Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Sentenza n.17985 del 23/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sez. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente di Sez. –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3736/021 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

e M.U.D., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NELLO CASSATA;

– ricorrente successivo –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 131/2020 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 03/12/2020.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 08/06/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO SGROI, il quale conclude per il rigetto di entrambi i ricorsi.

FATTI DI CAUSA

Il Ministro della giustizia propone impugnazione avverso la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura in data 3 dicembre 2020, n. 131, con la quale il Dott. M.U.D. è stato assolto dagli illeciti disciplinari ascrittigli per essere i fatti di scarsa rilevanza, ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 3-bis.

Autonomo ricorso propone anche il Dott. M., sulla base di cinque motivi.

L’illecito disciplinare contestato riguarda le previsioni di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. a) e g), per avere il magistrato, nell’esercizio delle funzioni di giudice penale del Tribunale di Patti, arrecato a B.A.V. (n. *****) un danno ingiusto, in relazione alla privazione della libertà personale indebitamente protratta dal 20 febbraio 2014 al 21 settembre 2015, per 578 giorni, nell’ambito del procedimento col quale il predetto imputato è stato condannato alla reclusione di due anni e due mesi per i reati di cui agli artt. 337 e 423 c.p., nonchè con grave violazione dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. c), n. 1) e art. 306 c.p.p., non avendo disposto la scarcerazione per scadenza del termine di fase della custodia cautelare ed inescusabile negligenza, avendo omesso di vigilare sulla persistenza delle condizioni di legge della custodia.

La sentenza impugnata ha ritenuto che:

a) ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), la negligenza deve essere “inescusabile”, in passato dalla Sezione disciplinare ravvisata solo in presenza di un alto numero di provvedimenti da emettere contemporaneamente o di circostanze del tutto particolari ed anomale, di natura eccezionale;

b) al riguardo, sono provate gravi anomalie del funzionamento della cancelleria penale del Tribunale di Patti, sino all’avvenuta condanna disciplinare del funzionario ivi addetto, che non trasmise tempestivamente il fascicolo alla corte d’appello e che non lo sottoposte al magistrato del tribunale, nonchè gravi carenze organizzative dell’ufficio: tuttavia, l’illecito disciplinare predetto permane, in quanto il Dott. M. non provvide, al momento del deposito della motivazione della sentenza in data 18 agosto 2013, ad annotare il termine di scadenza della misura cautelare sulla scheda in uso, mentre resta irrilevante che un modello di ordine provvisorio di scarcerazione venne adottato solo successivamente; ciò, in quanto il magistrato aveva “l’onere di controllare la scadenza del termine di durata della custodia cautelare e di annotarla” ed egli fece “incautamente affidamento” sulla circostanza che tra la data della proposizione dell’appello (21 ottobre 2013) e la data di scadenza del termine di fase della custodia cautelare intercorressero ben quattro mesi, onde ritenne congrui i termini per l’espletamento degli incombenti di cancelleria per la trasmissione del fascicolo al giudice; egli, pertanto, è venuto meno all’obbligo di vigilare costantemente sulla persistenza delle condizioni della privazione della libertà personale;

c) circa il danno ingiusto, esso non è escluso dalla sostituzione, in data 31 maggio 2013, della misura cautelare con quella degli arresti domiciliari presso un centro di accoglienza;

d) il fatto è di scarsa rilevanza, ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, il quale ha sancito il principio di offensività, applicabile anche quando la gravità è elemento costitutivo del fatto tipico, allorchè l’immagine del magistrato ed il prestigio della funzione non siano stati compromessi dall’illecito: invero l’affidamento, riposto dal magistrato sul corretto adempimento dei compiti di cancelleria, integra il requisito della norma richiamata, tenuto altresì conto del percorso professionale del medesimo, nonchè del fatto che, come risulta da dichiarazioni scritte rese dall’imputato, questi non subì nessun pregiudizio per i fatti suddetti, non ha mai proposto, nè intende proporre domanda di riparazione dell’ingiusta detenzione, ed, anzi, dichiara di avere avuto in tal modo la possibilità di ottenere effetti benefici e riabilitativi, grazie alle attività rieducative seguite presso la struttura di accoglienza, tanto che egli non ebbe addirittura a formulare istanze di revoca o modifica della misura.

