LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – rel. Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 7314/2015 proposto da:
SOCIETA’ COOPERATIVA PER LE CASE ECONOMICHE IN SANTA CROCE, rappresentata e difesa dall’Avvocato GIORGIO CINTIO per procura speciale in calce al ricorso e domiciliata in Roma presso lo studio del difensore C.so d’Italia n 92;
– ricorrente –
contro
V.V., rappresentato e difeso dall’Avvocato ROBERTO AMODEO per procura speciale in calce al controricorso e domiciliato presso lo studio del difensore in Roma via C. Poma n 2/A;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 16163/2014 del TRIBUNALE DI ROMA, depositata il 24/7/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 27/1/2021 dal Consigliere Dott. Sergio Gorjan.
FATTI DI CAUSA
V.V. ebbe a richiedere al Giudice di Pace di Roma decreto ingiuntivo in odio alla Società Cooperativa per Case Economiche in Santa Croce a r.l. per la somma di Euro 4.862,40 dovuta a titolo di compenso per l’opera professionale prestata in favore della società in una causa avanti il tribunale di Roma definita in via transattiva.
La società cooperativa propose opposizione avverso detto provvedimento monitorio ed il Giudice di Pace accolse parzialmente l’opposizione, revocando il provvedimento monitorio e condannando la società a pagare la minor somma di Euro 3426,51 ritenendo che il creditore non aveva abusivamente frazionato un credito unitario e non provato il dedotto adempimento dell’obbligazione.
La società cooperativa propose gravame nei confronti della sentenza del primo Giudice avanti il Tribunale di Roma, che, resistendo il V., con la sentenza in epigrafe, ha respinto l’appello.
Il Tribunale, in particolare, per quanto rileva, innanzitutto, ha ritenuto l’infondatezza della censura con la quale l’appellante aveva dedotto la violazione del divieto di parcellizzazione del credito sul rilievo che si tratterebbe, in realtà, di compenso per specifico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V..
Il Giudice unico ha ritenuto che l’attività professionale svolta dall’avv. V. nel corso degli anni in favore della società ingiunta, per la mancanza di una valida ragione a sostegno, in assenza di accordo quadro afferente i servigi professionali resi, non potesse essere configurato come un unico rapporto di consulenza e di assistenza legale poichè non è contestato che l’avv. V. avesse patrocinato nel corso degli anni un ingente numero di questioni nell’interesse della cooperativa (pari a centoquaranta incarichi giudiziali o stragiudiziali circa) ma non v’è alcun riferimento, da parte della società appellante, ad un accordo con lo stesso per la definizione unitaria delle spese e dei compensi.
Il Tribunale, inoltre, ha disatteso le altre censure svolte con riguardo al merito della debenza dalla Cooperativa, rilevando come l’avv. V. non aveva ridepositato il proprio fascicolo di parte in grado d’appello, sicchè tutte le argomentazioni svolte dalla società appellante, fondate su documenti depositati in causa dall’avversario, non risultavano confortate dagli stessi poichè non più presenti in atti.
Inoltre il Giudice d’appello osservava come v’era prova dell’espletamento dell’incarico, per altro confortata dal riconoscimento di debito sottoscritto dal legale rappresentante la società, la cui eventuale carenza di potere non era opponibile al terzo in buona fede, quale era il V..
La Società Cooperativa per Case Economiche in Santa Croce, con ricorso notificato il 11/3/2015, ha chiesto, per tredici motivi, la cassazione della sentenza del Tribunale, dichiaratamente non notificata.
V.V. ha resistito con controricorso nel quale ha, tra l’altro, eccepito l’inammissibilità del ricorso.
Le parti hanno depositato memorie difensive finali.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di doglianza la società cooperativa denunzia la violazione delle regole di diritto portate negli artt. 2 e 111 Cost., artt. 1175 e 1375 c.c., ed art. 115 c.p.c. nonchè vizio di motivazione su punti rilevanti della lite, poichè il Tribunale non ha ritenuto violato il divieto di parcellizzazione del credito, confermando sul punto la statuizione del Giudice di Pace.
Così facendo, infatti, ha osservato la ricorrente, il Giudice d’appello ha omesso di considerare che: – a fronte di un rapporto di mandato professionale unitario sul piano dell’interesse economico-sociale perseguito dalle parti, l’avv. V., anzichè azionare l’unico credito asseritamente vantato nello stesso giudizio, aveva provveduto a frazionarlo in trentotto ricorsi per decreto ingiuntivo, fondati, peraltro, non già su crediti dei quali accertare l’an e il quantum, ma su altrettanti ed identici atti di riconoscimento di debito, tutti liquidi ed esigibili già al momento della proposizione del primo dei trentotto ricorsi monitori, così aggravando ingiustificatamente, in ragione dei compensi giudiziali liquidati dai rispettivi giudici, la posizione debitoria della società cooperativa; – le attività difensive esplicate nei giudizi di opposizione erano state, in effetti, identiche in termini di domande, eccezioni ed attività istruttorie tant’è che l’arch. B. era stato sentito nei predetti giudizi sui medesimi capitoli di prova, così come, del resto, l’opponente aveva utilizzato trentotto atti di ricognizione di debito aventi un’identica conformazione documentale e contenutistica, senza dedurre nè provare un suo interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata.
