LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CASSANO Margherita – Primo Presidente –
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 32082-2020 proposto da:
P.L., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCARDO SENSI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
PROCURATORE GENERALE CORTE CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 130/2020 del CONSIGLIO SUP. MAGISTRATURA di ROMA, depositata il 12/11/2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, nella persona dell’Avvocato Generale, Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, il quale chiede il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Il Dott. P.L. venne incolpato degli illeciti disciplinari, a lui ascritti come appresso riportati:
“dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 4, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 186 C.d.S., commi 1 e 2, lett. c), e comma 2 sexies, artt. 337,582,576 e 585 c.p., per avere commesso i fatti integranti ipotesi di reato, lesivi della sua immagine di magistrato, consistenti nell’essersi posto – in ***** il giorno ***** – alla guida dell’autovettura BMW targata ***** in stato di ebbrezza da assunzione di alcool (tasso alcolemico accertato 1,84 g/l alle ore 0,15 e 1,79 g/l alle ore 1,57 del predetto giorno *****) e di avere usato violenza e minaccia per opporsi ad agenti della Polizia Municipale di ***** nel corso degli accertamenti finalizzati alla verifica dello stato di ebbrezza appena indicato. In particolare, per avere inveito dopo avere effettuato la prima prova alcooltest e prima di sottoporsi alla seconda – con toni alterati contro l’agente P.A. e l’ispettore S.P. con parole quali “Voi sapete con chi avete a che fare? lo correggo i vostri errori tutti i giorni, sono un procuratore della Repubblica… lei non capisce un cazzo, lei è un analfabeta… ma a un deficiente del genere cosa posso dire?… Lei non vale niente di niente”; per essersi indi avvicinato all’agente P. con modi aggressivi, sospingendolo e facendolo rovinare a terra, nonchè pronunciando al suo indirizzo le parole “ma vada affanculo”; per essersi poi scagliato, benchè richiamato alla calma dagli altri agenti presenti, contro l’ispettore S.P., afferrandola per il collo e strattonandola, di seguito ingaggiando una colluttazione con il predetto agente P. e con l’agente M.G., dimenandosi e divincolandosi, nuovamente facendoli cadere per terra, nonchè continuando ad inveire, anche dopo l’arrivo di una pattuglia dei Carabinieri, contro gli operatori, in particolare minacciando la vice Comandante della polizia Municipale T.D., profferendo al suo indirizzo la parola “stronza, tu cambierai mestiere, vedrai, ti rovino. Ho rovinato tutti i vigili urbani di *****. Sono tutti indagati. Sei un’abusiva e sei il capo degli abusivi”.
Tali fatti sono stati oggetto di un procedimento penale conclusosi con la sentenza della Corte di cassazione n. 4936/2020.
Notizia circostanziata dei fatti acquisita nel luglio del 2010.
Con sentenza del 12/11/2020 n. 130 la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato il Dott. P. responsabile dell’incolpazione ascritta e lo ha condannato alla sanzione disciplinare della sospensione dalle funzioni per anni due, disponendo il trasferimento del medesimo D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 13, comma 1, al Tribunale di Enna con funzioni di giudice civile.
In premessa, la Sezione Disciplinare reputava manifestamente infondata l’eccezione sollevata dall’incolpato in merito alla preclusione alla celebrazione del procedimento disciplinare per avere la medesima Sezione già consumato il proprio potere con la conclusione di un altro procedimento relativo ai medesimi fatti.
Infatti, questo procedimento scaturiva dalla comunicazione della notizia dell’inizio di un procedimento penale per i fatti contestati presso la Procura della Repubblica di Ancona, sicchè il procedimento disciplinare era stato sospeso in ragione della concomitanza con il procedimento penale, per essere poi riattivato solo allorchè la Corte di Cassazione si era pronunciata definitivamente in sede penale, dichiarando con la sentenza n. 4936/2020 estinti i reati di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni personali aggravate, essendo stato il reato di stato di ubriachezza alla guida già dichiarato estinto per prescrizione con sentenza della Corte d’Appello di Ancona.
Tuttavia, a seguito di querela presentata dai pubblici ufficiali intervenuti nella notte del 19/2/2010, la Procura della Repubblica di Ancona aveva iscritto altro procedimento penale parallelo per il reato di ingiurie di competenza del Giudice di Pace, che però era stato dichiarato estinto per remissione della querela.
Era stato quindi intrapreso altro procedimento disciplinare conclusosi con sentenza della Sezione Disciplinare del CSM n. 102 del 2015, che aveva disposto la perdita di sei mesi di anzianità. Ma, a seguito di ricorso per cassazione dell’incolpato, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 1589/2015 aveva cassato senza rinvio la decisione del CSM, rilevando l’improcedibilità della seconda azione disciplinare per la violazione del principio del ne bis in idem, stante l’unicità del contesto storico in cui le condotte illecite erano state commesse.
Posta tale ricostruzione delle vicende disciplinari, la sentenza gravata ha osservato che, proprio in ragione della pendenza del presente procedimento disciplinare, era stata cassata la prima sentenza emessa dalla Sezione Disciplinare relativa al secondo procedimento.
Tuttavia, anche in relazione alla doglianza che lamentava che per i medesimi fatti fossero stati instaurati due diversi procedimenti penali, mai riuniti, la decisione impugnata ha evidenziato che proprio la duplicazione delle iniziative disciplinari aveva indotto la Suprema Corte a cassare la prima pronuncia disciplinare, in quanto il potere di iniziativa disciplinare era già stato legittimamente esercitato con l’attivazione del primo procedimento.
Anche a voler ammettere che la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona e la Procura Generale presso la Corte di Cassazione, con riferimento all’azione disciplinare, abbiano errato nel non procedere alla riunione dei distinti procedimenti concernenti i medesimi fatti, non poteva però addivenirsi ad una declaratoria di improcedibilità anche per il procedimento in esame, essendo quello iniziato per primo, la cui legittimità e priorità cronologica avevano indotto i giudici di legittimità a cassare senza rinvio la prima sentenza emessa dalla Sezione Disciplinare.
Quanto al merito delle contestazioni, i giudici disciplinari evidenziavano che la Corte di Cassazione penale, con la sentenza n. 4936/2020, aveva annullato senza rinvio la sentenza di condanna emessa a carico dell’incolpato dalla Corte d’Appello di Ancona per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e per lesioni volontarie, in ragione dell’intervenuta prescrizione, ma aveva rigettato per il resto i motivi di ricorso del P., ritenendoli privi di fondamento in tutte le sue deduzioni e affermando che la sentenza impugnata resisteva alle censure mosse e miranti solo a contestare la ricostruzione dei fatti come operata dal giudice di merito.
Doveva quindi affermarsi che i fatti si fossero svolti così come accertati in sede penale nei giudizi di primo e di secondo grado, sicchè i fatti stessi rimanevano cristallizzati nella loro materialità come fondamento dell’azione disciplinare.
La sentenza, poi, richiamava la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità e dunque della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione nel giudizio penale.
La declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione non precludeva quindi una diversa valutazione del solo disvalore delle condotte definitivamente accertate in sede penale, stante la diversità del bene giuridico tutelato in sede disciplinare.
I fatti storici accertati in sede penale non potevano che portare a ravvisare la loro carica di disvalore anche nella sede disciplinare, posto che la reazione violenta dell’incolpato è sintomatica di uno scarso equilibrio personale e di carenza di autocontrollo, requisiti che invece devono contraddistinguere la personalità del magistrato.
Inoltre, la previsione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, è un illecito di pericolo, per cui l’idoneità della condotta a ledere l’immagine del magistrato deve essere intesa quale idoneità astratta a determinare un vulnus all’immagine dell’incolpato.
