile dall’art. 62-sexies cit., solo uno degli strumenti utilizzabili dati Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva, pur in presenza di una contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile, il reddito reale del contribuente e che tale accertamento può essere presuntivamente condotto, per via analitica induttiva, anche sulla base del riscontro di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, a prescindere, quindi, dalle risultanze degli specifici studi di settore e dalla conformità agli stessi dei ricavi aziendali dichiarati (Cass., 24 settembre 2014, n. 20060 del 2014; 14 dicembre 2012, n. 23096; 30 dicembre 2015, n. 26036), la sentenza dei giudici regionali ha valorizzato, condiviciendo l’analisi dei dati emersi nel corso dell’accertamento fiscale, taluni elementi dai quali ha desunto l’irragionevolezza e l’abnormità dei redditi dichiarati dal contribuente. A tal fine ha considerato che l’Ufficio aveva assunto taluni dati forniti da contribuente, quali i tempi di lavoro giornaliero (turno di 12 ore), le fatture prodotte, le schede carburante, incrociandoli coni dati acquisiti nei corso dell’accertamento e posti a fondamento dell’atto impositivo, quali le tariffe da praticare e uno studio statistico dei Comune di Firenze, che, pur se non formalizzato ed ufficiale, aveva ricevuto ampia diffusione anche mediatica nei territorio locale. Ha mostrato di tener conto delle osservazioni articolate dalla difesa del F., d’altronde dettagliatamente riportate nella prima parte della pronuncia, dedicata alla esposizione dei fatti. A questo punto ha valutato gli elementi, avvertendo l’inattendibilità del numero di corse giornaliere indicate dal contribuente, le incongruenze e anomalie riscontrate nell’esame delle voci di costo, quali ad esempio quelle di manutenzione dei mezzo costituente il bene strumentale essenziale allo svolgimento dell’attività, la singolare costanza dei consumi di carburante e della cadenza temporale dei rifornimenti. Ha inoltre ponderato criticamente le questioni piu dibattute, quali la determinazione della lunghezza media delle corse, il calcolo del loro costo, la determinazione del numero di corse, evidenziando le fonti (tariffe definite dai Comune, indagini informali esplicate dal Comune medesimo in occasione della predeterminazione dei costo di alcune corse, indagini diffuse sugli organi di stampa locali e mai negate o contestate dalla categoria dei tassisti). Si è dilungata nei motivare la ponderazione della lunghezza media delle corse, con riguardo alle critiche mosse per la presunta mancata considerazione delle percorrenze a vuoto. Solo ai termine di una attenta analisi dei dati e delle questioni poste dalle parti ha concluso che “…appare infondata e generica la censura rivolta dal ricorrente all’impianto probatorio nella parte in cui lamenta mancanza di gravità, precisione e concordanza degli indizi sopra indicati, e d’altra parte non sono stati addotti elementi a contrasto tali da consentire di superare tali legittime presunzioni.”.

A differenza di quanto afferma il ricorrente, tutto l’iter argomentativo della decisione è ben consapevole delle regole di governo delle prove che presidiano il ragionamento logico-presuntivo. Nè è pertinente, in riferimento alla presente fattispecie, il richiamo ad alcuni precedenti di questa Corte, che non hanno riconosciuto i requisiti della gravità e concordanza degli elementi indiziari destinati ad accertare la percorrenza media delle corse Ilei taxi nel Comune di Firenze, perchè dalla motivazione della pronuncia impugnata emerge che il vaglio critico del giudice regionale è stato rivolto ad un insieme di elementi e circostanze, tra cui guaio della distanza chilometrica media è solo uno, senza alcuna capacità di assorbenza o anche solo di prevalenza sugli altri. E d’altronde va rammentato che la giurisprudenza di legittimità, nel tracciare il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, ha affermato che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nei quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevo e compietamento (ex muitis cfr. Cass., 16/05/2017, n. 12002; Cass., 2/03/2017, n. 5374; 12/04/2018, n. 9059; 25/10/2019, n. 27410). Ciò che dunque rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

Il primo motivo del ricorso si rivela dunque infondato.

Il rigetto dei primo motivo assorbe il quinto, con i quale si torna a criticare il governo delle prove presuntive.

Inammissibile si rivela H secondo motivo, con il quale ci si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, n. 212, art. 7, per non aver considerato che i documenti, cui l’avviso di accertamento rinviava, non risultavano allegati all’atto impositivo medesimo. La critica, cui potrebbe conseguire la nullità dell’avviso di accertamento, non è stata oggetto di discussione dinanzi ai giudice d’appello, e difetta di autosufficienza quanto all’indicazione dell’atto e dei grado di merito in cui sarebbe stata sollevata.

il terzo e i quarto motivo, che possono essere trattati unitariamente perchè connessi e accomunati dalla critica alla decisione sotto il profilo del vizio motivazionale, sono infondati. Con essi il contribuente ha lamentato che nella decisione il giudice d’appello si sia limitato ad affermazioni astratte e generiche sui presupposti giustificativi dei ricorso all’accertamento analitico induttivo, e che ha valorizzato elementi presuntivi, trascurando fatti e risultanze di causa decisivi per giudizio, oggetto di discussione.

La formulazione di essi sfiora inammissibilità perchè alla sentenza, depositata il 4 febbraio 2013, trova applicazione la nuova formulazione dei vizio di motivazione, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, per cui lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo m’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dai testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Se comunque si volesse ritenere che i dati esaminati nei giudizio e valutati nella decisione siano tutti riconducibili a “fatti storici”, di essi il giudice d’appello si è ampiamente occupato, per le ragioni già esposte con l’esame dei primo motivo. In realtà a difesa del contribuente richiede una rivalutazione degli elementi già esaminati, che già con la vecchia formulazione del vizio di motivazione costituiva un tentativo di riesame del merito della controversia, inammissibile nei giudizio di legittimità.

In conclusione il ricorso va rigettato e all’esito dei giudizio segue la soccombenza dei ricorrente nelle spese processuali del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, Condanna il ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese di legittimità, che si liquidano in Euro 2.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2021

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