Infine, ha concluso la ricorrente, l’unitarietà del mandato di assistenza legale intercorso tra la cooperativa e l’avv. V. risulta con certezza da numerosi documenti che il Giudice d’appello ha omesso di esaminare.
Il motivo, nei limiti che seguono, è fondato.
Il Tribunale, in effetti, ha ritenuto che, ad onta di quanto affermato sul punto dall’appellante, il credito azionato dall’avv. V. con il ricorso per decreto ingiuntivo non derivava, rispetto alle pretese fatte valere con gli altri ricorsi monitori, da un unico rapporto obbligatorio, vale a dire da un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V..
Il Giudice capitolino, in particolare, dichiaratamente ha ritenuto che l’attività professionale svolta dall’avv. V. nel corso degli anni in favore della società ingiunta, non pone l’obbligo al professionista della unitaria richiesta del compenso per più singoli ed autonomi incarichi ricevuti in assenza dell’esistenza della pattuizione tra le parti di un accordo quadro entro cui collocarli.
Tale conclusione, tuttavia, non è giuridicamente corretta.
Le Sezioni Unite di questa Corte, com’è noto, hanno affermato il principio per cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, di proporre plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto la scissione del contenuto dell’obbligazione, così operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale (Cass. SU n. 23726 del 2007). E così, sulla scorta di tale intervento nomofilattico delle Sezioni Unite è stato, di recente, affermato che “… non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto dell’obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione peggiorativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale” (Cass. n. 19898 del 2018; conf., Cass. n. 15398 del 2019; Cass. n. 26089 del 2019; Cass. n. 9398 del 2017 e Cass. n. 17019 del 2018).
Si è posto, tuttavia, il problema se il principio così affermato, secondo il quale è vietato l’indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un “unico rapporto obbligatorio”, debba, o meno, trovare applicazione (ed, eventualmente, in quali limiti) nella diversa ipotesi in cui siano state proposte distinte domande per far valere pretese creditorie diverse ma derivanti da un medesimo rapporto contrattuale, quale fonte unitaria di obblighi e doveri per le parti e produttivo di crediti collegabili unitariamente alla loro genesi, e cioè la volontà delle parti di stipulare un contratto, specie quando si tratta di controversie (recuperatorie di crediti) promosse a rapporto concluso, quando, cioè, il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto è ormai noto e consolidato.
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4090 del 2017, si sono pronunciate sul punto ed hanno affermato che, in linea di principio, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, anche se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi: tuttavia, ove le suddette pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, sì da non poter essere accertate separatamente se non a costo di una duplicazione di attività istruttoria e di una conseguente dispersione della conoscenza dell’identica vicenda sostanziale, le relative domande possono essere formulate in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (conf., in seguito, Cass. n. 17893 del 2018; Cass. n. 6591 del 2019).
La sentenza, in particolare, ha evidenziato che il principio dell’infrazionabilità del singolo diritto di credito affermato dalla sentenza n. 23726 del 2007 (“decisamente condivisibile, nella considerazione che la parte può disporre della situazione sostanziale ma non dell’oggetto del processo, da relazionarsi al diritto soggettivo del quale si lamenta la lesione, in tutta l’estensione considerata dall’ordinamento”) non comporta inevitabilmente che il creditore debba agire nello stesso processo per far valere “diritti di credito diversi, distinti ed autonomi, anche se riferibili ad un medesimo rapporto complesso” intercorrente tra le medesime parti. D’altra parte, hanno ulteriormente osservato le Sezioni Unite del 2017, il creditore può, finanche in relazione ad un singolo, unico credito, agire con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua senza per questo incorrere in un abuso dello strumento processuale per frazionamento del credito. In effetti, “l’onere di agire contestualmente per crediti distinti, che potrebbero essere maturati in tempi diversi, avere diversa natura (ad esempio – come frequentemente accade in relazione ad un rapporto di lavoro – retributiva e risarcitoria), essere basati su presupposti in fatto e in diritto diversi e soggetti a diversi regimi in tema di prescrizione o di onere probatorio, oggettivamente complica e ritarda di molto la possibilità di soddisfazione del creditore, traducendosi quasi sempre – non in un alleggerimento bensì – in un allungamento dei tempi del processo, dovendo l’istruttoria svilupparsi contemporaneamente in relazione a numerosi fatti, ontologicamente diversi ed eventualmente tra loro distanti nel tempo. E’ verosimile che per questa via il processo (lungi dal costituire un agile strumento di realizzazione del credito) finisca per divenire un contenitore eterogeneo smarrendo ogni duttilità, in violazione del principio di economia processuale, inteso come principio di proporzionalità nell’uso della giurisdizione”. Del resto, “l’affermazione di un principio generale di necessaria azione congiunta per tutti i diversi crediti nascenti da un medesimo rapporto di durata, a pena di improponibilità delle domande proposte successivamente alla prima, sarebbe suscettibile di arrecare pregiudizievoli conseguenze per l’economia. Se, infatti, si ha riguardo in prospettiva non solo ai crediti derivanti dai rapporti di lavoro, ma a tutti i crediti riferibili a rapporti di durata, anche tra imprese (consulenza, assicurazione, locazione, finanziamento, leasing), l’idea che essi debbano ineluttabilmente essere tutti veicolati – pena la perdita della possibilità di farli valere in giudizio – in un unico processo monstre (meno “spedito” dei processi adeguati per i singoli, differenti crediti) risulta incompatibile con un sistema inteso a garantire l’agile soddisfazione del credito, quindi a favorire la circolazione del danaro e ad incentivare gli scambi e gli investimenti”.