E tale pregiudizio si era poi in concreto determinato, sia in ragione del fatto che la vicenda vide la presenza di numerose persone, peraltro pubblici ufficiali in servizio, sia perchè i fatti ebbero una ribalta mediatica sui quotidiani locali, come dimostrato dalla documentazione prodotta in udienza dallo stesso incolpato.
In merito al trattamento sanzionatorio, la sentenza riteneva congrua la sospensione dalle funzioni per anni due, alla quale conseguiva, D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 13, il trasferimento d’ufficio ad atra sede, individuata nel Tribunale di Enna, con vincolo allo svolgimento delle funzioni civili.
In tal senso ogni meno afflittiva sanzione sarebbe risultata sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti.
Sempre in merito alla congruità della sanzione, la sentenza osservava che il P. era gravato di numerosi precedenti disciplinari, alcuni dei quali già divenuti definitivi (sentenza della Sezione Disciplinare n. 117/2003, che aveva irrogato la sanzione dell’ammonimento per comportamenti scorretti in udienza), altri già esaminati in sede cautelare in relazione alle ingiurie rivolte ad una banconista di un pubblico esercizio ed all’aggressione del titolare dello stesso esercizio, nonchè per gravi scorrettezze commesse nei confronti del Procuratore della Repubblica di Pistoia e di altri colleghi della Procura.
Per i fatti di ingiurie ed aggressione, all’esito del procedimento cautelare, era stato disposto il trasferimento del P. ad altro ufficio, ma poichè era però in corso un procedimento penale, ciò aveva implicato la sospensione del procedimento disciplinare in attesa della definizione delle vicende in sede penale.
Quanto invece alle altre contestazioni relative ai rapporti di ufficio, la Sezione Disciplinare aveva pronunciato la sentenza n. 113/2018, divenuta poi definitiva, con la condanna dell’incolpato alla sanzione della censura nonchè alla sanzione accessoria del trasferimento dalla Procura della Repubblica di Pistoia al Tribunale di Spoleto.
Emergeva quindi un quadro deontologico gravemente compromesso, soprattutto ove fossero state confermate anche le contestazioni per le quali il procedimento disciplinare risultava ancora sospeso.
3. Avverso la sentenza disciplinare è stato proposto ricorso per cassazione da P.L. sulla base di quindici motivi. Il ricorrente, in prossimità dell’udienza ha depositato memoria contenente tre motivi aggiunti.
4. Il ricorso è stato quindi esaminato in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Va pregiudizialmente dichiarata l’inammissibilità dei motivi nuovi ex art. 585 c.p.c., comma 4, formulati dal ricorrente. Atteso che in materia di procedimento disciplinare a carico degli appartenenti all’ordine giudiziario il regime delle impugnazioni risulta caratterizzato dall’applicazione delle norme processuali penali, quanto alla fase introduttiva del giudizio (con conseguente assoggettamento del ricorso per cassazione esperibile avverso la sentenza della Sezione Disciplinare del C.S.M. al principio di tipicità dei motivi di ricorso (v. Cass., Sez. Un., 9/6/2017, n. 14430; Cass., Sez, Un., 13/9/2011, n. 18701; Cass., Sez. Un., 24/9/2010, n. 20159), e delle norme processuali civili, quanto al suo svolgimento, il quale inizia con gli incombenti previsti all’art. 377 c.p.c. (cfr. Cass., Sez. Un., 18/4/2019, n. 10935; Cass., Sez. Un., 12/6/2017, n. 14550; Cass., 5/10/2007, n. 20844), va osservato come si sia da questa Corte già avuto modo di escludere la possibilità di presentare motivi nuovi o aggiunti rispetto a quelli già formulati e che prospettino censure nuove e diverse da quelle già originariamente introdotte con il ricorso (v. Cass. S.U. n. 15110/2021; Cass. S.U. n. 27741/2019; Cass., 16/5/2016, n. 9993; Cass., S.U., 22/2/2012, n. 2568; Cass., S.U., 10/3/2005, n. 5207; Cass., S.U. pen., 20/4/1998, n. 4683; Cass., S.U., 9/8/1990, n. 8098).
Determinando la proposizione del ricorso per cassazione la consumazione del diritto d’impugnazione, con particolare riferimento ai nuovi motivi di impugnazione ex art. 585 c.p.p., comma 4, si è al riguardo da questa Corte precisato che essi non possono avere ad oggetto nuove ragioni – sia di fatto che di diritto – di censura rispetto a quelle tempestivamente introdotte, dovendo essere meramente integrative e chiarificatrici di quelle già formulate, e palesare una necessaria inerenza o connessione funzionale con temi specificati nei capi e punti della decisione investiti con l’impugnazione (già) proposta (v. Cass., 24/9/2015, n. 18897; Cass. pen., 30/10/2014, n. 45075; Cass. pen., 5/5/2014, n. 18293; Cass. pen., 1171/2013, n. 1417), a tale stregua non potendo essi valere a sanare i vizi originari che rendono il ricorso inammissibile (v. Cass. pen., 6/3/2019, n. 9837; Cass. pen., 16/12/2016, n. 53630; Cass. pen., 28/1/2015, n. 4184).
Pertanto, i “motivi nuovi” nella specie formulati dal ricorrente potranno essere presi in esame, nei limiti in cui gli stessi costituiscano mere illustrazioni e chiarimenti delle censure originariamente dedotte nel ricorso, delle quali possono al più rappresentare mere integrazioni (cfr. da ultimo, Cass. S.U. n. 15110/2021).
2. Con il primo motivo il ricorrente deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, in relazione agli artt. 187,192,238 bis, 536 e 546 c.p.p.; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene all’accertamento e la ricostruzione dei fatti oggetto di addebito disciplinare, nonchè la valutazione delle prove assunte a sostengo della condanna.
Si deduce che la decisione gravata ha posto a fondamento del suo esito unicamente la pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione all’esito del giudizio penale che ha visto coinvolto il ricorrente per i medesimi fatti.
In primo luogo, si è fatto riferimento ad una pronuncia del giudice di legittimità, e per di più di annullamento senza rinvio della condanna penale per intervenuta prescrizione dei reati, e ciò ha implicato un’omessa disamina nel merito della vicenda. In tal modo è stata erroneamente affermata la cristallizzazione dell’accertamento dei fatti come appurati nel processo penale. Tuttavia, se il giudice di legittimità chiamato a pronunciarsi in sede penale aveva dei limiti all’accertamento dei fatti insiti nelle peculiarità del giudizio di cassazione, ciò non precludeva al giudice disciplinare di dover esaminare il merito della vicenda. Va altresì aggiunto che uno dei reati inizialmente contestati al P. era già stato dichiarato estinto per prescrizione in appello, e sui relativi fatti quindi la Suprema Corte non si è mai pronunciata, così che ove la Sezione Disciplinare si fosse avvalsa della sentenza della Corte d’Appello avrebbe violato il precetto di cui all’art. 238 bis c.p.p..
In sede disciplinare alcuna altra prova dei fatti è stata acquisita al di fuori del contenuto della sentenza penale richiamata in motivazione, essendo invece dovere dei giudici disciplinari quello di vagliare anche gli altri elementi di prova acquisiti o da acquisire in sede disciplinare.
Il secondo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, in relazione agli artt. 648 e 653 c.p.p., nonchè del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 20; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla valutazione della portata del giudicato penale nel giudizio disciplinare.
La sentenza impugnata ha attribuito al giudicato formatosi in sede penale un’efficacia vincolante in sede disciplinare per quanto attiene all’accertamento della sussistenza del fatto ed all’affermazione della responsabilità dell’imputato per averlo commesso, che può essere attribuita solo in caso di giudicato penale di condanna.
