Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.18030 del 23/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11276/2013 R.G. proposto da:

L.C., rappresentato e difeso dall’avv.to Felice Laudadio e dall’avv.to Raimondo Nocerino, elett. dom. presso lo studio del primo in Roma, via Alessandro III;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale *****, in persona del direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, n. 314/46/12, depositata il 23 ottobre 2012, non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 26 novembre 2020 dal Consigliere Adet Toni Novik.

RILEVATO

CHE:

1. Con sentenza n. 314/46/12, emessa in data 19 giugno 2012, depositata in data 23 ottobre 2012, la Commissione tributaria regionale della Campania, (CTR) ha rigettato l’appello proposto da L.C. (nato nel *****, di seguito, il contribuente), confermando la sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta (CTP).

2. La controversia ha ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento concernente Iva, Irpef, Irap e le correlate sanzioni per il periodo d’imposta 2004.

3. L’avviso si fondava su un p.v.c. redatto dalla Guardia di Finanza di ***** con cui si contestava al contribuente fatture per operazioni inesistenti, poste in essere quale amministratore di fatto della ditta del nonno Le.Ca. (nato nel *****), giusta in tal senso l’affermazione resa alla Guardia di Finanza secondo cui “attesa l’età avanzata di mio nonno Le.Ca., mi sono occupato io, in via esclusiva, della gestione della ditta di mio nonno”.

4. La CTR, nel rigettare l’appello del contribuente che aveva dedotto a) successivamente al deposito della sentenza di primo grado, altra CTP di Caserta aveva rigettato il ricorso proposto dalla moglie di Le.Ca. (nato nel *****), confermando la legittimità dell’avviso di accertamento notificato alla medesima nella qualità di erede; b) l’inidoneità della dichiarazione rilasciata alla Guardia di Finanza a supportare l’attribuzione della qualifica di amministratore di fatto, stante la mancanza in essa di elementi temporali di riferimento, rilevava come lo stesso avesse ammesso di aver gestito di fatto l’azienda del nonno. Pertanto, secondo la CTR, correttamente era stata ritenuta sussistente l’ipotesi di frode fiscale contestata dall’amministrazione finanziaria. Osservava che il quadro probatorio fornito dall’amministrazione resisteva alle motivazioni addotte dal contribuente.

5. Il contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza per quattro motivi.

L’agenzia delle entrate si è costituita al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1.

CONSIDERATO

CHE:

1. – Il ricorrente deduce:

– con il primo motivo, “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2999 c.c., e art. 324 c.p.c. – violazione e falsa applicazione art. 112,115,116 c.p.c. – violazione e falsa applicazione art. 2697 c.c. – violazione e falsa applicazione art. 2639 c.c., e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, – error in iudicando con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5”. In sintesi, la CTR avrebbe omesso di valutare la sentenza della CTP di Caserta che aveva respinto il ricorso di S.A., erede del defunto Le.Ca., riconoscendo la legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti; quella decisione confermava che il contribuente non era amministratore di fatto della ditta;

– la CTR, in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., avrebbe omesso di trarre elementi di convincimento dal comportamento dell’ufficio che, nelle proprie controdeduzioni, in una prospettiva completamente nuova, aveva alluso ad una “solidarietà passiva” e ad una “società di fatto” tra il contribuente e il nonno.

