Pubblico impiego – sospensione cautelare – azione disciplinare – quiescenza – interessi collettivi – immagine della P.A.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.18944 del 05/07/2021

Pubblicato il
Pubblico impiego – sospensione cautelare – azione disciplinare – quiescenza – interessi collettivi – immagine della P.A.

In tema di pubblico impiego contrattualizzato, qualora sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio a seguito di procedimento penale, l’interesse all’esercizio dell’azione disciplinare da parte della pubblica amministrazionepermane anche nell’ipotesi di sopravvenuto collocamento in quiescenza del dipendente.

Ciò vale non solo per assicurare certezza agli assetti economici tra le parti, ma anche per finalità che trascendono il rapporto di lavoro ormai cessato, poiché il datore pubblico è comunque tenuto a tutelare interessi collettivi di rilevanza costituzionale, specie quando vi sia un rischio concreto di lesione dell’immagine dell’amministrazione.

Ne consegue che il datore di lavoro ha l’onere di attivare o riattivare l’iniziativa disciplinare per valutare autonomamente l’incidenza dei fatti già scrutinati in sede penale e definire il destino della sospensione cautelare; in difetto, è legittima la pretesa del lavoratore al recupero delle differenze stipendiali tra l’assegno alimentare percepito e la retribuzione piena spettante in assenza della misura.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17763/2019 proposto da:

P.R., domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati CLEMENTINA DI ROSA, VINCENZO RICCARDI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NAPOLI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPENNINI N. 46, presso lo studio LEGALE ASSOCIATO LEONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO MARIA FERRARI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2221/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/03/2019 R.G.N. 1738/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/01/2021 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’ Stefano, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL FATTO 1. La Corte d’Appello di Napoli, con la sentenza n. 1738 del 2016, ha accolto il reclamo proposto dal Comune di Napoli, nei confronti di P.R., in ordine alla sentenza n. 4014 del 2018 emessa dal Tribunale di Napoli, con la quale era stata rigettata l’opposizione proposta, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, dall’Amministrazione comunale datrice di lavoro avverso il decreto che aveva accolto l’impugnativa del licenziamento, e ha rigettato quest’ultima.

2. Il Tribunale aveva fondato l’accoglimento dell’impugnazione del licenziamento per giusta causa, dichiarando la nullità del provvedimento sanzionatorio, sul rilievo che lo stesso era stato assunto nella sua completezza ed efficacia dopo l’avvenuto pensionamento del dipendente, e quindi in assoluta carenza del potere disciplinare e sanzionatorio in capo al datore di lavoro.

Ciò, in quanto il Tribunale aveva fatto coincidere il perfezionamento del licenziamento non con il momento della sua adozione (intervenuta il 31 ottobre 2016), ma con il momento della comunicazione dello stesso al lavoratore.

3. La Corte d’Appello ha premesso la ricostruzione della vicenda relativa al licenziamento per cui è causa.

Il licenziamento veniva irrogato al P., a seguito della riapertura del procedimento disciplinare a carico del lavoratore, con disposizione dirigenziale n. 127 del 31 ottobre 2016, ed era notificato il 18 novembre 2016, Il procedimento disciplinare era iniziato il 16 ottobre 2002 con la contestazione prot. n. 2371, poi era stato sospeso in attesa della definizione del processo penale, che era intervenuta con la sentenza irrevocabile della Corte di cassazione n. 16399 del 2016, emessa all’udienza del 22 marzo 2016 e depositata il successivo 20 aprile 2016.

La vicenda disciplinare si inscriveva in un complesso accertamento ispettivo, che aveva preso avvio da due relazioni ispettive, la n. 207 del 25 settembre 2002 e la n. 3687 del 26 settembre 2002, sulla scorta delle quali, con la nota prot. n. 2371 del 16 ottobre 2002, veniva formulata al P. una contestazione limitatamente ai fatti accertati dal servizio ispettivo.

In data 26 settembre 2002, il Sindaco pro tempore, con nota prot. n. 261, inoltrava le suddette relazioni alla Procura della Repubblica per gli opportuni provvedimenti.