L’intimato Consiglio superiore della magistratura non ha svolto attività difensiva.

La trattazione del ricorso è stata fissata per la pubblica udienza dell’8 giugno 2021 ed è avvenuta in Camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione 18 dicembre 2020, n. 176 ed D.L. n. 44 del 2021, art. 6, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati avanzato richiesta di discussione.

Il Procuratore generale ha presentato requisitoria per iscritto, chiedendo il rigetto di entrambi i ricorsi.

Il ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso del Ministero della giustizia. Il ricorso propone un unico complesso motivo, il quale deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, art. 2, comma 1, lett. a) e g), e art. 3-bis, art. 303 c.p.p., comma 1, lett. c), n. 1) e art. 306 c.p.p., oltre al vizio di motivazione apparente o almeno insufficiente, contraddittoria ed illogica, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per avere il giudice del merito applicato l’esimente prevista dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, a fronte di elementi insufficienti ed incongrui.

Sul giudice grava l’obbligo di diuturnamente vigilare sulla persistenza delle condizioni della misura cautelare, anche in relazione alla lunga durata della detenzione subìta, pari a 578 giorni, con irreparabile lesione del bene giuridico della libertà personale.

Non può reputarsi “imprevedibile” la condotta negligente del funzionario di cancelleria, che non sottopose il fascicolo al magistrato, non essendovi prova di tale requisito, e risultando che presso l’Ufficio era inesistente qualunque sistema di controllo dei termini di custodia cautelare.

Il giudice ha omesso di annotare detto termine sulla scheda in uso e non è stato adottato il c.d. ordine provvisorio di scarcerazione, raccomandato dal Ministero della giustizia, Dipartimento degli affari di giustizia, Direzione generale affari penali, sin dalla circolare del 20 giugno 1990, n. 545. Neppure la benevola ed occasionale tolleranza del soggetto danneggiato esclude la compromissione dell’immagine dello stesso ed integra l’esimente di cui all’art. 3-bis citata.

2. – Il ricorso del Dott. M.. Il Dott. M. propone ricorso successivo per cinque motivi, come di seguito riassunti.

1) Omessa, apparente o contraddittoria ed illogica motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere ritenuto inescusabile la condotta del ricorrente, e ciò, nonostante la sezione disciplinare avesse previamente accertato, a seguito dell’istruttoria compiuta, che: il funzionario di cancelleria non aveva trasmesso il fascicolo; l’ufficio era gravato da carenze organizzative e gravi disfunzioni; la misura organizzativa di introdurre un modello di ordine provvisorio di scarcerazione fu adottata solo successivamente ai fatti.

Pertanto, la sentenza impugnata non ha considerato che la “scheda” cartacea, su cui il ricorrente, nell’assunto, avrebbe dovuto annotare la data di scadenza della misura cautelare non era affidata all’autogoverno del magistrato, ma era in uso esclusivo alla cancelleria, al pari del “sottofascicolo”, in cui erano raccolti il provvedimento applicativo della misura cautelare ed l’successivi, e che solo dopo l’estate del 2015 fu introdotta una cartella condivisa in rete, dapprima a disposizione degli addetti alla cancelleria ed, in seguito, dei giudici a loro richiesta.

Gli unici soggetti, muniti di potere di controllo e impulso, erano il direttore amministrativo ed il presidente della sezione, sin dal febbraio 2014 avvertiti dell’esigenza di interventi urgenti ed immediati nel settore delle impugnazioni, senza che il ricorrente ne fosse affatto informato.

Egli, inoltre, teneva un registro personale, su cui annotava le scadenza del termine ex art. 303 c.p.p., ma, in ragione della rapidissima definizione del procedimento penale e del deposito della sentenza (dispositivo letto in udienza il 20 maggio 2014, deposito della motivazione il 19 agosto 2013), non poteva prevedere il ritardo eccezionale del responsabile di cancelleria addetto alla trasmissione del fascicolo alla corte d’appello.

Per tali ragioni, fu legittimo per il ricorrente, in assenza di segnali di criticità, confidare sulla diligenza del responsabile di cancelleria.