Tuttavia, hanno aggiunto le Sezioni Unite del 2017, “se è vero… che la citata disciplina ipotizza la proponibilità delle pretese creditorie suddette in processi (e tempi) diversi, è anche vero che essa è univocamente intesa a consentire, ove possibile, la trattazione unitaria dei suddetti processi e comunque ad attenuare o elidere gli inconvenienti della proposizione e trattazione separata dei medesimi”… “nella consapevolezza che la trattazione dinanzi a giudici diversi, in contrasto con il principio di economia processuale, di una medesima vicenda “esistenziale”, sia pure connotata da aspetti in parte dissimili, incide negativamente sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata), sulla durata ragionevole dei processi (in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti (in relazione al rischio di giudicati contrastanti)”.
Le Sezioni Unite, quindi, hanno affermato che, se sono proponibili separatamente le domande relative a singoli crediti distinti pur riferibili al medesimo rapporto di durata, le pretese inscrivibili nel medesimo ambito di altro processo precedentemente instaurato così da potersi ritenere già in esso deducibili o rilevabili, nonchè, ed in ogni caso, le pretese creditorie fondate sul medesimo fatto costitutivo, possono anch’esse ritenersi proponibili separatamente ma solo se risulta in capo al creditore agente un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, la cui carenza, ove non sia stata dedotta dal convenuto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, il quale, però, è tenuto ad indicare alle parti la relativa questione ai sensi dell’art. 183 c.p.c. e, se del caso, assegnare alle stesse il termine previsto dall’art. 101 c.p.c., comma 2, (per l’applicazione di tali principi, cfr., in seguito, Cass. n. 31012 del 2017 e n. 17893 del 2018; viceversa, per l’applicazione del principio del divieto di frazionamento in caso di unico rapporto contrattuale senza ulteriori distinzioni, v. Cass. n. 4016 del 2016, la quale ha sostenuto che sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di crediti di natura contrattuale e legale, specie se i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare l’aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di giudicati contrastanti).
Le Sezioni Unite del 2017, quindi, dopo aver ribadito il divieto di tutela frazionata del singolo diritto di credito in plurime richieste giudiziali di adempimento (contestuali o scaglionate nel tempo), hanno affermato il principio generale per il quale, al contrario, le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, pur se relativi ad un medesimo rapporto di durata tra le parti, possono essere proposte in separati processi. Ed è, naturalmente, una questione di diritto sostanziale la verifica se la pretesa creditoria azionata sia da considerare come un unico diritto di credito (non suscettibile di tutela processuale frazionata), come nel caso del diritto al risarcimento del danno (cfr., sul punto, Cass. n. 15523 del 2019) ovvero se si tratti della sommatoria delle prestazioni dovute in conseguenza di crediti distinti (che, in quanto tali, pur se relativi allo stesso rapporto di durata tra le parti, sono in linea di principio, suscettibili di tutela processuale separata, come nel caso, deciso dalle Sezioni Unite, del credito al premio al premio di fedeltà aziendale e di quello al trattamento di fine rapporto afferente al medesimo rapporto di lavoro subordinato).
Il principio della proponibilità in separati processi di domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito, però, soffre di due possibili eccezioni, tra loro alternative, che operano nel caso in cui i suddetti diritti di credito, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche riconducibili al “medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” ovvero siano “fondati sul medesimo fatto costitutivo”. Nell’una e nell’altra ipotesi, infatti, poichè le distinte pretese creditorie non possono essere accertate in altrettanti distinti giudizi se non a costo di una duplicazione dell’attività istruttoria e di una conseguente dispersione di conoscenza dell’identica “vicenda sostanziale” che (“sia pure connotata da aspetti in parte dissimili”) è stata dedotta, in ragione dei differenti diritti di crediti azionati, nell’uno e nell’altro giudizio, le domande giudiziali ad esse relative non possono essere proposte separatamente, a meno che – ed è questo un dato imprescindibile risulti dagli atti di causa che il creditore abbia un interesse oggettivamente valutabile alla loro tutela processuale separata.