2. La censura è infondata sotto tutti i profili dedotti.

– Nessuna violazione del giudicato è ravvisabile nella fattispecie, posto che il coinvolgimento del contribuente come responsabile della gestione dell’azienda è ricollegabile alla veste assunta di amministratore di fatto, mentre quella della S. discende dalla sua qualità di erede del coniuge. Si tratta pertanto di due posizioni distinte e si ricollegano alla solidarietà nelle obbligazioni tributarie sussistenti tra l’amministratore di diritto e quello di fatto. E’ stato già reiteratamente affermato da questa Corte, sia pure in materia di reati fallimentari, che il soggetto che assume, in base alla disciplina dettata dall’art. 2639 c.c., la qualifica di amministratore “di fatto” di una società è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, tra le quali rientrano certamente gli obblighi tributari. Si tratta di un principio di diritto che trova il proprio fondamento nella sostanziale equiparazione dell’amministratore di fatto a quello di diritto, ai sensi della citata disposizione del codice civile, come sostituita ai sensi del D.Lgs 11 aprile 2002, n. 61, art. 1, che peraltro ha prevalentemente natura interpretativa di precedenti, consolidati, approdi giurisprudenziali. Non sussiste nemmeno la violazione dell’art. 112 c.p.c., peraltro non sviluppata dal contribuente che ha omesso di indicare i ravvisati profili di erronea interpretazione di norme da parte della CTR, e dal fornire la prospettazione della diversa lettura delle medesime ritenuta viceversa “corretta” (cfr. Cass., 8/5/2006, n. 10500): va, pertanto, applicato il principio per cui spetta alla Corte di Cassazione la corretta qualificazione di diritto dei fatti prospettati dal ricorrente, e la pronuncia di rigetto della domanda, in quanto conforme al diritto, può essere integrata in questa sede ex art. 384 c.p.c., Infatti, in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè per omologia con quanto prevede la norma di cui all’art. 384 c.p.c., comma 2, deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica individuata d’ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l’efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l’integrazione di una eccezione in senso stretto (Cass. 14 febbraio 2014, n. 3437; 22 marzo 2007, n. 6935).

– Analogamente, quanto alla violazione degli artt. 2697 c.c., la censura non è congruente con il contenuto della decisione, che non ha violato il principio sull’onere probatorio, ma ha deciso la controversia sulla base degli elementi probatori proposti dalle parti, non potendosi sicuramente ritenere integrata una inversione dell’onere della prova per aver la CTR ritenuto idonea quella fornita da una parte (v. Cass. n. 26769 del 23/10/2018);

– va poi rilevato che per dedurre la violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., “è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma” ossia che abbia “giudicato o contraddicendo espressamente la regola, dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio”, mentre “detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre”, trattandosi di attività consentita dall’art. 116 c.p.c., (v. Cass. n. 11892 del 10/06/2016). Il motivo si traduce quindi in una censura del fatto, attraverso un presunto errore di diritto, “poichè in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità” (Sez. 2 -, Sentenza n. 24434 del 30/11/2016, Rv. 642202 – 01; ordinanza sez. III, 29/03/2019, n. 8763, in motivazione). Orbene, anche a voler ritenere, come esposto alle pagine 15-18 del ricorso, che la CTR abbia inteso fare propri alcuni argomenti introdotti dall’agenzia per la prima volta in sede di appello, si osserva che nel giudizio tributario – strutturato come giudizio d’impugnazione di un provvedimento contenente la pretesa dell’amministrazione finanziaria, nel quale l’ufficio assume la veste di attore in senso sostanziale ed il dibattilo processuale è delimitato, da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo e, dall’altro, dalle questioni dedotte dal contribuente nel ricorso introduttivo (Cass. n. 10779/2007, n. 15849/2006, n. 9754/2003) – il divieto di ultrapetizione e quello di proporre in appello nuove eccezioni (non rilevabili d’ufficio), posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 57, comma 2, riguardano le eccezioni in senso tecnico, ossia gli strumenti processuali con cui il contribuente, convenuto in senso sostanziale, fa valere un fatto giuridico avente efficacia modificativa o estintiva della pretesa fiscale (Cass. n. 7789/2006, n. 10112/2002). Tale non può considerarsi l’argomentazione difensiva tendente a sostenere la pretesa tributaria sotto un profilo logico- giuridico più generale, rispetto a quello particolare o speciale, teoricamente subordinato, esposto in primo grado, dal momento che la sussunzione della vicenda concreta in una diversa configurazione normativa o interpretativa non significa eccesso del giudice dai limiti della domanda nè violazione del divieto di nuove eccezioni in appello, riguardante unicamente le eccezioni in senso stretto (Cass. n. 14020/2007, n. 15646/2004, n. 6347/2002; in generale, S.U. n. 1099/1998).