2) Omessa, contraddittoria ed illogica motivazione, con errata ed insufficiente valutazione dei fatti, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), con riguardo all’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), per non avere la sentenza impugnata accertato il nesso causale tra la negligenza inescusabile imputata al ricorrente e la grave violazione di legge, non avendo ivi spiegato come l’annotazione del termine di scadenza sulla “scheda” avrebbe scongiurato la protrazione della misura cautelare. Al contrario, esistevano al riguardo una serie di cause autonome, estranee al ricorrente, quali: la piena conoscenza da parte del funzionario di cancelleria, ritenuto responsabile di illecito disciplinare, della necessità di trasmettere prontamente il fascicolo in appello; il deposito, da parte del medesimo ricorrente, del provvedimento di sostituzione della detenzione con il ricovero presso un centro di accoglienza sin dal 31 maggio 2013, undici giorni dopo l’emissione del dispositivo della sentenza di condanna; l’esistenza di un “registro dell’esecuzione penale provvisoria” all’interno del fascicolo; la disponibilità del “sottofascicolo” per la cancelleria, con piena conoscenza della situazione dell’imputato da parte del cancelliere addetto. In definitiva, la violazione di legge non è derivata dalla mancata annotazione della scadenza della misura sulla “scheda”, che nessuna incidenza avrebbe avuto sulla condotta determinante della cancelleria, onde, con giudizio controfattuale, non vi è nessuna certezza che ciò avrebbe comportato la trasmissione del fascicolo in tempi più celeri, come affermato dal consiglio giudiziario presso la corte d’appello di Messina in occasione del parere sulla valutazione di professionalità. Infine, dall’istruttoria è emerso che il condannato aveva protratto la durata della misura oltre i termini per sua consapevole e volontaria scelta, lavorando all’esterno della struttura e fruendo ivi di attività ricreative, sportive e di supporto psicologico, con considerevole miglioramento dei suoi rapporti in famiglia, come dal medesimo dichiarato in forma scritta.

3) Omessa, contraddittoria ed illogica motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con mancata ed insufficiente valutazione di fatti decisivi, in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere la sentenza impugnata ritenuto che egli fece “incautamente affidamento” sul fatto che tra la data di proposizione dell’appello il 21 ottobre 2013 e la scadenza del termine della custodia cautelare intercorressero ben quattro mesi, con sufficiente tempo per la cancelleria: tuttavia, in tal modo il primo giudice ha omesso di valutare fatti decisivi, i quali dovevano indurlo a ritenere invece ragionevole ed incolpevole la condotta, non essendo stata essa basata affatto soltanto sulla congruità del predetto temine, ma su molti elementi ulteriori, quali: l’avere egli definito assai tempestivamente il procedimento; l’essersi adoperato perchè l’imputato fruisse di una idonea struttura riabilitativa; la mancanza di conoscenza delle inefficienze della cancelleria; la condotta di gravissima inadempienza del funzionario addetto al settore; la mancanza di poteri direttivi sull’ufficio da parte del Dott. M..

4) Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, art. 2, comma 1, lett. a) e g), ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), oltre ad omessa, contraddittoria ed illogica motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere la sentenza impugnata affermato che il giudice disciplinare abbia, in precedenza, ritenuto l’errore scusabile solo in presenza di taluni casi, mentre, al contrario, in molte vicende è stata esclusa la responsabilità del magistrato che aveva ragionevolmente confidato sul normale svolgimento dei compiti del personale di cancelleria nella fase di esecuzione dei provvedimenti da lui adottati, mentre non può invocarsi il principio della necessaria “vigilanza diuturna”, atteso che solo in presenza di circostanze sintomatiche delle inefficienze di cancelleria il giudice può dirsi responsabile.

5) Violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a), ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), oltre ad apparente, contraddittoria ed illogica motivazione, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6, art. 192 c.p.p., commi 1 e 2, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e), per avere il giudice del merito ravvisato un danno ingiusto, quale elemento costitutivo dell’illecito de quo: in tal modo, tuttavia, il giudice del merito non ha considerato come il soggetto non subì nessun pregiudizio nè personale, nè patrimoniale ed, anzi, ottenne dei benefici riabilitativi dal periodo di permanenza nel centro di accoglienza, nè presentò richieste di revoca o sostituzione della misura, intendendo rimanere ospite della struttura anche oltre la scadenza del termine di durata della misura.

3. – I motivi del ricorso del Dott. M.. Il ricorso del Dott. M., pur se successivo, va trattato prioritariamente per ragioni logico-giuridiche.

