Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.18272 del 25/06/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7423/2016 R.G. proposto da:

E.L., rappresentato e difeso dall’avv. Luca Nanni, con domicilio eletto in Roma, Piazza Augusto Imperatore n. 22, presso l’avv. Guido Maria Pottino;

– ricorrente –

contro

A.R. E P.S., rappresentati e difesi dall’avv. Herwith Neulichedl e dall’avv. Leonardo Di Brina, con domicilio eletto in Roma, alla Via Arcione n. 71;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Trieste, sezione distaccata di Bolzano, n. 4/2016, depositata in data 9.1.2016;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 19.1.2021 dal Consigliere Dott. Giuseppe Fortunato.

FATTI DI CAUSA

E.L. ha adito il tribunale di Bolzano, esponendo che, con contratto preliminare del 4.8.2009, P.S. e A.R. gli avevano promesso in vendita un immobile sito nel Comune di Portoferraio, loc. Acquabona, comprendente un fabbricato ed un terreno circostante; che, ai sensi dell’art. 1 della scrittura, i promittenti venditori si erano impegnati ad ottenere il rilascio di una concessione edilizia per la realizzazione di una costruzione che avesse una superficie abitabile netta di mq. 70, nonchè un porticato di mq. 16, da maggiorare del 10% in applicazione delle norme in tema di bioedilizia, e quindi per una superficie complessiva di mq. 17,60; che tale concessione non era stata rilasciata, poichè in base al regolamento edilizio locale, era possibile realizzare in loco un fabbricato avente una superficie netta abitabile non superiore a mq. 45, oltre ad 11 mq. per locali tecnici e mq. 12 per la veranda, potendosi calcolare il bonus per bioedilizia solo sulla suddetta superficie netta abitabile.

L’attore ha chiesto di accertare la legittimità del recesso dal contratto da egli esercitato prima del giudizio, con condanna dei convenuti al pagamento del doppio della caparra, pari ad Euro 120.000,00.

A.R. e P.S. hanno resistito alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale che il tribunale dichiarasse la legittimità del loro recesso dal contratto, con diritto a trattenere la caparra e con condanna dell’attore al risarcimento del danno causato dalla trascrizione della domanda giudiziale.

Il tribunale ha accolto la domanda principale e ha respinto le riconvenzionali con sentenza n. 486/2014, integralmente riformata in secondo grado.

La pronuncia di appello ha, anzitutto, precisato che l’art. 1 del contratto prevedeva una condizione risolutiva e non una clausola risolutiva espressa, in cui l’evento dedotto in condizione era costituito dal rilascio, entro un anno dalla stipula, del permesso a costruire un manufatto avente una superficie netta pari a mq. 70. Preso atto che il consulente aveva accertato che era possibile edificare superficie utile complessiva non superiore a mq. 49,5, la Corte distrettuale ha ritenuto che se la condizione di cui all’art. 1 del contratto fosse stata interpretata nel senso di richiedere il rilascio della concessione edilizia per un manufatto di mq. 70 netti, essa condizione doveva considerarsi non apposta, contemplando un evento di impossibile verificazione (alla luce delle previsioni degli strumenti urbanistici locali), non potendo sussistere – in tal caso alcun inadempimento dei promittenti venditori.

La responsabilità dei convenuti doveva escludersi, secondo il giudice distrettuale, anche ove fosse prescelta un’interpretazione conservativa del contratto, nel senso di ritenere che le parti avessero inteso prevedere il rilascio di una concessione per realizzare una costruzione di mq. 70 lordi, dato che la superficie utile assentibile era pari a mq. 49,50, alla quale andavano aggiunti i vani pertinenziali, potendo in tal modo considerarsi possibile la verificazione dell’evento dedotto in condizione.

La cassazione della sentenza è chiesta da E.L. con ricorso in 5 motivi, illustrati con memoria.

A.R. e P.S. resistono con controricorso e con memoria ex art. 380 bis c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando che la Corte di merito non abbia pronunciato sulla responsabilità dei promittenti venditori per aver disatteso l’obbligo di far ottenere l’approvazione del progetto finale, con le caratteristiche costruttive promesse, e per aver vanamente garantito che non sussistevano vincoli urbanistici che ostassero alla realizzazione del progetto. Il motivo è infondato.