La prima ipotesi (che la sentenza delle Sezioni Unite tratta espressamente) si configura, come detto, nel caso in cui le distinte pretese creditorie conseguenti al medesimo rapporto contrattuale tra le parti “sono in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato” perchè hanno in comune le questioni relative all’esistenza del rapporto stesso ovvero alla validità o all’efficacia del relativo titolo.
La giurisprudenza di questa Corte, in effetti, ritiene che, in caso di rapporti contrattuali complessi, il giudicato – che pure ha per oggetto esclusivo la singola situazione giuridica soggettiva azionata (che segna, quindi, i suoi limiti oggettivi) e non produce quindi alcun effetto preclusivo in ordine agli altri diritti derivanti dal medesimo rapporto nè ai diritti maturati in relazione a differenti segmenti o frazioni dello stesso, copre, tuttavia, in quanto necessariamente compreso nell’ambito oggettivo della prima domanda, anche l’accertamento già compiuto in ordine alle questioni di fatto e di diritto comuni ad entrambe le domande (come l’esistenza del rapporto stesso dal quale lo stesso trae origine oppure la validità e l’efficacia del relativo titolo), quale necessario presupposto logico-giuridico del diritto fatto valere (cfr., in tal senso, Cass. SU n. 15896 del 2006; Cass. SU n. 13916 del 2006; di recente, Cass. n. 5486 del 2019; Cass. n. 13152 del 2019; Cass. n. 28318 del 2017; in materia di lavoro, in particolare, Cass. n. 9317 del 2013, in motiv., Cass. n. 4282 del 2012, in motiv.).
In tali situazioni, quindi, secondo le Sezioni Unite, onde evitare il rischio di giudicati contrastanti e la duplicazione dell’attività istruttoria ma anche per favorire la giustizia sostanziale delle decisioni e la rapida definizione della controversia tra le parti, la domanda che abbia ad oggetto una delle pretese scaturenti dal rapporto contrattuale non può essere proposta separatamente da quella che abbia ad oggetto una distinta pretesa derivante dal medesimo rapporto contrattuale quando, sia pur soltanto nei limiti delle questioni di fatto e di diritto comune ad entrambe le domande (quali l’esistenza, la validità e l’efficacia del rapporto stesso), la seconda è già compresa nell’ambito oggettivo del primo giudizio (“l’ordinamento guarda con particolare attenzione alle domande connesse che, pur legittimamente, siano state proposte separatamente, e, con riguardo alle domande inscrivibili nel medesimo “ambito” oggettivo di un ipotizzabile giudicato, pur non escludendone la separata proponibilità, prevede, tuttavia, un meccanismo di “preclusione” dopo il passaggio in cosa giudicata della sentenza che chiude uno dei giudizi, e comunque uno specifico rimedio impugnatorio per la sentenza contraria a precedente giudicato tra le stesse parti, con una disciplina dettata dall’esigenza di evitare, ove possibile, la “duplicazione” di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale”, con salvezza, naturalmente, del caso in cui il creditore sia portatore di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela frazionata delle pretese.
L’altra ipotesi (che non è specificamente trattata dalle Sezioni Unite se non in sede di decisione sul ricorso, che ha rigettato sul rilievo che, essendo stati azionati crediti non solo tra loro distinti ma anche fondati su una differente fonte, una contrattuale ed una legale, non si poneva alcuna necessità di verificare la sussistenza di un apprezzabile interesse del creditore per giustificare la tutela frazionata) si riferisce al caso in cui le pretese creditorie, oltre a far capo ad un medesimo rapporto tra le stesse parti, siano anche fondate sul “medesimo fatto costitutivo”: dovendosi, evidentemente, ritenere come tale, onde evitare la contraddizione che non lo consente, non già il medesimo fatto storico costitutivo del diritto ai sensi dell’art. 1173 c.c., poichè in tal caso si configurerebbe in realtà l’ipotesi del “medesimo diritto” di credito (per il quale, come detto, il divieto di tutela giudiziale frazionata è stato già sancito dalle SU con la sentenza n. 23726 del 2007: si pensi, ad esempio, al credito relativo al prezzo dovuto per una singola fornitura o al compenso spettante per un singolo incarico professionale), ma come fatto (sia pur storicamente diverso ma) della stessa natura di quello che, nell’ambito del medesimo rapporto tra le parti, è stato già dedotto in giudizio: l’uno e l’altro, quindi, costitutivi di più crediti ontologicamente distinti (pur se riconducibili allo stesso rapporto tra le parti) ma tra loro giuridicamente simili (come, ad esempio, ai corrispettivi dovuti in conseguenza di distinte forniture rese in esecuzione del medesimo contratto quadro, ai compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi resi nell’ambito del medesimo contratto di consulenza professionale, ecc.). In siffatte situazioni, quindi, il creditore, che ha maturato pretese tra loro distinte (per i differenti fatti storici da cui hanno avuto origine), e, come tali, insuscettibili di essere coperte, salvo che per le questioni comuni, dal giudicato formatosi sul diritto relative ad un diverso periodo dello stesso rapporto di durata tra le parti (Cass. n. 4282 del 2012, in motiv., in cui è ripetuto che nei rapporti di durata i singoli periodi individuano titoli differenti pertanto insuscettibili, comunque, di essere “forzosamente” coperti dal giudicato unitario; conf. Cass. n. 9317 del 2013, in motiv.) – ma (oltre che riconducibili al medesimo rapporto, anche) fondate su fatti costitutivi (che, pur se storicamente distinti, sono) tra loro simili o analoghi, non può agire per la loro tutela processuale proponendo distinte domande giudiziali (a meno che non abbia un interesse apprezzabile alla separazione dei relativi processi).