3 – Con il secondo motivo, “Violazione e falsa applicazione art. 112,115,116 c.p.c. – violazione e falsa applicazione art. 2697 c.c. – violazione e falsa applicazione art. 2639 c.c., e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11 – error in iudicando con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5”. In sintesi, la CTR avrebbe erroneamente esteso la propria indagine all’utilizzo da parte del contribuente delle fatture false ed alla ricorrenza di una frode fiscale, trattandosi di profili non devoluti con l’appello, limitato soltanto all’ottenimento di un annullamento dell’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti quale amministratore di fatto;

– la censura è inammissibile in relazione a tutti i profili dedotti;

– in primo luogo, si osserva che la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in dipendenza della denunciata violazione. Sicchè una violazione che non abbia alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, e che sia diretta quindi all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico, non può costituire oggetto di motivo di ricorso. Ne consegue che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del processo, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (Cass. n. 5837/1997; n. 13373/2008; n. 6330/2014; n. 26831/14; n. 11354/16);

– in secondo luogo, si rileva che l’oggetto del processo è costituito dalla pretesa dell’amministrazione tributaria, per cui la CTR, conformemente alla contestazione, aveva l’obbligo di statuire anche sull’esistenza della violazione contestata: è noto che il giudizio tributario non si connota come un giudizio di “impugnazione-annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio; la CTR ha adempiuto a questo obbligo.

4 – Con il terzo motivo, “Violazione e falsa applicazione art. 112,115,116 c.p.c. – violazione e falsa applicazione art. 2697 c.c. – violazione e falsa applicazione art. 2639 c.c., e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11 – error in iudicando con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5”.

Con il quarto motivo, “Violazione e falsa applicazione art. 112,115,116 c.p.c. – violazione e falsa applicazione art. 2697 c.c. – violazione e falsa applicazione art. 2639 c.c., e D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 11 – error in iudicando con riferimento all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5”. In sintesi, la CTR avrebbe erroneamente valutato ai fini dell’attribuibilità della qualifica di amministratore di fatto un unico elemento, costituito dalla dichiarazione rilasciata la Guardia di Finanza nel 2007, non correlato alla violazione posta in essere nell’anno fiscale 2004;

– le due censure sono sostanzialmente sovrapponibili e possono essere esaminati congiuntamente; entrambe sono inammissibili in relazione a tutti i profili dedotti;

– in ordine alla gravità indiziaria si rileva che ai fini degli accertamenti tributari, non è necessario che gli elementi assunti a fonte di presunzioni siano plurimi, benchè l’art. 2729 c.c., comma 1, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un unico elemento, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico, non è sindacabile in sede di legittimità qualora sia sorretto, come nella specie, da una adeguata motivazione che sia immune da contraddittorietà (Cass. n. 17574 del 29/7/2009; Cass. n. 656 del 15/1/2014; Cass. n. 2155 del 25/1/2019);

– nella fattispecie, la CTR ha correttamente richiamato le affermazioni rese dal contribuente costituenti confessione stragiudiziale: soccorre, in proposito, il principio logico-giuridico per cui ogni dichiarazione del legale rappresentante può costituire prova non già indiziaria, ma diretta del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non bisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. n. 28316/2005, n. 9320/2003, n. 7964/1999);

– quanto alla mancanza di correlazione della confessione resa con l’anno d’imposta preso in esame, essa attiene ad un giudizio di fatto che non può essere rivalutato in sede di legittimità, tanto più che, come si ricava dalla sentenza, la CTR ha formulato le proprie valutazioni sul presupposto che la dichiarazione rilasciata nel 2007 era riferita proprio alla annualità verificata dalla Guardia di Finanza: tanto emerge dalla logica sequenza delle frasi utilizzate che correlano la gestione dell’azienda in capo al contribuente con l’utilizzo delle fatture false. Per contestare detta valutazione era onere del ricorrente produrre la pagina del PVC indicata nella sentenza al fine di dimostrare l’erronea interpretazione di essa da parte della CTR;

– quanto alla correttezza della qualifica di amministratore di fatto, è incontestato che per costante orientamento di questa Corte ai fini della corretta individuazione dell’amministratore di fatto è sufficiente l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società (cfr. Cass. n. 28819/2008; id. 6719/2008; n. 99/9795, n. 99/1925). Nel caso in esame, la Commissione Tributaria Regionale nel motivare sul punto ha doverosamente valorizzato la confessione stragiudiziale del contribuente, non suscettibile di una interpretazione diversa da quella fatta propria dal senso delle parole utilizzate.

5. Nulla per le spese in assenza di attività difensiva. Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata, trattandosi di ricorso per cassazione la cui notifica si è perfezionata successivamente alla data del 30 gennaio 2013 (Cass., Sez. 6-3, sentenza n. 14515 del 10 luglio 2015).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021

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