Il servizio di disciplina provvedeva all’audizione a difesa del P. e di seguito sospendeva l’azione disciplinare, ai sensi dell’art. 25, comma 8, del CCNL 1994/1999 con nota n. 314 del 10 febbraio 2003; sospendeva cautelativamente dal servizio il lavoratore, ai sensi del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 92, con decreto sindacale n. 116 del 26 febbraio 2003.

In data 19 ottobre 2004 veniva notificata al P. un’ulteriore contestazione, avendo il Comune acquisito la richiesta di rinvio a giudizio per i dipendenti comunali coinvolti nell’ambito del procedimento n. 47130/02.

All’esito della sentenza della Corte di cassazione, acquisita mediante il competente U.P.D. per posta certificata in data 23 maggio 2016, il giorno 8 luglio 2016 veniva elevata in danno del ricorrente la contestazione degli addebiti, con nota prot. n. 576962, con la quale si procedeva a riaprire il procedimento disciplinare sospeso, notificando l’atto in data 11 luglio 2016, presso il dirigente del servizio di appartenenza del dipendente.

Dopo l’audizione del P., gli veniva notificata formalmente la disposizione dirigenziale n. 127 del 31 ottobre 2016, avente ad oggetto l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso ai sensi dell’art. 3, comma 8, lett. t), del vigente CCNL.

4. La Corte d’Appello, quindi ha ripercorso la decisione di primo grado.

Il Tribunale aveva premesso che il licenziamento è un atto unilaterale recettizio, e dunque nella specie il licenziamento intimato al P., in quanto comunicato il 18 novembre 2016, in epoca successiva al collocamento a riposo intervenuto a decorrere dal 1 novembre 2016, era divenuto inefficace. Il Tribunale aveva qualificato il licenziamento come postumo, cioè assunto dopo la cessazione del rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza del dipendente.

In ragione di tale premessa, il Tribunale aveva quindi affermato che in capo al datore di lavoro dopo la risoluzione del rapporto di lavoro per collocamento in quiescenza non permaneva alcun potere disciplinare, atteso che doveva aversi riguardo al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 9, come introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 75 del 2017. Tale disciplina limitava la perduranza del potere disciplinare in capo del datore di lavoro alle ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni e non per collocamento in quiescenza.

Ed infatti, il testo originario dell’art. 55 bis, comma 9, stabiliva “In caso di dimissioni del dipendente, se per l’infrazione commessa è prevista la sanzione del licenziamento o se comunque è stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, il procedimento disciplinare ha egualmente corso secondo le disposizioni del presente articolo e le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, mentre solo con la novella introdotta dalla L. n. 75 del 2017, il citato comma 9, prevedeva “La cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

5. Tanto premesso, la Corte d’Appello ha affermato che in ragione del carattere di atto unilaterale recettizio del licenziamento, che si perfeziona e viene ad esistenza nel momento in cui giunge a conoscenza del destinatario, come affermato dal Tribunale, nella fattispecie in esame, il licenziamento, quale causa di estinzione del rapporto di lavoro doveva considerarsi realizzato ad una data in cui il lavoratore era già stato collocato a riposo da alcuni giorni.

Pur convenendo sul punto con il Tribunale, il giudice di appello ha ritenuto invece che, pur in presenza del collocamento a riposo, nella fattispecie permanesse in capo al datore di lavoro il potere disciplinare. A fondamento di tale statuizione ha richiamato, ancor prima del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, il D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 118 e 119, e l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 1997, che aveva affermato la doverosità dell’iniziativa disciplinare postuma in ogni caso di sospensione cautelare dal servizio.

Nel caso in esame trovava applicazione il citato art. 55 bis, nel testo originario, come interpretata da questa Corte (Cass., n. 18849 del 2017).