3.1. – I motivi concernenti l’illecito ex art. 2, comma 1, lett. g). I primi quattro motivi del ricorso del Dott. M. attengono all’illecito di cui alla lett. g), sotto il profilo della inescusabilità della condotta.

Essi, in quanto intimamente connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

La fattispecie del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), contempla l’illecito disciplinare del magistrato che commetta una “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”.

Elemento soggettivo della condotta è la colpa, declinata quale mancata conoscenza o disattenzione per l’omissione delle necessarie cure e cautele, le quali risultino “inescusabili”, vale a dire caratterizzate dall’inesistenza di fattori estranei alla sfera del soggetto, tali da rendere a lui non imputabile la violazione.

Il magistrato, dunque, ancorchè in presenza di una violazione grave di legge, non risponde ove dal medesimo si reputi inesigibile, nel caso concreto, una condotta diversa: pure in presenza di una violazione di legge oggettivamente grave, questa, invero, potrebbe essere dovuta a fattori non superabili, onde l’incolpato non risponde delle violazioni di legge a lui ascritte, ove sussistano cause di giustificazione che rendano quella condotta “scusabile”.

Nella specifica ipotesi della responsabilità disciplinare del magistrato per ritardata scarcerazione di indagato sottoposto a custodia cautelare, le Sezioni unite hanno già affermato che grava sul magistrato l’obbligo di vigilare con regolarità sulla persistenza delle condizioni, anche temporali, cui la legge subordina la privazione della libertà personale, onde l’inosservanza dei termini di durata della custodia cautelare stabiliti dalla legge costituisce grave violazione di legge, idonea ad integrare gli illeciti disciplinari di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g). Hanno, inoltre, stabilito che essi non sono scriminati nè dalla laboriosità o capacità del magistrato incolpato, nè dalle sue gravose condizioni lavorative e neppure dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza, occorrendo, al riguardo, la presenza di gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto costituzionale alla libertà personale del soggetto sottoposto a custodia cautelare (Cass., sez. un., 31 gennaio 2020, n. 2323; Cass., sez. un., 26 giugno 2019, n. 17120; Cass., sez. un., 19 febbraio 2019, n. 4887; Cass., sez. un., 4 maggio 2017, n. 10794; Cass., sez. un., 6 aprile 2017, n. 8896; Cass., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18191; Cass., sez. un., 12 gennaio 2011, n. 507).

In particolare, questa Corte ha già osservato che tale illecito non è scriminato “nè dalla laboriosità o capacità del magistrato incolpato, nè dalle sue gravose condizioni lavorative e neppure dall’eventuale strutturale disorganizzazione dell’ufficio di appartenenza” (Cass., sez. un., 26 giugno 2019, n. 17120). Ha, poi, affermato che è infondata la tesi dell’assenza di responsabilità del magistrato, pur quando la mancata scarcerazione dell’imputato sia stata la “conseguenza della disastrosa situazione della sua segreteria da ricondurre all’inefficienza della segretaria, assoggettata a sua volta a procedimento disciplinare” (Cass., sez. un., 19 febbraio 2019, n. 4887). Si è aggiunto che il profilo giuridico dell’obbligo di rispettare i termini di custodia cautelare induce a concludere che non si possa “in nessun caso esimere il presidente del collegio giudicante e il relatore, vale a dire i magistrati che hanno la concreta disponibilità del fascicolo, dal provvedere tempestivamente ad adottare i provvedimenti di scarcerazione una volta spirati i termini di cui all’art. 303 c.p.p., senza che tale responsabilità venga meno… per carenti risorse organizzative dell’ufficio”. Neppure “la disponibilità del fascicolo è esclusa sol per il fatto di giacere in cancelleria in attesa delle eventuali impugnazioni e della trasmissione al giudice del grado successivo: per costante giurisprudenza di questa Corte, i provvedimenti de libertate rientrano nella competenza funzionale del giudice che procede, ossia del giudice che in quel momento ha la disponibilità materiale e giuridica degli atti del procedimento, che viene meno solo con la loro trasmissione ad altro giudice” (Cass., sez. un., 4 maggio 2017, n. 10794), in quanto non si giustifica l’omessa scarcerazione per le “mere carenze organizzative dedotte” o la “mancata annotazione del termine di custodia in carcere sul fascicolo o sui registri” (Cass., sez. un., 29 luglio 2013, n. 18191).