E’ innegabile che la Corte di merito abbia esplicitamente escluso qualsivoglia profilo di responsabilità a carico di promittenti venditori, evidenziando che nell’ipotesi che la condizione fosse stata interpretata nel senso di prevedere la realizzazione di una costruzione di 70 mq. al netto delle pertinenze, tale evento non poteva giuridicamente avversarsi e la condizione doveva considerarsi non apposta ai sensi dell’art. 1354 c.c., non impegnando i resistenti a far ottenere il permesso a costruire, mentre se la medesima clausola fosse stata intesa nel senso di contemplate la realizzazione di un manufatto di mq. 70 lordi, incluse le pertinenze, sarebbe stato possibile realizzare l’opera secondo le iniziali previsioni delle parti, non configurandosi comunque alcun inadempimento.

La sentenza ha – sia pure in tali termini – esplicitamente statuito sulla responsabilità dei promittenti venditori, il che esclude la lamentata violazione processuale.

2. Il secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver la sentenza omesso di valutare l’inadempimento dei promittenti venditori sia rispetto all’obbligo contemplato dall’art. 2 comma 4, del contratto, con cui avevano esplicitamente garantito che non sussistevano vincoli urbanistici che ostassero alla realizzazione del progetto edilizio programmato dalle parti, sia rispetto all’impegno – di cui all’art. 1, comma 2, della scrittura – di predisporre ed ottenere, a propria cura e spese, il rilascio del permesso a costruire.

Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, lamentando che la Corte di merito abbia immotivatamente escluso la responsabilità dei promittenti venditori con riferimento alle predette obbligazioni, contemplate dal preliminare di vendita.

I due motivi, che, data la loro stretta connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono fondati.

La pronuncia di appello ha ritenuto che l’art. 1 del contratto contemplasse una condizione risolutiva, in cui l’evento condizionante era costituito dal rilascio del permesso a costruire un manufatto avente le caratteristiche dimensionali e di abitabilità stabilite dalle parti, entro un anno dalla stipula del preliminare.

La sentenza ha poi aggiunto che la clausola, se interpretata nel senso di prevedere la realizzazione di una costruzione di almeno 70 mq netti abitabili, sarebbe stata di impossibile verificazione, essendo in contrasto con le previsioni del regolamento edilizio che consentiva di edificare solo la minor superficie netta di mq. 45 abitabili.

Secondo la Corte di merito, se letta in tal modo, la condizione doveva considerarsi non apposta e nessun addebito sarebbe stato possibile formulare a carico dei resistenti ai fini dell’attribuzione della caparra confirmatoria.

Come è però evidenziato in ricorso, il contratto non si limitava a contemplare una clausola dal descritto contenuto, ma – da un lato impegnava i promittenti venditori a predisporre il progetto conforme a quello allegato al contratto – e a procurarsi la concessione edilizia, dall’altro, all’art. 2, comma 4, conteneva una dichiarazione con cui i promittenti venditori avevano esplicitamente “garantito che il bene non ricadeva in zona boschiva e che non vi erano vincoli giuridici che pregiudicassero la realizzazione del progetto edilizio”.

Nell’escludere ogni profilo di responsabilità e nel valutare isolatamente la clausola sub art. 1, comma 5, del contratto, la sentenza è incorsa nell’errore di prescindere del tutto da tali esplicite pattuizioni, che – in maniera inequivocabile – definivano la portata degli impegni assunti dai resistenti, ponendo a loro carico sia un obbligo di risultato (l’ottenimento della concessione edilizia), che una specifica obbligazione di garanzia riguardo alla realizzabilità urbanistica di un manufatto di 70 mq. netti abitabili.

In tale contesto, l’impossibilità di realizzare un manufatto avente le descritte caratteristiche dimensionali, a causa dei vincoli imposti dalla disciplina urbanistica locale non poteva far escludere la responsabilità dei resistenti.

Questa Corte ha già affermato che se il venditore ha espressamente garantito la destinazione edificatoria del suolo compravenduto, specificando l’indice di edificabilità (o – deve ritenersi – la superficie edificabile), il compratore, appresa l’esistenza di un vincolo urbanistico che riduca la cubatura realizzabile, può avvalersi della garanzia prevista dall’art. 1489 c.c. in tema di cosa gravata da oneri non apparenti, essendo il vincolo non agevolmente riconoscibile per effetto delle asserzioni del venditore (Cass. 14226/1999; Cass. 10184/2014; Cass. 27916/2017; nel senso che in tal caso è invece invocabile la responsabilità per mancanza delle qualità promesse: Cass. 13612/2013; Cass. 276/1984).