Il Collegio ritiene che tale soluzione debba trovare necessariamente applicazione, per l’evidente comunanza di ratio, non soltanto al caso (del quale le Sezioni Unite si sono occupate) del creditore (asseritamente) titolare di distinte pretese creditorie ma riconducibili a distinti (ma simili) fatti costitutivi che si sono verificati nell’ambito del medesimo rapporto contrattuale, come quello di lavoro subordinato, che ne abbia disciplinato il compimento (le prestazioni lavorative) e gli effetti (il credito alle conseguenti retribuzioni), ma anche al caso in cui le pretese creditorie separatamente azionate siano riconducibili a fatti costitutivi storicamente distinti che si sono verificati nel contesto di un rapporto di durata tra le parti che non ha avuto origine nella stipulazione di un contratto che ne regolasse gli effetti: (quanto meno) tutte le volte in cui si tratti di fatti che, seppur distinti, sono tra loro simili (come l’esecuzione di distinti incarichi professionali ovvero di distinte forniture: che è, a bene vedere, proprio il caso deciso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 23726 del 2007, relativa, appunto, ad una vicenda in cui una società aveva chiesto e ottenuto “un distinto decreto ingiuntivo per ogni fattura (o gruppo di fatture) non pagata”) ed, in quanto tali, idonei a costituire, tra le stesse parti, diritti di credito giuridicamente eguali, come i crediti ai corrispettivi dovuti per le distinte forniture ovvero dei compensi dovuti per l’esecuzione di differenti incarichi professionali (cfr., in tal senso, in motivazione Cass. n. 31308 del 2019, relativa a credito professionale e Cass. n. 24130 del 2020).
In tali (e in altre simili) ipotesi, infatti, la contemporanea sussistenza tra le stesse parti di crediti giuridicamente eguali, che, pur se non conseguenti allo stesso contratto, siano nondimeno riconducibili (come pretendono le Sezioni Unite) al medesimo “rapporto” che, nel corso del tempo, si sia venuto a determinare (anche se in via di mero fatto) tra loro, ne impone la deduzione (ove esigibili) nello stesso giudizio. E ciò in ragione dei doveri inderogabili di correttezza e buona fede che derivano dal più ampio “contatto sociale” tra esse così formatosi e che devono improntare, in termini di salvaguardia e di protezione dell’altrui interesse (art. 2 Cost.), i comportamenti delle parti, oltre che durante l’esecuzione dei singoli contratti, anche nella fase della tutela giudiziale dei relativi diritti di credito (cfr. Cass. SU n. 23726 del 2007; Cass. n. 9317 del 2013, in motiv.), evitando di aggravare (si pensi, ad esempio, alla moltiplicazione degli oneri conseguenti alle spese processuali), con plurime iniziative giudiziarie, la posizione della controparte.