Nella specie, tali condizioni e carenze dell’ufficio di cancelleria, come emerge dagli accertamenti operati dal giudice disciplinare e menzionati nella sentenza impugnata, sussistevano; nondimeno, non può non darsi continuità alla costante giurisprudenza delle Sezioni unite, sopra ricordata, con riguardo alla non scusabilità dell’errore commesso.

Resta, invero, in via di principio grave la condotta che ha cagionato la privazione della libertà personale senza base legale, stante il rilievo essenziale del bene inciso; nè risultano elementi di prova, nelle argomentazioni della sentenza impugnata, circa disfunzioni organizzative tali, da rendere oggettivamente impossibile ed inesigibile il controllo richiesto al magistrato, titolare dei provvedimenti de libertate, il quale è sempre tenuto ad organizzare il proprio lavoro secondo metodi che permettano di assolvere ai richiamati doveri di vigilanza.

Quanto alla dedotta ampiezza del termine a disposizione della cancelleria per l’inoltro del fascicolo alla corte d’appello e il ritardo del funzionario nella presentazione del fascicolo stesso al magistrato, essi non rappresentano un elemento scriminante, ben potendo e dovendo il magistrato esercitare, durante quel periodo, la vigilanza sulla permanenza delle condizioni di legalità dello stato di detenzione.

Il D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, art. 91, attribuisce esclusivamente al giudice che ha pronunciato la sentenza e prima della trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione (art. 590 c.p.p.) l’obbligo di adottare i provvedimenti concernenti le misure cautelari. Proprio sulla base di questa espressa previsione normativa sono state diramate plurime circolari ministeriali che onerano il giudice del dibattimento di redigere, contestualmente al dispositivo, un separato provvedimento (c.d. ordine di scarcerazione provvisorio) contenente l’indicazione della scadenza dei termini di custodia cautelare (art. 303 c.p.p.) in rapporto al reato ritenuto in sentenza e per il quale l’imputato risulti sottoposto a privazione della libertà personale.

Quindi, la mancata consegna al Dott. M. della “scheda” da compilare con l’indicazione della scadenza della custodia cautelare non è circostanza suscettibile di esonerare il magistrato dall’onere di attenzione e controllo o di scusarne la condotta, giacchè egli non può sottrarsi al dovere di controllare l’esatta scadenza del termine e di verificare la posizione dell’imputato in regime di custodia cautelare, considerato che la determinazione del tempo limite dello stato detentivo è compito che spetta esclusivamente al giudice e non al cancelliere.

Una conclusione del genere trova ulteriore elemento di conferma nel D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271, art. 165-bis, comma 1, lett. d), (inserito dal D.Lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, art. 7) che, pur entrato in vigore in epoca successiva ai fatti oggetto del presente procedimento, avvalora, rafforzandola, la previsione contenuta nell’art. 91 del medesimo D.Lgs., laddove stabilisce che “gli atti da trasmettere al giudice dell’impugnazione devono contenere, in distinti allegati formati subito dopo la presentazione dell’atto di impugnazione, a cura del giudice o del presidente del collegio che ha emesso il provvedimento impugnato” una serie di dati, tra cui “i termini di scadenza delle misure cautelari in atto, con indicazione della data di inizio e di eventuali periodi di sospensione o proroga”.

La grave negligenza del cancelliere Dott. Mi., sanzionato disciplinarmente per avere trasmesso il fascicolo al giudice dell’impugnazione tenendo conto soltanto del termine di prescrizione del reato e non anche della condizione detentiva dell’imputato e della relativa scadenza, non esclude dunque la grave negligenza dell’incolpato: sia perchè è al magistrato che spetta il compito di vigilare con regolarità sulla condizione dell’imputato in custodia cautelare, sia perchè nella condotta del funzionario di cancelleria non è ravvisabile quella condizione di eccezionalità tale da avere impedito al magistrato di porsi la questione della persistenza delle condizioni di legge per la protrazione della custodia cautelare.

In conclusione, non sussiste la dedotta omissione o contraddittorietà della motivazione, nè la violazione di legge denunziata.

3.2. – Il motivo concernente l’illecito ex art. 2, comma 1, lett. a). Il quinto motivo di ricorso si incentra sull’illecito di cui alla lett. a), relativamente all’esistenza di un danno ingiusto. Esso è infondato.