Nella specie la Corte di Cassazione aveva pronunciato una sentenza irrevocabile di proscioglimento con declaratoria di estinzione dei reati contestati, il che non attribuiva alcuna efficacia vincolante alla relativa decisione.
I giudici disciplinari, violando i basilari principi in tema di separazione tra processo penale e disciplinare, hanno ravvisato un automatismo tra quanto accertato in sede penale e quanto oggetto di verifica in sede disciplinare, omettendo di rinnovare la doverosa attività di accertamento e complessiva valutazione dei fatti.
Il terzo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla verifica della ricorrenza degli elementi costitutivi dell’addebito disciplinare.
Nella specie, il P. è stato condannato per l’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 4, comma 1, lett. d), e quindi la condanna avrebbe presupposto un autonomo accertamento della sussistenza dell’ipotizzato fatto di reato e della sua commissione.
Di tale accertamento però non vi è traccia nella pronuncia impugnata, avendo aderito, in quanto reputata vincolante, alla ricostruzione dei fatti operata in sede penale, e senza procedere ad alcuna ulteriore attività istruttoria.
Alcun cenno vi è in motivazione ad una serie di elementi di carattere probatorio addotti dal ricorrente in sede disciplinare che avrebbero dovuto diversamente orientare la decisione e che avrebbero in ogni caso permesso di attribuire una diversa valenza alla condotta tenuta dal ricorrente in occasione dei fatti di causa, tale da ridurre o addirittura azzerare il disvalore della vicenda.
Manca una presa di posizione sulla controdenuncia presentata dal P., così come immotivata è la valutazione in merito alla idoneità della condotta sanzionata a ledere l’immagine del ricorrente, essendo non convincenti gli argomenti invece addotti dalla sentenza al riguardo.
Il quarto motivo deduce la mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla pretesa sussistenza della responsabilità disciplinare senza alcuna valutazione della ricostruzione alternativa dei fatti offerta dalla difesa, nonchè travisamento per omissione delle dichiarazioni rese dall’imputato nel corso del suo esame dibattimentale e delle altre prove addotte dalla difesa.
La sentenza impugnata ha disapplicato i principi generali che governano la valutazione della prova nel processo penale e di riflesso nel giudizio disciplinare.
Facendo richiamo al principio del libero convincimento, non si è dato conto dei risultati raccolti, trascurando di dare rilievo agli elementi probatori addotti dall’incolpato.
Inoltre, risulta violato il principio del contraddittorio atteso il silenzio serbato in merito alla alternativa ricostruzione della vicenda suggerita dalla difesa del ricorrente.
Il quinto motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, in relazione agli artt. 190 e 495 c.p.p.; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 2, ex art. 606 c.p.p., lett. c); mancata assunzione di prove ritenute decisive ex art. 606 c.p.p., lett. d), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla mancata ammissione (e conseguente assunzione) delle prove a discarico richieste dall’incolpato sui fatti addebitatigli.
Si ricorda che in sede disciplinare aveva articolato puntuali e tempestive richieste di prova che sono state rigettate assumendosi laconicamente che fossero irrilevanti ai fini del decidere, ma senza adeguatamente specificare le ragioni di tale giudizio.
Il sesto motivo deduce l’inosservanza, ex art. 606 c.p.p., lett. c), di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità ed in particolare l’inutilizzabilità degli atti di indagine impiegati per la decisione (mai oggetto di provvedimento acquisitivo nel corso dell’udienza), per violazione del combinato disposto tra il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 3, lett. b), e comma 4, e gli artt. 511, 514 e 526 c.p.p..
Attesa la mancata assunzione delle prove richieste dal ricorrente, la sentenza gravata si è fondata sulla mera arida piattaforma probatoria costituita dagli atti unilateralmente precostituiti al di fuori del giudizio e contenuti nel fascicolo di istruzione del Procuratore Generale, il tutto senza che tale materiale fosse stato accompagnato da un espresso provvedimento di acquisizione come invece imposto dalle norme di rito.
Il settimo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene il non riconoscimento della scarsa rilevanza del fatto.
La sentenza gravata ha negato l’esimente di cui all’art. 3 bis, dando rilievo alla rilevanza penale del fatto contestato, quasi a negare la stessa ammissibilità che l’esimente possa essere riconosciuta sol perchè l’illecito consiste nella commissione di un fatto anche costituente reato.
Inoltre, manca una precisa indicazione delle ragioni in base alle quali il fatto deve essere considerato grave, trascurandosi il notevole lasso di tempo trascorso tra la data cui risalgono i fatti e quella della decisione e senza tenere conto del successivo percorso professionale del ricorrente.
L’ottavo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 5 e 12; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene al trattamento sanzionatorio principale riservato all’incolpato.
Al ricorrente è stata applicata la sanzione più grave, esclusa quella della rimozione, tra le sanzioni disciplinari, e precisamente la sospensione dalle funzioni nella misura massima consentita dalla legge (due anni). E’ stato apoditticamente affermato che nessuna altra sanzione meno afflittiva sarebbe proporzionata ai fatti contestati, senza chiarire da quali elementi sia stato tratto questo convincimento.
A tal fine si richiamano altri precedenti disciplinari per vicende analoghe che hanno visto l’irrogazione di una sanzione di minore gravità.
Appare erroneo il richiamo alla diversa sanzione applicata in occasione della sentenza disciplinare emessa in danno del P. per gli stessi fatti e poi annullata dalla Suprema Corte, trattandosi di pronuncia ormai inesistente.
Infine, la valutazione della personalità dell’incolpato è stata fatta omettendo di considerare alcuni profili emergenti dal percorso professionale del ricorrente, valorizzando in negativo solo alcuni precedenti disciplinari.
Il nono motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), dell’art. 27 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., per avere la Sezione Disciplinare tratto elementi decisivi da un procedimento penale ancora in corso di fronte al Tribunale di Parma.
Al fine di offrire un’immagine distorta della personalità dell’incolpato, la sentenza impugnata ha fatto riferimento ad un processo penale che interessa il P., ancora non definito, riferendo circostanze che in realtà non emergono dalle contestazioni mosse in sede penale e traendo elementi negativi da un processo ancora non concluso in violazione del principio di non colpevolezza.
Il decimo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene al trasferimento d’ufficio irrogato a titolo di sanzione accessoria. La sentenza ha motivato la decisione di trasferire il ricorrente al Tribunale di Enna, facendo richiamo al carattere obbligatorio di tale misura accessoria, ritenendo che solo quel Tribunale sufficientemente distante dal luogo dell’illecito (*****), potesse assicurare la proficuità della misura.
Occorre però tenere conto che l’illecito per il quale è intervenuta condanna risale ad oltre dieci anni addietro, e che il ricorrente ha già provveduto ad un primo trasferimento di sede, sicchè il successivo trasferimento ad Enna sarebbe oltremodo foriero di sacrificio per il P. e la sua famiglia. Infine, appare oltre modo penalizzante e priva di giustificazione la previsione che al trasferimento debba accompagnarsi il cambio delle funzioni a giudice civile, attesi i trascorsi professionali esclusivamente penalistici del ricorrente.
L’undicesimo motivo deduce l’inosservanza o erronea applicazione, ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 1 e 12, nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per avere omesso in radice di formulare una valutazione complessiva della personalità dell’incolpato avuto riguardo al suo curriculum vitae ed al suo stato di servizio.
La Sezione Disciplinare avrebbe potuto agevolmente verificare quale era il curriculum professionale del ricorrente, mentre la valutazione di scarso equilibrio è frutto di una ipervalutazione di un episodio isolato, non seguito da altri analoghi nel corso degli anni, sebbene l’impegno lavorativo del P. fosse stato sempre improntato al soddisfacimento delle esigenze dell’ufficio ed al servizio della collettività.