Inoltre, la Corte d’Appello dichiarava non fondata l’eccezione di decadenza per mancata riattivazione del procedimento disciplinare incardinato nel 2002, in quanto con la nota dell’8 luglio 2016 il procedimento disciplinare risultava pienamente individuato, sia in senso formale che in senso sostanziale, atteso che nel 2004 non interveniva una nuova contestazione ma un prosieguo delle precedenti. Nè vi era tardività della contestazione.

Infondata era anche l’eccezione di genericità della contestazione.

Nel merito il giudice di appello ha affermato la sussistenza della giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione irrogata.

6. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il lavoratore prospettando nove motivi di ricorso.

7. Resiste con controricorso il Comune di Napoli.

8. Il lavoratore ha depositato memoria in prossimità dell’udienza pubblica.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso il lavoratore prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 9, del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 118 e 124, del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 74, comma 3, del D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 55, comma 9, del D.Lgs. n. 75 del 2017, entrato in vigore il 22 giugno 2017.

Il ricorrente si duole della ritenuta sussistenza in capo al datore di lavoro del potere disciplinare pur dopo il collocamento in quiescenza del lavoratore.

Atteso che la notizia di infrazione era del 2002, non poteva trovare applicazione l’art. 55 bis, cit. Nè poteva condividersi il richiamo del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 118, che prevedeva “Qualora nel corso del procedimento disciplinare il rapporto d’impiego cessi anche per dimissioni volontarie o per collocamento a riposo a domanda, il procedimento stesso prosegue agli effetti dell’eventuale trattamento di quiescenza e previdenza”, in quanto lo stesso era stato abrogato dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 74, a far data dall’entrata in vigore del primo contratto collettivo, che era intervenuta per i dipendenti degli enti locali nel 1995.

Nè il contratto collettivo conteneva previsioni in ordine alla prosecuzione del procedimento disciplinare in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Pertanto, fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, occorreva fare riferimento alla disciplina privatistica.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 9, al D.Lgs. n. 165 del 2001, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, art. 55-bis, commi 8 e 9, all’art. 1418 c.c., all’art. 12 disp. att., comma 1, all’art. 10, comma 5, del CCNL 2006/2008.

Il lavoratore afferma che anche a voler ritenere applicabile il D.Lgs. n. 150 del 2009, la previsione dell’art. 55 bis, comma 9, non poteva essere riferita, oltre che al caso delle dimissioni, a quello del collocamento a riposo. Nell’interpretare le norme che regolano i rapporti di lavoro occorre considerare che le stesse sono poste a tutela del lavoratore con funzioni di garanzia per lo stesso, tanto che le norme imperative possono essere derogate solo in senso favorevole. Dunque, non può essere effettuata una interpretazione estensiva del termine “dimissioni”, intendendo lo stesso come cessazione del lavoro. Ciò tenuto conto anche delle regole dell’ermeneutica, che richiede di coordinare le regole dell’interpretazione letterale con quella logica. Inoltre, nella specie, atteso il collocamento a riposo, non vi era la possibilità della riammissione in servizio.

3. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, gli stessi non sono fondati.

3.1. Come questa Corte ha già affermato (si v., tra le altre, Cass., n. 20914 del 2019), con orientamento qui condiviso, in tema di pubblico impiego contrattualizzato, qualora sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio a seguito di procedimento penale, l’interesse all’esercizio dell’azione disciplinare da parte della pubblica amministrazione permane anche nell’ipotesi di sopravvenuto collocamento in quiescenza del dipendente, e ciò non solo per dare certezza agli assetti economici tra le parti ma anche per finalità che trascendono il rapporto di lavoro già cessato, poichè il datore pubblico è pur sempre tenuto a intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale, nei casi in cui vi sia un rischio concreto di lesione della propria immagine; sicchè il datore di lavoro ha l’onere di attivare o riprendere l’iniziativa disciplinare al fine di valutare autonomamente l’incidenza dei fatti già sottoposti al giudizio penale e definire il destino della sospensione cautelare, legittimando, in difetto, la pretesa del lavoratore a recuperare le differenze stipendiali fra l’assegno alimentare percepito e la retribuzione piena che sarebbe spettata in assenza della misura cautelare.