La fattispecie del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a), contempla l’illecito disciplinare del magistrato che, violando i doveri tipici della funzione, arrechi “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”.

Quei doveri tipici, elencati all’art. 1, consistono nella imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio e rispetto della dignità della persona nell’esercizio delle funzioni. Nella specie, il dovere che si assume violato è quello della diligenza, in virtù della omessa scarcerazione oltre il termine di decorrenza della custodia cautelare.

Gli elementi costitutivi dell’illecito disciplinare, pertanto, sono l’esercizio delle funzioni, un comportamento che violi uno dei doveri elencati dall’art. 1, e, per quanto ora rileva, un “ingiusto danno” o un indebito vantaggio ad una delle parti arrecato da tale comportamento ed il nesso di causalità tra comportamento e danno o vantaggio.

Le Sezioni unite hanno già affermato che ininfluenti, in ordine alla sanzione disciplinare, sono la mancata richiesta, da parte dell’imputato, di una riparazione per l’ingiusta detenzione e la circostanza che l’episodio non abbia avuto risonanza pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa (Cass., sez. un., 19 febbraio 2019, n. 4887); nè il danno ingiusto può dirsi venga meno, allorquando l’imputato, illegittimamente privato della libertà personale a seguito di una permanenza in custodia cautelare oltre i limiti temporali previsti dalla legge, sia successivamente condannato ad una pena detentiva di durata superiore alla misura cautelare sofferta (Cass., sez. un., 4 maggio 2017, n. 10794; Cass., sez. un., 6 aprile 2017, n. 8896; Cass., sez. un., 12 marzo 2015, n. 4954).

Il “danno ingiusto” di cui alla lett. a) risiede nella illegittima permanenza in custodia cautelare oltre i limiti temporali previsti dalla legge e non richiede che si sia verificata anche la conseguenza di un pregiudizio di carattere patrimoniale per l’imputato o che questi abbia attivato una iniziativa riparatoria per ingiusta detenzione: il danno si determina nel momento (e per tutto il tempo) in cui vengono superati i limiti di custodia cautelare fissati dalla legge.

Il danno ingiusto consiste, infatti, nella mancata scarcerazione una volta decorso il termine di legge per la custodia cautelare, nel persistere, cioè, di una condizione privativa della libertà personale senza la indispensabile base legale e, quindi, nella lesione, di per sè, del bene primario e fondamentale della libertà personale.

Nell’ipotesi di sostituzione della misura cautelare in carcere con gli arresti domiciliari, non viene meno l’ingiustizia del danno, quale elemento costitutivo della fattispecie. Nè può dunque trovare accoglimento la tesi della esclusione dell’illecito, allorchè lo stesso imputato prospetti l’assenza di concrete conseguenze per lui pregiudizievoli e affermi che la protrazione della privazione della libertà personale sine titulo abbia prodotto effetti riabilitativi. Il bene primario della libertà personale, costituzionalmente presidiato, non può essere oggetto di valutazioni soggettive in grado di derogare validamente ad espresse previsioni normative.

4. – Il ricorso principale del Ministero. Il ricorso del Ministero censura la ritenuta integrazione della fattispecie D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3-bis, laddove il giudice del merito ha giudicato il fatto di scarsa rilevanza, alla stregua del principio di offensività, recepito dalla richiamata disposizione.

4.1. – Il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, esclude l’illecito disciplinare “quando il fatto è di scarsa rilevanza”, nozione in cui torna, in negativo, il requisito della gravità, in tal caso globalmente riferito al fatto come condotta, che diviene disciplinarmente irrilevante in applicazione dell’esimente: si tratta di quella condotta che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta l’immagine” del magistrato. Dunque, la norma esclude l’integrazione dell’illecito disciplinare, allorchè il fatto sia di “scarsa rilevanza”, alla stregua del c.d. principio di offensività.

Si tratta di un elemento indeterminato della fattispecie, per il quale è necessario procedere ad un tipico giudizio discrezionale, rimesso al prudente apprezzamento del giudice del merito, e dove rileva il ruolo che l’ordinamento, come in tutte le norme di mero standard, assegna al giudice del caso concreto.