Il dodicesimo motivo deduce l’improcedibilità D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 18, comma 4, e art. 649 c.p.p. dell’azione disciplinare in ragione del precedente esercizio della medesima nel diverso procedimento avente ad oggetto gli stessi fatti contestati in questa sede, con la violazione di norma processuale prevista a pena di inammissibilità ex art. 606 c.p.p., lett. c).
La sentenza impugnata, pur dando atto delle vicende disciplinari che avevano interessato il P. per gli stessi fatti, e ricordando come una prima condanna disciplinare fosse stata cassata senza rinvio dal giudice di legittimità, assume che nella sentenza impugnata la Sezione Disciplinare si sia pronunciata per la seconda volta sugli stessi fatti, il che ha determinato una palese violazione del principio del ne bis in idem.
Il tredicesimo motivo denuncia il difetto di giurisdizione del Giudice disciplinare con la violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 20 e 18, avuto riguardo all’art. 653 c.p.p., nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), sul punto della mancata contestuale sospensione e/o riattivazione dei due procedimenti disciplinari nonostante essi, al pari dei due correlati procedimenti penali, avessero ad oggetto i medesimi fatti.
Si ricorda che il P. è stato interessato da due diversi procedimenti disciplinari relativi ai medesimi fatti storici ed erroneamente non sono stati entrambi sospesi.
Altrettanto erroneamente dopo la sentenza di condanna in sede penale emessa dal Giudice di Pace è stato riattivato uno dei due procedimenti disciplinari, e ciò sebbene il ricorrente avesse avanzato una richiesta di sospensione.
Ciò ha determinato una violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 15,20 e 25, trascurandosi che già pendeva un primo procedimento disciplinare, correttamente sospeso.
Il quattordicesimo motivo denuncia l’inosservanza e/o erronea applicazione ex art. 606 c.p.p., lett. b), del D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 6, e degli artt. 17 e 19 c.p.p.; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.c., lett. c), nonchè mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla mancata riunione dei procedimenti penali e disciplinari.
La decisione impugnata ha omesso di motivare circa il fatto che sia in sede penale che disciplinare siano stati azionati due autonomi procedimenti, senza sanare tale vizio processuale e ciò ha implicato un’indebita duplicazione di giudizi.
Il quindicesimo motivo denuncia l’inosservanza e/o erronea applicazione ex art. 606 c.p.p., lett. b), dell’art. 6 par. 1 e artt. 2 e 8 della CEDU; inosservanza della norma processuale stabilita a pena di nullità dell’art. 125 c.p.p., comma 3, ex art. 606 c.p.c., lett. c); nonchè mancanza di motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e), per quanto attiene alla iniquità della procedura disciplinare, dell’ingiusto condizionamento dei processi penali, anche non definiti, sul giudizio disciplinare, dell’eccessiva durata del processo disciplinare, dell’eccessiva severità della sanzione irrogata per i riflessi sulla vita privata e professionale del magistrato, dell’indebito impatto della condanna disciplinare sulle future valutazione di professionalità del magistrato da parte di componenti del CSM che hanno già preso parte alla pronuncia impugnata.
Si richiama la durata ultradecennale del procedimento disciplinare per scelte addebitabili alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione ed alle autorità giudiziarie penali, il che ha determinato una lesione dei diritti garantiti dalla CEDU. Inoltre, la condanna impugnata ha tratteggiato in maniera negativa la personalità del ricorrente con inevitabile pregiudizio sulle future sue valutazioni di professionalità.
2.1 Nella memoria si specifica che vi sarebbe invalidità della sentenza e del procedimento dinanzi alla Sezione disciplinare del CSM per la violazione dell’art. 6p.1 CEDU, dei principi di equità della procedura, di parità delle armi, di autonomia ed imparzialità del giudizio sotto plurimi aspetti.
In particolare, si evidenza che il procedimento disciplinare è stato iniziato nel 2010 per essere affiancato nel 2011 da altro procedimento disciplinare, che è stato poi interessato da una pronuncia di annullamento della relativa decisione in sede di legittimità.
Le procedure sono state quindi connotate da decisioni ed atti di impulso irrazionali ed immotivati, e denotano una loro anomala parcellizzazione, vanificando in tal modo il buon andamento delle procedure.
Il tutto si è accompagnato alla mancata presa in esame delle richieste di carattere istruttorio del ricorrente, che ha determinato una decisione finale assunta in palese violazione del principio del contraddittorio, della parità delle armi.
Inoltre, si evidenzia che nel corso della lunga durata del procedimento disciplinare, il ricorrente è stato contestualmente oggetto di valutazioni di professionalità e di procedure di tramutamento, da parte dello stesso organo cui è assegnata la decisione disciplinare, il che ha accresciuto i dubbi circa la parzialità delle decisioni anche emesse in sede amministrativa. Inoltre, il principio della parità delle armi sarebbe compromesso anche dall’anomalo ruolo assunto dalla Procura Generale che ha promosso l’azione disciplinare, ed il cui rappresentante ha al contempo preso parte anche alle decisioni relative al trasferimento o alle progressioni in carriera dal ricorrente.
Si denuncia altresì l’annullabilità della sentenza e del procedimento della sezione disciplinare del CSM per la violazione dell’art. 6p.2 della CEDU nella sua applicabilità a procedimenti ulteriori rispetto a quelli penali presupposti, con la violazione della presunzione di non colpevolezza nel procedimento disciplinare, nel quale sono confluiti dati ed informazioni solo in malam partem, provenienti da molti altri procedimenti eterogenei anche penali sia precedenti che successivi, sia pendenti che archiviati e che hanno concorso a chiari passaggi motivazionali della decisione finale.
Si assume che il procedimento che ha visto coinvolto il Dott. P. denota gravi dubbi in ordine a “pregiudicatezza”, influenzabilità, condizionamento tra processi, fascicoli, informazioni di rilievo disciplinare, essendo in particolare stata disattesa la richiesta di rivalutare in via autonoma i fatti contestati, e ciò nonostante fosse intervenuta sentenza finale di proscioglimento in sede penale.
Inoltre, la valutazione del ricorrente è stata compromessa da un pregiudizio correlato ai procedimenti disciplinari nei quali è stato coinvolto, e non solo per quelli passati ma anche per quelli futuri, e precisamente per quelli successivi al 2010.
La decisione quindi ha prescisso dall’oggettività dei fatti ed ha investito la persona del ricorrente, come si ricava anche dalla incongruità della sanzione irrogata, e prescindendo del tutto dai ben diversi esiti che hanno avuto le valutazioni di professionalità alle quali il Dott. P. è stato nelle more sottoposto.
Peraltro, sebbene la Sezione disciplinare avesse a sua disposizione tutti i dati concernenti i precedenti disciplinari del ricorrente, è stata disattesa la riunione di alcuni addebiti, con un’evidente disparità di trattamento.
Ancora si denuncia l’annullabilità della sentenza e del procedimento della Sezione disciplinare del CSM per violazione dell’art. 8 della CEDU avendo il procedimento ed il suo esito rappresentato un’ingerenza sulla reputazione, la vita privata familiare e professionale del ricorrente, con caratteri di sproporzione e di sbilanciamento rispetto agli scopi per i quali era stato avviato.
La procedura è stata lacunosa e poco celere e non ha arrestato il flusso di onta sull’incolpato che lo ha preceduto e travolto.
Si lamenta l’eccessiva durata della procedura e si sottolinea che la sentenza, in quanto correlata a fatti risalenti ad oltre dieci anni prima, non tiene conto degli esiti penali delle vicende, e soprattutto non si confronta con l’evoluzione della carriera del ricorrente che appare specchiata.
Infine, si evidenzia che la sanzione è sproporzionata in quanto il trasferimento ad Enna e con la previsione del cambio delle funzioni determinerà per il ricorrente, che ha sempre svolto funzioni penali, un’incidenza sulla sua produttività, con ripercussioni anche sul buon andamento della giustizia.