In tali situazioni, in effetti, l’interesse sostanziale del creditore (salvo, naturalmente, che non sia dedotto e provato il contrario) può essere adeguatamente tutelato anche con una domanda unitaria, trattandosi, a ben vedere, di pretese sì distinte sul piano giuridico ma, in definitiva, concernenti pur sempre la “medesima vicenda esistenziale” e “sostanziale” (sia pure connotata da aspetti in parte dissimili): la cui trattazione dinanzi a giudici diversi, come le Sezioni Unite hanno espressamente evidenziato, incide negativamente non solo sulla “giustizia” sostanziale della decisione, che può essere meglio assicurata veicolando nello stesso processo tutti i diversi aspetti e le possibili ricadute della stessa vicenda, evitando di fornire al giudice la conoscenza parziale di una realtà artificiosamente frammentata, ma anche sulla durata ragionevole dei relativi processi, in relazione alla possibile duplicazione di attività istruttoria e decisionale su vicende fattualmente distinte ma tra loro simili e, spesso, connotate dall’esecuzione di prestazioni analoghe in contesti temporali ristretti (si pensi alle diverse consegne dei beni forniti all’acquirente ad opera dello stesso vettore che sia chiamato a rendere le relative testimonianze) nonchè, infine, sulla stabilità dei rapporti, in relazione al rischio di giudicati contrastanti. Si pensi, in particolare, all’eccezione (sollevata proprio dalla società ricorrente) di imputazione dei pagamenti eseguiti nel corso del tempo, la quale, evidentemente, può essere senz’altro meglio apprezzata dal giudice di merito proprio se tutte le domande relative ai crediti eventualmente residui siano state proposte nello stesso giudizio a prescindere dalla loro riconducibilità allo stesso o a distinti contratti, onde evitare il rischio (che in caso di proposizione separata delle relative domande può riverberarsi tanto ai danni del creditore che agisce per il loro pagamento, quanto ai danni del debitore che eccepisce di averne eseguito il pagamento) che i pagamenti eseguiti siano ritenuti, da alcuni giudici, estintivi del singolo credito azionato, pur essendo imputabili a crediti che hanno costituito l’oggetto di domande proposte in distinti processi, e, da altri giudici, invece, imputati ai crediti azionati con altre domande (o, addirittura, a crediti non azionati) pur avendo, in realtà, estinto proprio il credito vantato in quel giudizio.
Di tale esigenze, del resto, si è fatta carico la giurisprudenza delle Sezioni Unite anche in altre decisioni, come è accaduto, in particolare, con la sentenza n. 12310 del 2015 in materia di modificabilità della domanda ai sensi dell’art. 183 c.p.c.. Tale sentenza, in effetti, ha ribadito l’esigenza “di realizzare, al fine di una maggiore economia processuale ed una migliore giustizia sostanziale, la concentrazione nello stesso processo e dinanzi allo stesso giudice delle controversie aventi ad oggetto la medesima vicenda sostanziale (basti pensare alle disposizioni codicistiche in tema di connessione o di riunione di procedimenti)”, e, quindi, di evitare che, una volta proposta una domanda innanzi ad un giudice, sia, poi, proposta una nuova domanda (con indubbio spreco di attività e risorse) dinanzi ad un altro giudice che sia chiamato a conoscere della medesima vicenda, sia pure sotto aspetti in parte dissimili, con effetti incidenti negativamente tanto sulla “giustizia” sostanziale della decisione (che può essere meglio assicurata proprio se sono veicolati nel medesimo processo tutti i vari aspetti e le possibili ricadute della medesima vicenda sostanziale ed “esistenziale”, evitando di fornire al giudice la conoscenza di una realtà sostanziale artificiosamente frammentata con l’effetto di determinarne una visione parziale), quanto sulla ragionevole durata dei processi (valore costituzionale da perseguire anche nell’attività di interpretazione delle norme processuali da parte del giudice che sia idonea “a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata dinanzi al giudice in un unico contesto invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi, essendo appena il caso di aggiungere che sulla irragionevole durata di un processo non incide (sol)tanto ciò che rileva all’interno di quel processo quanto il numero complessivo dei processi contemporaneamente pendenti che ne condiziona la gestione”; in quest’ultimo senso, del resto, si erano già pronunciate le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 23726 del 2007, rilevando “… l’evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata”).
Le Sezioni Unite di questa Corte, d’altra parte, in tema di responsabilità disciplinare a carico degli avvocati, hanno affermato che costituisce violazione dell’art. 49 del codice deontologico forense l’intraprendere contro la stessa parte assistita iniziative giudiziarie plurime e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, a tutela delle proprie ragioni economiche relative ad un rapporto professionale svoltosi continuativamente per un lungo periodo di tempo, così da aggravare la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali, invece di procedere ad un accorpamento delle posizioni in contestazione (Cass. SU n. 14374 del 2012, che si è pronunciata, riconoscendo la responsabilità disciplinare dell’avvocato, in una vicenda nella quale l’incolpato era stato accusato di avere promosso contro il suo cliente “una pluralità di azioni giudiziarie per recuperare i crediti… per compensi professionali, così aggravando la posizione della debitrice, senza che ciò corrispondesse ad effettive ragioni di tutela dei crediti…”). Le Sezioni Unite, in particolare, hanno evidenziato che: – “il rapporto professionale, svoltosi continuativamente per un lungo periodo temporale fra le parti, avrebbe dovuto, anche sul piano della richiesta dei compensi, sfociare, quantomeno, in un accorpamento delle posizioni in contestazione, per un loro esame globale e complessivo. L’avere, viceversa, con iniziative plurime, e non giustificate da un effettivo e necessitato sviluppo processuale, aggravato la posizione della controparte, costretta a sostenere il cumulo delle spese giudiziali a suo carico, conduce, quindi, a ritenere sussistere la violazione deontologica contestata”; “i principi di buona fede oggettiva e di correttezza, per la loro ormai acquisita costituzionalizzazione in rapporto all’inderogabile dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., costituiscono un autonomo dovere giuridico ed una clausola generale, che non attiene soltanto al rapporto obbligatorio e contrattuale, ma che si pone come limite all’agire processuale nei suoi diversi profili; e che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale, volto anche alla salvaguardia dell’utilità altrui, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio (v. anche S.U. 23.12.2009, n. 27214; Cass. 22.12.2011, n. 28286). Principio, questo ripreso anche dall’art. 88 c.p.c. per il quale le parti e i loro difensori devono comportarsi in giudizio con lealtà e probità; applicabile, quindi, anche con riferimento ai doveri deontologici”.