4.2. – Quanto al sindacato di legittimità, peraltro, il giudizio circa i fatti integranti le clausole generali o i concetti indeterminati è riservato al giudice del merito solo ove esso appartenga alla specifica singolarità del caso concreto, come tale destinato a restare ivi confinato: ma se, invece, la fattispecie concreta sia idonea a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi, là si ravvisa un giudizio di diritto e la necessità dell’intervento nomofilattico della Cassazione, al fine di garantire la prevedibilità delle future decisioni, posto che si tratta d’integrare il contenuto della norma indeterminata o della clausola generale predetta. Trattasi di giudizio di diritto, controllabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

Onde la sussunzione della fattispecie concreta sotto l’astratto ed ancorchè indeterminato paradigma legislativo, per lo più richiedente un giudizio di valore, operata dal giudice di merito, può essere sottoposta al sindacato della corte di legittimità.

In definitiva, per quanto riguarda il giudizio di sussistenza della “scarsa rilevanza” del fatto disciplinare, ferma la verifica della ricorrenza in concreto della situazione nella specie – riservata al giudice del merito – la sussunzione della singola evenienza nell’ambito della nozione predetta è giudizio di diritto.

4.3. – Orbene, in generale, è stato dalle Sezioni unite già precisato come si tratti di quei casi in cui, pur perfezionata la fattispecie tipica, il fatto, per le particolari circostanze del caso concreto, non sia lesivo del bene tutelato (Cass., sez. un., 8 ottobre 2018, n. 24672), onde l’illecito non sussiste, ove manchi la lesione o la messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma, con accertamento in concreto ed effettuato ex post: bene giuridico considerato unico per tutte le ipotesi di illecito disciplinare, ed identificabile D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 3, lett. h) e art. 4, lett. d), con la compromissione dell’immagine del magistrato (Cass., sez. un., 13 dicembre 2010, n. 25091), posto che l’accertamento della condotta disciplinarmente irrilevante, in applicazione della esimente de qua, deve identificarsi in quella che, riguardata ex post ed in concreto, non comprometta tale “immagine” (Cass., sez. un., 27 novembre 2019, n. 31058), da intendere come reputazione pubblica.

L’esimente di cui all’art. 3-bis citato si applica – sia per il suo tenore letterale, sia per la sua collocazione sistematica – a tutte le ipotesi di illecito disciplinare (Cass., sez. un., 26 marzo 2021, n. 8563; Cass. civ., sez. un., 10 settembre 2019, n. 22577; Cass., sez. un., 23 aprile 2012, n. 6327), dovendo il giudice disciplinare procedere ad un giudizio globale e non atomistico degli elementi sottoposti al suo giudizio (Cass., sez. un., 10 settembre 2019, n. 22577; Cass., sez. un., 31 marzo 2015, n. 6468).

Peraltro, l’accertamento della condotta disciplinarmente rilevante in applicazione della citata esimente deve compiersi senza sovvertire il principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari: nell’ipotesi in cui il bene giuridico individuato specificamente dal legislatore in rapporto al singolo illecito disciplinare non coincida con quello protetto dal citato art. 3-bis, il giudizio di scarsa rilevanza del fatto dovrà anzitutto tenere conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico specifico e, solo se l’offesa non sia apprezzabile in termini di gravità, occorrerà ulteriormente verificare se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine pubblica del magistrato, risultando applicabile la detta esimente in caso di esito negativo di entrambe le verifiche (Cass., sez. un., 22 novembre 2019, n. 31058).

In particolare, va precisato come, in ipotesi di mancata scarcerazione nonostante il decorso dei termini di custodia cautelare, pur alla luce della condivisa esigenza, sopra ricordata, di valutare con particolare rigore il ritardo nella scarcerazione – posto il rilievo costituzionale della illegittima privazione della libertà personale resta la necessità di indagare sul contesto fattuale complessivo della violazione disciplinare, la quale deve, in ogni caso, essere delibata alla stregua dell’episodio concreto, secondo tutti i suoi elementi rilevanti e differenziatori, che possano risultare idonei ad integrare la “scarsa rilevanza” del fatto, secondo la nozione esposta, che attiene al grado di lesione della c.d. immagine della giurisdizione. Non sussiste, pertanto, equivalenza tra ritardo nella scarcerazione ed inapplicabilità dell’esimente, non potendosi discorrere al riguardo di nessun automatismo, il quale impedisca la compatibilità tra l’illecito in questione e la norma di favore.