3. Ragioni di ordine logico impongono la preventiva disamina dei motivi principali da 12 a 15, come integrati dalle osservazioni mosse nei primi due cc.dd. motivi aggiunti, i quali mirano nel loro insieme a mettere in discussione la sopravvivenza della potestas iudicandi in capo al giudice disciplinare per effetto delle vicende penali, e di riflesso disciplinari, scaturenti dai fatti oggetto di causa.
Come riportato nelle ragioni in fatto della decisione, il presente procedimento disciplinare scaturisce dall’iniziativa del Procuratore Generale, conseguente all’esercizio dell’azione penale per i fatti oggetto di causa, dandosi vita al procedimento n. 120/2010 D, e ciò a seguito della comunicazione di inizio del procedimento penale (n. 2268/2010 mod. 21) presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona.
Tale procedimento è stato sospeso D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 15, per essere poi riattivato una volta pronunciatasi in sede penale la Corte di Cassazione penale con la sentenza n. 4936/2020.
Tuttavia, a seguito di querela presentata dai pubblici ufficiali intervenuti nella notte del *****, la medesima Procura della Repubblica di Ancona ha iscritto altro procedimento penale (n. 1281/2010 mod. 21 bis) per il reato di ingiurie di competenza del Giudice di Pace, cui si correlava altro procedimento disciplinare (n. 68/2011 D).
Quest’ultimo procedimento disciplinare è stato oggetto della sentenza n. 102/2015 della Sezione Disciplinare del CSM, che aveva inflitto la perdita di sei mesi di anzianità al ricorrente, ma tale sentenza è stata poi cassata senza rinvio dalla pronuncia di queste Sezioni Unite n. 15289/2016, che ha rilevato l’improcedibilità della seconda azione disciplinare per la violazione del principio del ne bis in idem, stante “l’unicità del contesto storico” in cui le condotte illecite erano state commesse.
La sentenza impugnata nel replicare alla analoga eccezione sollevata dal ricorrente in sede disciplinare, secondo cui la decisione già emessa da questa Corte con la sentenza da ultimo citata, avrebbe precluso la possibilità di celebrare il presente giudizio disciplinare, è stata disattesa rilevando che, incontestata l’identità dei fatti storici oggetto dei due procedimenti penali, dai quali erano scaturiti altrettanti procedimenti disciplinari, ed anche a voler ravvisare un errore nella mancata riunione degli stessi, era però impossibile pervenire alla conclusione auspicata dal ricorrente, posto che quello in esame è il primo procedimento disciplinare attivato, e l’applicazione della regola del ne bis in idem aveva correttamente determinato l’invalidità della decisione adottata all’esito del secondo procedimento disciplinare, restando quindi possibile pervenire alla decisione sul primo.
Ritiene la Corte che la decisione del giudice disciplinare sia incensurabile.
Queste Sezioni Unite con la sentenza n. 15289/2016 hanno appurato che l’azione disciplinare che aveva dato avvio al procedimento concluso con la sentenza in quella sede impugnata aveva ad oggetto i medesimi fatti già investiti dall’azione disciplinare promossa in data 8 ottobre 2010 (che è invece il procedimento ora all’esame di questa Corte), traendo da tale identità la conseguenza che l’azione disciplinare di cui al presente giudizio non poteva essere promossa, per effetto della preclusione determinata, in applicazione del principio generale del ne bis in idem, dalla consumazione del potere già esercitato.
Trattasi di conclusione che si pone come piana applicazione dei principi affermati dalle Sezioni penali di questa Corte in tema di ne bis in idem in materia penale (principi suscettibili di applicazione in sede disciplinare atteso il richiamo operato dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4), secondo cui (Cass. pen. S.U. n. 34655 del 28/06/2005) non può essere nuovamente promossa l’azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo già sia pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del P.M., di talchè nel procedimento eventualmente duplicato dev’essere disposta l’archiviazione oppure, se l’azione sia stata esercitata, dev’essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. La non procedibilità consegue alla preclusione determinata dalla consumazione del potere già esercitato dal P.M., ma riguarda solo le situazioni di litispendenza relative a procedimenti pendenti avanti a giudici egualmente competenti e non produttive di una stasi del rapporto processuale, come tali non regolate dalle disposizioni sui conflitti positivi di competenza, che restano invece applicabili alle ipotesi di duplicazione del processo innanzi a giudici di diverse sedi giudiziarie, uno dei quali è incompetente (conf. Cass. Pen. 25640 del 21/05/2008; Cass. Pen. 17252 del 20/02/2020). La cassazione della relativa sentenza, con la conseguente declaratoria di improcedibilità del giudizio successivamente azionato, comporta, come correttamente evidenziato dalla sentenza impugnata, che debba darsi seguito al processo preveniente e che l’erronea attivazione del successivo procedimento trovi adeguata sanzione nella assunta pronuncia di improcedibilità, la quale definisce in rito il secondo processo e senza alcuna valutazione del merito dei fatti contestati, il che esclude che tale statuizione possa avere una portata preclusiva quanto alla decisione sul primo procedimento disciplinare, riattivato una volta intervenuta la definizione del giudizio penale.
Quanto alle altre doglianze del ricorrente, occorre rilevare che la sospensione per la contestuale pendenza del processo penale per i medesimi fatti è imposta dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, comma 8, lett. a), (così Cass. S.U. n. 9277/2020, essendosi altresì precisato che – Cass. S.U. n. 25971/2016 – laddove sia stata adottata l’ordinanza di sospensione del procedimento disciplinare fino alla definizione di quello penale, per i medesimi fatti, a carico dell’incolpato, per i procedimenti cui si applichi il nuovo c.p.p., si deve negare che siano ipotizzabili profili di abnormità anche ove sia disposta erroneamente, determinando quest’ultima una stasi procedimentale solo temporanea, e non definitiva).
La durata eccessiva del processo penale, che ha implicato la sospensione del procedimento disciplinare per il tempo della sua durata, potrà eventualmente legittimare altri rimedi a favore della parte che si dolga di tale eccesiva protrazione dei tempi del processo, ma non può di per sè incidere sulla correttezza e legittimità della decisione adottata.
Come del pari l’errore denunciato circa la mancata riunione dei due procedimenti penali e dei due provvedimenti disciplinari aperti per i medesimi fatti ha trovato adeguata sanzione processuale nella declaratoria di improcedibilità adottata da queste Sezioni Unite nei confronti della prima sentenza di condanna emessa in sede disciplinare.
Del tutto generiche risultano poi le deduzioni quanto alle pretese violazioni delle norme CEDU, in quanto la denuncia non individua specifiche condotte e comportamenti che avrebbero determinato la violazione delle norme indicate nella rubrica dei motivi, risolvendosi la critica in una radicale contestazione dello stesso sistema della giustizia disciplinare dei magistrati, la cui conformità ai principi costituzionali è già stata affermata in passato da questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 13532/2006, che ha ritenuto manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3,24,28,111 e 112 Cost., sotto il profilo della terzietà, imparzialità ed indipendenza dell’organo giudicante, la questione di legittimità costituzionale delle norme che regolano la Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, nella parte in cui prevedono che in essa siano presenti solo due componenti laici, mentre gli altri componenti sono chiamati a giudicare i propri elettori, atteso che l’origine elettiva di essi non crea alcun rapporto di dipendenza con le parti in causa, sia perchè la composizione collegiale dell’organo giudicante esclude qualsiasi attentato all’imparzialità nei confronti del magistrato elettore sottoposto a giudizio disciplinare, con riferimento alla sua eventuale appartenenza alle diverse correnti in cui si divide l’Associazione Nazionale Magistrati, sia perchè l’assoluta indipendenza del collegio rispetto ai titolari dell’azione disciplinare ne garantisce pienamente l’autonomia, non potendo la posizione funzionale del magistrato giudicante temere alcun pregiudizio in dipendenza dell’atteggiamento da lui tenuto nell’esercizio dell’attività di componente della Sezione Disciplinare).