3.2. Invero la questione della permanenza del potere disciplinare della Pubblica Amministrazione nei confronti dei dipendenti cessati dal servizio e delle condizioni che devono ricorrere affinchè detto potere possa essere egualmente esercitato non è sorta con la cosiddetta contrattualizzazione dell’impiego pubblico, poichè già il legislatore del T.U. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, aveva previsto, agli artt. 118 e 124, fattispecie nelle quali il procedimento disciplinare doveva essere comunque concluso, o avviato nel caso di dimissioni presentate dal dipendente sospeso in via cautelare, sul presupposto che la cessazione del rapporto non facesse venire meno l’interesse dell’ente datore all’accertamento della responsabilità disciplinare.

3.3. Poichè, peraltro, la disciplina citata non risultava prima facie applicabile a tutte le ipotesi nelle quali era astrattamente configurabile detto interesse, nella giurisprudenza amministrativa era sorto contrasto sulla possibilità di applicare le disposizioni citate anche in fattispecie similari, sicchè si era reso necessario l’intervento della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la sentenza n. 8 del 6 marzo 1997, aveva affermato la doverosità della iniziativa disciplinare postuma in ogni caso di sospensione cautelare dal servizio, giustificandone il fondamento nella necessità di regolare i rapporti economici tra l’amministrazione ed il suo dipendente e di impedire che quest’ultimo potesse avvalersi della estinzione del procedimento, o della sua mancata attivazione, per pretendere la restitutio in integrum.

La giurisprudenza sopra richiamata ha posto in evidenza come si era, peraltro, osservato dalla dottrina che l’interesse del datore di lavoro pubblico ad accertare, anche a rapporto cessato, la responsabilità del dipendente nei casi di gravi illeciti disciplinari, trascendeva quello meramente economico. Era stato anche evidenziato che il principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione giustifica l’intervento disciplinare postumo in tutti i casi in cui il comportamento del dipendente infedele abbia leso l’immagine della P.A. che è, quindi, tenuta ad intervenire a salvaguardia di interessi collettivi di rilevanza costituzionale.

3.4. La contrattualizzazione dell’impiego pubblico e l’attribuzione alle parti collettive del potere di intervenire anche nella materia disciplinare hanno dato nuovi temi al dibattito sulla sopravvivenza del potere disciplinare nelle ipotesi di cessazione del rapporto, poichè da un lato si è fatto leva, per giustificare la permanenza del potere, sui medesimi principi già affermati in relazione al rapporto di natura pubblicistica; dall’altro, invece, sono state valorizzate la sopravvenuta inapplicabilità della normativa dettata dal T.U. e la stretta correlazione esistente nel rapporto di lavoro di diritto privato fra potere disciplinare e obblighi contrattuali, per escludere che l’esercizio del potere medesimo potesse avere fondamento, in assenza di una espressa previsione dettata dalle parti collettive, una volta cessato, per qualunque causa, il rapporto di lavoro.

3.5. In questo contesto è, dunque, poi intervenuto il legislatore che, nel riformare il procedimento disciplinare attraverso la riduzione degli ambiti di intervento della contrattazione collettiva, ha previsto al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 9 introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, che: in caso di dimissioni del dipendente, se per l’infrazione commessa è prevista la sanzione del licenziamento o se comunque è stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, il procedimento disciplinare ha egualmente corso e le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Le regole del D.Lgs. n. 165 del 2001, sono state oggetto di riforma con il D.Lgs. n. 75 del 2017, che ha riscritto l’art. 55 bis. Il comma 9, però, sebbene semplificato nella formulazione, continua a stabilire il medesimo principio di diritto: “la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto”.

3.6. In tal modo ha trovato consacrazione quell’approdo interpretativo che, anche a prescindere dal più recente intervento legislativo di cui si è detto, ha fatto leva sulle peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze della P.A. rispetto a quello privato, per sostenere il perdurante interesse all’accertamento della responsabilità disciplinare a fini che trascendono il rapporto già cessato, ma che rispondono comunque ai principi di legalità, di buon andamento e di imparzialità che, per volontà del legislatore costituzionale, devono sempre caratterizzare l’azione della pubblica amministrazione.