In definitiva, il principio enunciato nella sentenza delle Sezioni Unite n. 4090 del 2017 – alla cui stregua i diritti i quali, oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque “fondati” sul medesimo fatto costitutivo non possono essere azionati in separati giudizi, a meno che il creditore non risulti titolare di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata – va inteso con la duplice specificazione che: a) l’espressione “medesimo rapporto di durata” deve essere letta in senso storico/fenomenologico: alla parola “rapporto” va, cioè, assegnato non il significato tecnico-giuridico di coppia diritto/obbligazione derivante da una della cause elencate nell’art. 1173 c.c., bensì il significato di relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia; b) nell’espressione “medesimo fatto costitutivo”, l’aggettivo “medesimo” va letto con riferimento non all’identità ma alla qualità, e quindi non come sinonimo di “identico” ma come sinonimo di “analogo”.
Alla stregua delle precisazioni che precedono, la Corte enuncia il seguente principio di diritto: “le domande relative a diritti di credito analoghi per oggetto e per titolo, in quanto fondati su analoghi, seppur diversi, fatti costitutivi, non possono essere proposte in giudizi diversi quando i relativi fatti costitutivi si inscrivano nell’ambito di una relazione unitaria tra le parti, anche di mero fatto, caratterizzante la concreta vicenda da cui deriva la controversia. Tale divieto processuale non opera quando l’attore abbia un interesse oggettivo, il cui accertamento compete al giudice di merito, ad azionare in giudizio solo uno, o solo alcuni, dei crediti sorti nell’ambito della suddetta relazione unitaria le parti. La violazione dell’enunciato divieto processuale è sanzionata con l’improponibilità della domanda, ferma restando la possibilità di riproporre in giudizio la domanda medesima, in cumulo oggettivo, ai sensi dell’art. 104 c.p.c., con tutte le altre domande relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria tra le parti”.
Con il secondo motivo di impugnazione la società cooperativa lamenta violazione del disposto ex art. 24 Cost. e degli artt. 88 e 115c.p.c. nonchè art. 76 disp. att. c.p.c., in quanto il Tribunale non ha tenuto conto che le sue doglianze non già attenevano al contenuto dei documenti avversari, non più presenti in atti, bensì solo ai loro effetti giuridici incontestato il loro contenuto per come anche riferito dalla sentenza del Giudice di Pace, sicchè il Giudice d’appello non poteva omettere di decidere sul mezzo di gravame proposto.
La censura coglie nel segno posto che – Cass. sez. 2 n 4656/98, Cass. sez. 3 n 18787/05 – la mancanza in sede d’appello dei documenti depositati in primo grado, ma non più riversati in sede di procedimento di gravame, assume rilievo quando la valutazione diretta di detti documenti risulti necessaria alla decisione e, non già, anche quando la contestazione riguardo solamente i loro effetti giuridici, incontestata la loro esistenza, forma e contenuto.
Difatti in tal ultima ipotesi l’oggetto della censura risulta essere la rilevanza giuridica che il primo Giudice ne ha dato, la quale rimane fissata nella motivazione della sentenza, sicchè non risulta necessario la consultazione di detti documenti ed il loro mancato rideposito non assume rilievo in causa.
Il Giudice unico capitolino, invece, rilevando il mancato rideposito in sede d’appello dei documenti dimessi dal V., ha ritenuto anche di non esaminare le censure circa il merito della debenza, avanzate comunque dalla Cooperativa, così incorrendo nella violazione delle regole di dritto denunziata.