Peraltro, come di recente ribadito da Cass. S.U. n. 11295/2021, secondo la stessa Corte EDU (come ad esempio emerge dalla sentenza resa in data 9 luglio 2013 nel ricorso n. 51160/2006 Di Giovanni contro la Repubblica italiana) l’attribuzione ad un organo interno alla magistratura della competenza a decidere in merito a illeciti disciplinari non viola in sè la Convenzione, e ciò in quanto la Sezione disciplinare del CSM costituisce un “organo giudiziario di piena giurisdizione” (citando, a contrario, Diennet c. Francia, 26 settembre 1995 p. 34, e Olujic c. Croazia, 5 febbraio 2009, p. 44).
Infatti, in base ai criteri dettati dalla stessa giurisprudenza della Corte EDU, deve ritenersi che la Sezione disciplinare sia organo “indipendente” e “imparziale” ai sensi dell’art. 6p.1 della Convenzione.
Le modalità di designazione e la durata del mandato dei componenti, nonchè l’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne, assicurano l’indipendenza e l’imparzialità dell’organo giudicante, attesa l’impossibilità di rimozione dei singoli componenti per tutta la durata del mandato, l’assenza di un legame di dipendenza gerarchica o di altro tipo ai loro pari, la loro elezione a scrutinio segreto (p. 57).
Deve quindi confermarsi che, proprio alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il diritto interno italiano presenta delle garanzie sufficienti in materia di indipendenza dei componenti della sezione disciplinare nell’esercizio delle loro funzioni.
Tali considerazioni rendono altresì evidente come non sia pertinente il richiamo al precedente della CEDU Oleksandr Volkov C. Ukraine n. 21722/11 del 9/1/2013, che ha ravvisato gravi problemi sistemici per quanto riguarda il funzionamento dell’ordinamento giudiziario ucraino, ed in particolare perchè il sistema della disciplina giudiziaria non garantiva una sufficiente separazione del potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, e non prevedeva delle garanzie adeguate contro l’abuso e l’uso abusivo delle misure disciplinari a danno dell’indipendenza del potere giudiziario. avrebbe pertanto necessario che lo Stato convenuto adotti delle misure generali finalizzate a riformare il sistema della disciplina giudiziaria, carenza che invece non si palesano per il sistema italiano della giustizia disciplinare dei magistrati.
Quanto alle altre doglianze, manca l’individuazione di quali elementi istruttori noti alla Procura Generale siano stati taciuti e non messi a disposizione della difesa e dell’organo giudicante, essendo quindi le doglianze meramente ipotetiche, e non trovando alcuna conferma in fatto la denuncia circa l’indebita presenza ed influenza dell’organo dell’accusa all’interno del CSM, quanto alla disamina delle diverse procedure che hanno interessato il ricorrente.
Tanto meno appare configurabile un’influenza in malam partem delle vicende disciplinari che hanno coinvolto il P., diverse da quelle oggetto del presente procedimento, posto che alle stesse si è fatto riferimento, e con le cautele correlate alla non definitività dei relativi esiti, solo ai fini di una valutazione del ricorrente, in vista dell’adeguata commisurazione della sanzione, essendo ben presente nella Sezione giudicante il carattere di non definitività dell’accertamento dei fatti in quella diversa sede contestati.
In tal senso si palesano parimenti generiche le affermazioni del ricorrente quanto alla parzialità dell’organo giudicante, al condizionamento che avrebbe subito il proprio procedimento, essendo la durata della procedura invece frutto della corretta applicazione delle norme in tema di rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare allorchè gli stessi siano interessati dai medesimi fatti storici.
Non si palesa quindi la ricorrenza di violazioni di sistema delle norme convenzionali, ma la denuncia investe nel complesso l’esistenza di pretesi errores in procedendo ovvero in iudicando commessi dal giudice disciplinare, errori la cui denunciabilità è adeguatamente assicurata dalle ordinarie regole di impugnazione delle decisioni disciplinari, e sulla base delle norme di diritto interno.
Va poi ricordato che (cfr. Cass. S.U. n. 20028/2018) non sussiste un obbligo di diretta applicazione delle norme della Convenzione da parte dei giudici nazionali, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, atteso che la CEDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli stati contraenti, configurandosi piuttosto come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico nazionale in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme direttamente vincolanti per le autorità interne, così che non è ammissibile la diretta denuncia di violazione di una norma della Convenzione quale vizio rilevante ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b), potendosi semmai invocare la norma convenzionale o come criterio interpretativo di una norma nazionale direttamente applicabile, o quale norma interposta, ai sensi dell’art. 117 Cost., che giustifichi il dubbio di incostituzionalità della norma nazionale. Nelle deduzioni sviluppate nella memoria non si fa riferimento alla violazione di alcuna norma o principio normativo dell’ordinamento giuridico italiano, ricavabile in via di interpretazione “convenzionalmente” orientata o contrastante con i principi di cui all’art. 6 CEDU.
4. Evidenti ragioni di connessione impongono la disamina congiunta dei primi sei motivi di ricorso.
Come correttamente ricordato dalla sentenza impugnata la sezione penale di questa Corte, con la sentenza n. 4936 del 2020, hanno annullato senza rinvio la condanna emessa in grado di appello nei confronti del ricorrente per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni volontarie (essendosi già dichiarata la prescrizione con precedente sentenza per il reato di guida in stato di ebbrezza), in ragione dell’intervenuta prescrizione dei reati, non senza però aver prima disatteso tutti i motivi di ricorso proposti.
Si tratta quindi di sentenza che ha applicato la prescrizione ed alla quale effettivamente non è dato annettere efficacia di giudicato vincolante, quanto all’accertamento dei fatti anche in sede disciplinare.
A tal fine va richiamato il principio affermato da Cass. S.U. n. 1768/2011 che, risolvendo il contrasto insorto nella giurisprudenza di questa Corte, ha affermato che, in tema di giudicato, la disposizione di cui all’art. 652 c.p.p., cosi come quelle degli artt. 651, 653 e 654 dello stesso codice, costituisce un’eccezione al principio dell’autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è, pertanto, applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima), ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente; ne consegue, altresì, che, nel caso da ultimo indicato, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in cointestazione (in senso conforme si veda ex multis Cass. n. 21299/2014 che specifica che, poichè non sempre la prescrizione importa l’accertamento della sussistenza del fatto materiale costituente reato, in tale ipotesi, il giudice civile deve procedere autonomamente all’accertamento ed alla valutazione dei fatti; Cass. n. 9358/2017; Cass. n. 14570/2017).
Può quindi ribadirsi che (cfr. Cass. n. 22200/2010) il giudice civile può utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale, già definito, ancorchè con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede e sottoponendoli al proprio vaglio critico, mediante il confronto con gli elementi probatori emersi nel giudizio civile, ma a tal fine non è tenuto a disporre la previa acquisizione degli atti del procedimento penale e ad esaminarne il contenuto, qualora, per la formazione di un razionale convincimento, ritenga sufficiente le risultanze della sola sentenza.
Tali principi sono stati poi riaffermati proprio in materia di procedimento disciplinare riguardante magistrati da Cass. S.U. n. 18264/2019 secondo cui l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali di dichiarazione dell’estinzione dei reati per prescrizione, pur non essendo vincolante in sede disciplinare, va necessariamente valorizzato allorquando tutte Ric. 2020 n. 32082 sez. SU – ud. 08-06-2021 -31-
le sentenze di merito siano giunte a conclusioni conformi quanto all’accertamento delle condotte contestate all’odierno incolpato, con la sola eccezione di un’assoluzione.