La valutazione dei contenuti delle suddette clausole negoziali era decisiva per rilevare eventuali profili di inadempimento a carico dei resistenti, clausole la cui violazione era stata allegata sin dal primo grado quale presupposto della legittimità del recesso del promissario acquirente e del diritto ad ottenere il doppio della caparra.

3. Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 1367 c.c. e ss. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censurando la sentenza nel punto in cui, in applicazione dei criteri di interpretazione conservativa del contratto, ha ritenuto che l’art. 1 del contratto contemplasse una condizione risolutiva avente ad oggetto il rilascio del permesso a realizzare una superficie lorda – e non netta – di mq. 70. Secondo il ricorrente, l’interpretazione conservativa sarebbe volta ad individuare la reale volontà delle parti, non potendo il giudice farvi ricorso per interpretare una clausola condizionale, avendo essa lo scopo di subordinare gli effetti del contratto ad un evento futuro ed incerto “anche, in ipotesi, per impedire gli effetti del contratto quando il realizzarsi o il mancato realizzarsi di un dato evento rende il contratto privo di interesse per le parti”.

Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 1362 c.c. e art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, contestando alla Corte di merito di aver immotivatamente operato un’interpretazione conservativa del contratto, alla quale non si poteva far ricorso, essendo possibile individuare la volontà dei contraenti in base al dato letterale e ai criteri ermeneutici principali. I due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente, sono fondati. L’art. 1, comma 1, del contratto precisava che il ricorrente si era determinato all’acquisto del suolo allo scopo di ricavare un fabbricato per civile abitazione di circa 70 mq. netti, oltre a mq. 16 di porticato. Le medesime caratteristiche della futura costrizione erano richiamate ai commi secondo, quinto, settimo del medesimo articolo, nonchè dal comma 4 dell’art. 2 e 5).

Dinanzi ad un dato letterale inequivoco quanto alla necessità che la superficie edificabile promessa fosse calcolata al netto delle pertinenze, la Corte ha ritenuto di poter adottare un’interpretazione conservativa, sull’assunto che – essendo possibile ottenere la concessione per realizzare non più di 49,5 mq. netti – la clausola ove interpretata in senso letterale, sarebbe stata – altrimenti – di impossibile verificazione giuridica, dovendosi ritenere non apposta ai sensi dell’art. 1354 c.c., comma 2.

Neppure su tale – opinabile – presupposto era consentito far ricorso al criterio di cui all’art. 1367 c.c., atteso che il dato letterale – nel riferimento alla superficie netta di mq. 70 – non dava adito a dubbi sulle caratteristiche che doveva possedere la futura costruzione.

Per correttamente individuare il contenuto del contratto e la volontà dei contraenti, è necessario preliminarmente esaminare il dato testuale delle singole clausole ed interpretare le une per mezzo delle altre.

Solo se il risultato in tal modo ottenuto non consenta di pervenire a soluzioni certe, è consentito l’utilizzo dei criteri sussidiari di interpretazione (Cass. 7972/2007; Cass. 9786/2010; Cass. 27564/2011; Cass. 5595/2014).

L’art. 1367 c.c. prevede espressamente che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso che esse possano avere un qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno, per cui la norma va intesa non già nel senso che è sufficiente il conseguimento di qualsiasi effetto utile di una specifica clausola per legittimare l’interpretazione contraria alle locuzioni impiegate dai contraenti, ma solo che, nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse ed evitare di adottare la soluzione che la renda improduttiva di effetti.

Detto criterio conservativo condivide – comunque – il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto non può condurre ad una interpretazione sostitutiva della reale volontà delle parti, come risultante dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 1362 c.c..

Ove il dato letterale sia inequivoco, il giudice, preso atto del contenuto del contratto, non può operare alcuna interpretazione conservativa e, se sussiste un motivo di nullità o di inefficacia, deve limitarsi a dichiaralo (Cass. 573/1983; Cass. 19994/2004; Cass. 28357/2011; Cass. 19493/2018).

Sono in conclusione accolti il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, mentre è respinto il primo.

La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Trento, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, rigetta il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Trento, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 giugno 2021

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