Con il terzo motivo – denominato quarto, errore che si ripercuote sulla successiva numerazione dei mezzi d’impugnazione mossi, che sono in realtà tredici e non quattordici -, proposto in via alternativa rispetto al precedente mezzo d’impugnazione, la società ricorrente, lamenta violazione degli artt. 166 e 645 c.p.c., poichè il Tribunale non ha considerato che la pretesa sostanziale in causa era stata azionata dall’avv. V. con il ricorso per decreto ingiuntivo, sicchè l’assenza in causa dei documenti, dallo stesso versati a fondamento della sua pretesa, avrebbe dovuto comportare il rigetto della sua originaria domanda per difetto di prova.
Con la quinta ragione di doglianza la società ricorrente rileva omessa decisione su punto decisivo ossia sull’eccezione di estinzione del credito azionato, in quanto il Giudice d’appello ha omesso di esaminare la sua eccezione di estinzione del credito azionato per compensazione in dipendenza della mancata imputazione, da parte del professionista, di ingente somma versatagli nel corso del rapporto.
Con il sesto mezzo d’impugnazione la società cooperativa deduce vizio d’omessa pronunzia su punto decisivo e violazione del disposto ex art. 115 c.p.c., posto che il Giudice d’appello non ha considerato che essa società aveva contestato alcune delle fatture depositate dall’avv. V. a comprova dell’imputazione fatta in relazione alla somma complessiva di Euro 115.000,00 ricevuta, poichè mai affidati gli incarichi professionali in dette fatture descritti. Con la settima ragione di impugnazione la società cooperativa rileva che non era stata esaminata la sua difesa fondata sulla prospettazione dei danni patiti per la tardiva produzione delle fatture, afferenti la somma globale riconosciuta siccome incassata, così impedendole di dedurre l’iva versata nella relativa denunzia annuale.
Con l’ottava doglianza parte ricorrente deduce omessa pronuncia su fatto decisivo e violazione della norma ex art. 2704 c.c. poichè il Tribunale non si è pronunciato sulla sua eccezione, con la quale aveva dedotto, sin dal giudizio di primo grado, la mancanza di data certa con riguardo al preavviso di parcella, nonchè contestava la valenza della frase “per presa visione ed accettazione” e la data della sottoscrizione apposta dall’arch. B. in qualità di presidente della cooperativa, questione che assumeva decisiva rilevanza se il documento formato dopo che l’arch. B. non era più legale rappresentante la società cooperativa.
Con il nono motivo di impugnazione, parte ricorrente rileva la violazione delle regole ex 1218, 1460 e 1988 c.c. posto che il Tribunale non ha valutata la sua difesa afferente il grave inadempimento posto in essere dall’avv. V. nel gestire il procedimento civile, in relazione al quale chiede il pagamento del compenso.
Con la decima ragione di doglianza la società cooperativa lamenta violazione dell’art. 1988 c.c., poichè il Tribunale erroneamente ha ritenuto qualificabile come riconoscimento di debito la dicitura apposta al preavviso di parcella.
Con il motivo undecimo, la società ricorrente lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2319 e 2519 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che fossero irrilevanti le deduzioni svolte dalla società in tema di carenza di poteri dell’amministratore.
Con il duodecimo motivo, la società ricorrente, lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione e la falsa applicazione dell’art. 636 c.p.c., comma 2, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il Giudice d’appello ha omesso di considerare la valenza della mancata allegazione del parere del consiglio dell’ordine degli avvocati a corredo della prova scritta del credito in sede monitoria.
Con la decimoterza ragione d’impugnazione, la società impugnante rileva omesso esame di fatto decisivo, posto che essa ebbe a contestare anche nel merito la congruità della parcella, posta dall’avv. V. alla base della richiesta di decreto ingiuntivo, specie con relazione all’inadempimento posto in essere dal professionista proprio con relazione alla specifica causa curata.
Con la decimoquarta ed ultima ragione di doglianza la società cooperativa deduce omesso esame della sua denunziata violazione della disciplina in tema di interessi moratori riconosciuti, poichè applicata la normativa ex L. n. 231 del 2002 inapplicabile nel caso di specie.
Le ragioni d’impugnazione dalla terza alla decimoquarta rimangono assorbite in dipendenza dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, poichè afferenti a questioni rilevanti solo se superata l’improcedibilità della domanda svolta in questo procedimento.
La sentenza impugnata, avendo dato esclusivo rilievo alla riscontrata inesistenza, in punto di fatto, di un unico incarico professionale che la società opponente aveva affidato all’avv. V., non si è, evidentemente, attenuta al principio esposto con relazione al secondo motivo di ricorso.
Il ricorso dev’essere, pertanto, accolto e la sentenza impugnata, per l’effetto in parte qua, cassata con rinvio, per un nuovo esame, al Tribunale di Roma che, in persona di altro Magistrato, si atterrà al principio di diritto enunciato e provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
PQM
La Corte così provvede: accoglie il primo e secondo motivo di ricorso, assorbiti i restanti motivi; cassa, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, al Tribunale di Roma che, in persona di altro Magistrato, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nell’adunanza in camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il 27 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2021
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