In tal caso può addivenirsi alla conclusione che il quadro probatorio che ne risulta sia pienamente consolidato e tale da non consentire alcun tipo di ipotesi assolutoria, mentre le prove di colpevolezza acquisite e riportate nelle sentenze penali ne fanno elementi pienamente utilizzabili in sede disciplinare secondo quanto previsto dal R.D.Lgs. n. 511 del 1946, art. 34, nonchè dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 3 e art. 32 bis.
Ritiene la Corte che tale giudizio di condivisione e valutazione autonoma degli esiti degli accertamenti svolti in sede penale sia stata svolta anche nella sentenza in questa sede impugnata.
A pagina 6, al fine di escludere la fondatezza delle contestazioni in merito alla ricostruzione dei fatti, il giudice disciplinare ha fatto riferimento al giudizio già espresso dal giudice penale, rilevando come le analoghe contestazioni fossero state disattese anche dal giudice di legittimità, sebbene questi abbia poi annullato senza rinvio la condanna emessa, in ragione della maturate prescrizione.
Ne consegue che il riferimento ad una “cristallizzazione” dei fatti, come affermata nella sentenza impugnata, non rappresenta a ben vedere il frutto di un’erronea applicazione dei principi relativi all’efficacia della sentenza penale di prescrizione in sede civile o disciplinare, come sopra richiamati, ma costituisca una sintesi verbale per manifestare la condivisione del giudice disciplinare quanto all’apprezzamento dei fatti compiuto in sede penale ed emergente dalla sentenza del giudice di legittimità che aveva ampiamente motivato circa le ragioni per le quali le critiche del ricorrente in quella sede non apparivano in grado di attingere la correttezza della ricostruzione fattuale operata nelle sedi di merito.
Così individuata l’effettiva ratio della decisione gravata, si palesa in maniera evidente l’infondatezza dei primi tre motivi di ricorso, avendo la sentenza disciplinare proceduto alla rinnovata e doverosa attività di valutazione dei fatti, attribuendo non già efficacia di giudicato all’accertamento compiuto in sede penale, ma ritenendo che la ricostruzione ivi operata fosse pienamente condivisibile e che non trovasse adeguata smentita nelle censure mosse dal P..
L’adesione della Sezione disciplinare alla ricostruzione dei fatti emergente in sede penale fornisce contezza anche dell’infondatezza delle altre doglianze mosse nei successivi motivi di ricorso, i quali si palesano altresì generici, nella parte in cui, lamentando la mancata valutazione delle richieste istruttorie, omettono di indicare con precisione su quali circostanze specifiche vertessero, il che impedisce anche di poterne apprezzare la decisività. Analoghe considerazioni valgono in merito al richiamo al tenore della controdenuncia presentata dal P. (di cui non si riproduce con sufficiente precisione il contenuto), il quale anche in ricorso non riconduce la sua reazione a specifiche condotte illegittime o ingiuste della p.g., ponendo tale situazione come una mera ipotesi, e che in questi termini non scalfisce la valutazione resa sul punto dalla sentenza gravata, quanto alla condivisione degli accertamenti svolti in sede penale.
Peraltro anche nella sentenza che ha riconosciuto la prescrizione era stata disattesa un’analoga doglianza del ricorrente ricordandosi che la violazione del diritto di difesa, “sub specie” di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata, indicando specificamente le prove che l’imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell’imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, evidenziandosi che anche in quella sede non risultava indicata la decisività del mezzo di prova richiesto, rispetto a quanto non fosse probatoriamente emerso dal processo, nè erano state indicate le precise circostanze, sulle quali i testi dovevano essere chiamati a deporre e che sarebbero state determinanti rispetto ad un esito diverso del processo.
Anche la tesi della necessità di dare credito alla alternativa versione dei fatti del ricorrente ha trovato una risposta negativa nella sentenza di questa Corte che ha riconosciuto la maturazione della prescrizione.
L’avere poi aderito alla ricostruzione dei fatti operata in sede penale, ancorchè con una motivazione sintetica, che esclude però che alla stessa sia stata attribuita valenza di giudicato, consente altresì di disattendere la censura secondo cui la citata sentenza di questa Corte n. 4936/2020 non avrebbe riguardato anche il diverso reato di guida in stato di ebbrezza, atteso che il richiamo all’accertamento dei fatti come operato nei vari gradi di merito in sede penale consente di estendere la condivisione anche al reato per il quale era stata già dichiarata la prescrizione in appello, non senza trascurare che lo stato di ebbrezza in cui versava il P. in occasione della commissione dei reati ancora sub iudice in sede di legittimità, confortava l’attribuibilità del fatto ai fini disciplinari.
Infine, sempre l’adesione in chiave critica alla ricostruzione fattuale operata in sede penale, ed emergente dalle sentenze pronunciate in sede di merito, e ritenute immuni in sede di legittimità alle critiche mosse dal P., esclude che la pronuncia disciplinare si fondi sulla sola piattaforma probatoria rappresentata dagli atti contenuti nel fascicolo di istruzione del Procuratore Generale.
5. Anche il settimo motivo deve essere disatteso.
Come chiarito da Cass. S.U. n. 31058/2019, la norma di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, (secondo cui l’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza), è applicabile, sia per il tenore letterale della disposizione, che per la sua collocazione sistematica, a tutte le ipotesi previste negli artt. 2 e 3, medesimo decreto, anche quando la gravità del comportamento è elemento costitutivo del fatto tipico, e perfino quando integri la commissione di un reato.
A tal fine è però necessario procedere ad una valutazione d’ufficio, sulla base dei fatti acquisiti al procedimento e prendendo in considerazione le caratteristiche e le circostanze oggettive della vicenda addebitata, anche riferibili al comportamento dell’incolpato, purchè strettamente attinenti allo stesso, con giudizio globale diretto a riscontrare se l’immagine del magistrato sia stata effettivamente compromessa dall’illecito (Cass.” S.U., 31 marzo 2015, n. 6468; Cass., S.U., 5 giugno 2017, n. 13911; Cass., S.U., 10 settembre 2019, n. 22577).
In questa ottica la norma mira a far penetrare nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, per cui richiede un riscontro, in concreto ed ex post, della lesione del bene giuridico tutelato (tra le altre, Cass., S.U., 13 dicembre 2010, n. 25091), che, come detto, è da individuarsi, in particolare, nell’immagine, pubblica, del magistrato, ossia Ric. 2020 n. 32082 sez. SU – ud. 08-06-2021 -35-
nel prestigio di cui il medesimo deve godere nell’ambiente in cui lavora, e, in senso lato, nella “giustizia” (Cass., S.U., 8 ottobre 2018, n. 24672) e, quindi, nel “prestigio dell’ordine giudiziario” (Cass., S.U., 24 giugno 2010, n. 15314).
Il precedente richiamato (Cass. n. 31058/2019) ha altresì precisato che la valutazione necessaria ai fini dell’applicazione dell’art. 3 bis, impone di dover tener conto della consistenza della lesione arrecata al bene giuridico “specifico” (siccome tipizzato insieme all’illecito considerato dalla singola fattispecie legale) che, se apprezzabile in termini di grave offesa, verrà ad esaurire quel giudizio in termini di esclusione dell’esimente, ed altresì, ovvero, se l’offesa non sia apprezzabile o non lo sia in termini di gravità, se quello stesso fatto, che integra l’illecito tipizzato, abbia però determinato un’effettiva lesione dell’immagine, pubblica, del magistrato (imponendosi quindi una valutazione della “scarsa rilevanza del fatto”, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, su due piani distinti, ma comunicanti, là dove il bene giuridico protetto dalla previsione di un illecito tipizzato si distingua da quello dell’immagine del magistrato”, tutelato immediatamente dal citato art. 3 bis).