Rilevano dunque, a tal fine, mediante una valutazione da compiere d’ufficio, tutti i fatti acquisiti al procedimento, che debbono essere presi in considerazione allo scopo di ponderare le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, in un giudizio che, dopo avere esaminato analiticamente le singole evenienze, deve abbracciare l’esame della vicenda in modo necessariamente globale, tale da potersi il giudice del merito avvedere se – in concreto – la c.d. immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito.

Onde poi la valutazione, esclusivamente di merito, non può che essere rimessa alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ed è sottoposta al sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica, oppure motivata in modo insufficiente o illogico (Cass., sez. un., 3 settembre 2020, n. 18302; Cass., sez. un., 13 luglio 2017, n. 17327; v. pure Cass., sez. un., 18 gennaio 2019, n. 1416; Cass., sez. un., 29 marzo 2013, n. 7934).

4.4. – Tale errore di impostazione giuridica, nella specie, sussiste.

Invero, il giudice del merito ha ritenuto integrata la fattispecie sulla base degli elementi dal medesimo indicati, ossia il ragionevole affidamento riposto dal magistrato sul corretto adempimento dei compiti di cancelleria, la sua figura professionale, l’unicità dell’episodio, l’avvenuta sostituzione della misura detentiva con quella degli arresti presso una struttura di accoglienza, le dichiarazioni scritte rese dall’imputato, da cui ha ritenuto comprovato, in punto di fatto, che questi non subì nessun pregiudizio, al contrario traendone beneficio in ragione delle attività rieducative seguite presso la struttura di accoglienza; la mancanza di qualsiasi istanza di revoca o modifica della misura, al contrario fruendo quegli in pieno dei servizi offerti dalla struttura.

In particolare, secondo la ratio decidendi della pronuncia impugnata, ebbe un ruolo centrale l’anomalia della condotta del funzionario di cancelleria Mi., che avrebbe avuto l’effetto di escludere il rilievo del fatto in capo al magistrato: essa ha, così, ritenuto che il fatto debba qualificarsi di scarsa rilevanza.

Tuttavia, in tal modo, la decisione impugnata ha attribuito una rilevanza escludente alla cooperazione causale nella produzione del pregiudizio da parte del funzionario di cancelleria, per gli inadempimenti di questi: senza considerare, però, i ricordati doveri di vigilanza e controllo, per legge demandati al magistrato con riguardo al decorso del termine di custodia cautelare, e l’offesa arrecata anzitutto al bene giuridico tutelato dalla previsione dell’illecito disciplinare de quo.

Non sono in discussione, invero, gli elementi, menzionati dalla decisiona impugnata, dell’impegno, capacità professionale e senso di umanità spesi dal magistrato nell’occuparsi della vicenda dell’imputato; tuttavia, la decisione impugnata presenta un errore di impostazione giuridica, reputando che l’illecito non sussista, a fronte dell’illegittima privazione della libertà personale per ben 578 giorni, senza adeguata considerazione della lesione al bene tutelato, essendo il magistrato in tal modo venuto meno al necessario controllo sullo stato detentivo, che, invece, non solo nel momento iniziale e del giudizio, ma anche successivamente, rientra integralmente, per ragioni di garanzia costituzionale, tra i compiti e le attribuzioni dello stesso.

Non può dirsi, dunque, integrata la “scarsa rilevanza” del fatto a fronte di una lunga privazione della libertà personale dell’imputato, per la sola evenienza della concomitante negligenza dell’ufficio di cancelleria, o dell’indiscusso impegno e capacità del magistrato anche nel singolo processo, o, infine, del disinteresse del soggetto ad ottenere la cessazione della misura: elementi i quali non sono idonei ad essere sussunti nel citato elemento della fattispecie, costituito dalla inoffensività del fatto.

5. – In conclusione, va accolto il ricorso principale e respinto il successivo, dovendosi cassare la sentenza impugnata con rinvio alla Sezione disciplinare, in diversa composizione, per un nuovo esame, alla stregua del motivo accolto.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni unite, accoglie il ricorso principale e respinge il ricorso successivo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Sezione disciplinare, in diversa composizione, anche per le spese di lite.

Così deciso in Roma, nella Camera di civili, il 8 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021

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