Resta però fermo l’apprezzamento della gravità della lesione del bene giuridico protetto (previsto dalla norma di tipizzazione dell’illecito disciplinare o più in generale tramite il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis) che deve avvenire nella dimensione effettuale determinata dal fatto costituente illecito disciplinare e, dunque, in concreto ed ex post e non già sulla base di una verifica in astratto ed ex ante (conf. Cass. S.U. n. 29823/2020).
Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata abbia puntualmente compiuto tale verifica, ritenendo che debba escludersi l’applicazione dell’esimente invocata sulla base di una duplice verifica di riscontro della gravità dell’illecito, sia in relazione al bene giuridico specificamente protetto dalla fattispecie sanzionatoria applicata, sia avuto riguardo alle ripercussioni sull’immagine ed il prestigio del magistrato, avendo fatto riferimento alla oggettiva ed elevata gravità dei fatti, commessi alla presenza di numerose persone, rivestenti la qualità di pubblici ufficiali, e che avevano avuto anche una ribalta mediatica negli organi di stampa locali.
6. Parimenti infondati sono i motivi da 8 ad 11.
E’ evidentemente inammissibile la censura che nel complesso mira a contestare la concreta individuazione della sanzione applicata, in relazione al giudizio di gravità dei fatti, come operata in concreto dal giudice disciplinare.
Questa Corte già in passato ha ribadito che (Cass. S.U. n. 27172/2006) in tema di responsabilità disciplinare dei magistrati la valutazione della gravità della condotta dell’incolpato, anche sotto il profilo della sua incidenza negativa sulla fiducia e considerazione di cui il magistrato deve godere o sul prestigio dell’ordine giudiziario, ed al fine dell’individuazione della sanzione da irrogare, rientra nell’ambito degli apprezzamenti di merito della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, e non può essere oggetto di riesame in sede di ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, restando sindacabili soltanto la correttezza e la congruità della motivazione adottata (conf. Cass. S.U. n. 16625/2007; Cass. S.U. n. 23677/2007; Cass. S.U. n. 18374/2009; Cass. S.U. n. 18302/2020).
La motivazione della sentenza impugnata, senza arrestarsi al solo raffronto con la sanzione irrogata con la precedente pronuncia, poi annullata in sede di legittimità, ha analiticamente richiamato i precedenti disciplinari del P., uno dei quali già definito ancor prima della commissione dei fatti oggetto di causa con sentenza irrevocabile di condanna alla sanzione dell’ammonimento, dando atto con puntualità di quelli non ancora definiti, e ricordando come era stata già applicata una misura cautelare consistente nel trasferimento dalla Procura della Repubblica di Pistoia al Tribunale di Spoleto, ed infine aggiungendo che, nelle more, l’illecito disciplinare concernente le gravi scorrettezze nei confronti del Procuratore della Repubblica di Pistoia e dei suoi colleghi della stessa Procura era stato definito con sentenza passata in giudicato, per effetto della quale alla censura si era accompagnata la sanzione accessoria del trasferimento al Tribunale di Spoleto. La sopravvenienza di una nuova condanna disciplinare, ove rapportata al quadro deontologico, ritenuto gravemente compromesso, in ragione anche delle sole decisioni disciplinari divenute definitive, ha quindi indotto la sentenza gravata a ritenere congrua la sanzione della sospensione dalle funzioni per anni due accompagnata al trasferimento ad altra sede, e precisamente al Tribunale di Ena con funzioni civili, conclusione questa che è supportata da una motivazione che si palesa logica, coerente ed immune de intime contraddizioni.
Peraltro, la puntuale ricostruzione del quadro disciplinare che ha riguardato il P. nel corso della sua carriera, con la puntualizzazione che per una contestazione (quella relativa ai fatti avvenuti in un pubblico esercizio di *****) ancora non si era addivenuti ad una statuizione di carattere definitivo, non consente di affermare che la determinazione della sanzione sia stata influenzata da una vicenda ancora sub iudice, essendosi il giudizio della Sezione disciplinare affidato soprattutto alle decisioni ormai divenute definitive, essendo il richiamo alla detta vicenda solo fatto ad colorandum.
6.1 Nè appare censurabile la scelta del giudice disciplinare di applicare, accanto alla sospensione dalle funzioni, la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, occorrendo dare continuità al principio per cui (Cass. S.U. n. 10415/2017), in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l’applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, salvo il necessario presupposto rappresentato dall’irrogazione di una sanzione principale (diversa dall’ammonimento e dalla rimozione), è rimessa ad un apprezzamento di fatto della sezione disciplinare del C.S.M., non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
Così come del pari non è condivisibile la tesi del ricorrente il quale opina nel senso che il trasferimento, quale sanzione accessoria, sarebbe stato ritenuto obbligato dal giudice disciplinare, il quale invece in motivazione non solo ha evidenziato le ragioni della scelta di accompagnare alla sanzione principale quella accessoria del trasferimento, ma ha anche specificato le ragioni dell’individuazione del Tribunale di Enna, quale sede ritenuta idonea, proprio per la sua collocazione geografica, ad attenuare il clamore che i fatti commessi dal P. avevano generato.
Deve quindi ritenersi che la decisione impugnata abbia dato sostanziale continuità al principio per cui (Cass. S.U. n. 17551/2017), in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 13, comma 1, nello stabilire che la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura – nell’infliggere una sanzione diversa dall’ammonimento e dalla rimozione possa disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio, deve essere interpretato nel senso di prevedere entrambe le misure, senza escluderne il cumulo, poichè la “ratio” della norma non è quella di sanzionare ulteriormente il magistrato, ma di impedire che il contesto ambientale in cui esso opera, rispetto al quale sono rilevanti sia la sede che le funzioni svolte, determini ulteriori violazioni disciplinari lesive del buon andamento della giustizia, tutelando, pertanto, un interesse pubblico riconducibile all’art. 97 Cost., ed all’intero titolo IV della Costituzione.
In questa direzione la decisione poi di accompagnare al trasferimento d’ufficio anche il vincolo all’esercizio delle finzioni civili (diverse da quelle penali sino a quel momento svolte dal ricorrente) trova poi adeguata giustificazione motivazionale nel richiamo alla sua complessiva personalità, ritenuta, alla luce dell’intero tessuto argomentativo, poco compatibile con l’esercizio di funzioni penali, proprio da parte di chi si era reso autore di condotte di violenza fisica.
6.2 Risultano altresì del tutto prive di fondamento le deduzioni sviluppate nell’undicesimo motivo, come specificate anche nella memoria, in quanto, ribadita l’inammissibilità di una censura che investa direttamente la violazione delle norme della CEDU, la denuncia contesta l’apprezzamento discrezionale del giudice circa la gravità dei fatti e la congruità della sanzione, non potendo il solo decorso del tempo, peraltro correlato ad una sospensione del procedimento disciplinare prevista per legge, determinare la diversa valutazione della sanzione da irrogare, in quanto in tal modo il soggetto sottoposto a procedimento disciplinare verrebbe a beneficiare del tempo trascorso.
Inoltre, la condotta tenuta successivamente dal ricorrente è stata in fatto posta in comparazione con il profilo emergente dai precedenti disciplinari, ed è stata, quanto meno implicitamente, ritenuta recessiva, a fronte della valutazione di gravità dei fatti commessi.
7. Il ricorso è pertanto rigettato.
8. Nulla a disporre quanto alle spese atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
9. Ancorchè il ricorso sia stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e sia rigettato, non sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l’art. 13, comma 1 quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 8 giugno 2021.
Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2021
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