3.7. Tanto premesso si osserva che il momento determinante ai fini dell’assoggettamento o meno della fattispecie alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009, è costituito dall’acquisizione della notizia (qualificata) dell’infrazione (nel caso in esame intervenuta nel 2002).

Ed infatti, dal momento di tale acquisizione decorrono i termini per la contestazione dell’addebito all’incolpato, e il procedimento nella sua unitarietà si snoda a partire dall’acquisizione della notizia (Cass., n. 21193 del 2018). Pertanto, non può trovare applicazione il citato art. 55 bis, ciò tuttavia non esclude la correttezza della decisione della Corte d’Appello di legittimità del licenziamento disciplinare in esame Va rilevato che l’art. 25, comma 8, CCNL Enti locali 1995, prevede “Il procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 24, comma 2, deve essere avviato anche nel caso in cui sia connesso con procedimento penale e rimane sospeso fino alla sentenza definitiva. La sospensione è disposta anche ove la connessione emerga nel corso del procedimento disciplinare. Qualora l’amministrazione sia venuta a conoscenza dei fatti che possono dar luogo ad una sanzione disciplinare solo a seguito della sentenza definitiva di condanna, il procedimento disciplinare è avviato nei termini previsti dall’art. 24, comma 2, dalla data di conoscenza della sentenza”.

L’art. 27, la cui rubrica reca “Sospensione cautelare in caso di procedimento penale”, a sua volta, al comma 1, sancisce: “Il dipendente che sia colpito da misura restrittiva della libertà personale è sospeso d’ufficio dal servizio con privazione della retribuzione per la durata dello stato di detenzione o comunque dello stato restrittivo della libertà”, e al comma 2, riferibile al D.P.R. n. 3 del 1957, art. 92, stabiliva: “Il dipendente può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga sottoposto a procedimento penale che non comporti la restrizione della libertà personale quando sia stato rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento ai sensi dell’art. 25, commi 6 e 7” (licenziamento con preavviso e licenziamento senza preavviso).

Di talchè, la disciplina contrattuale successiva al D.Lgs. n. 29 del 1993, che regola la fattispecie, mutuava dal D.P.R. n. 3 del 1957, gli istituti della sospensione cautelare obbligatoria e facoltativa in pendenza di procedimento penale, così facendo persistere e contrattualizzando le ragioni già poste, come sopra illustrato (in particolare punto 2.3.), a fondamento della persistenza del potere disciplinare, come previsto dal D.P.R. n. 3 del 1957.

Il lavoratore, nella fattispecie in esame, veniva sospeso cautelativamente dal servizio con decreto sindacale n. 116 del 2003, e la Corte d’Appello proprio alla sospensione cautelare del P. “dal servizio per oltre 5 anni a seguito del procedimento penale”, richiamando la giurisprudenza amministrativa sopra ricordata, oltre che di legittimità, dà rilievo quale fondamento della persistenza della potestà disciplinare in capo all’Amministrazione anche successivamente al collocamento a riposo per sopraggiunti limiti di età, con statuizione che, facendo corretta applicazione dei princi pi sopra richiamati, si sottrae a censura.

4. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, comma 4, alla Circolare Ministero pubblica amministrazione e innovazione, n. 14 del 2010, all’art. 97 Cost., agli artt. 1339 e 1419 c.c..

E’ censurato il rigetto dell’eccezione di decadenza dall’esercizio dell’azione disciplinare per mancato rispetto del termine di riapertura del procedimento disciplinare.

Occorre premettere che in data 10 maggio 2016 l’Avvocatura dello Stato comunicava all’UPD la sentenza integrale resa dalla Cassazione penale depositata il 23 aprile 2013 come estratta dal sito ufficiale della Corte di cassazione.

Solo il 23 maggio 2016, tuttavia, l’UPD ritirava la copia conforme della sentenza presso la cancelleria della Corte di legittimità, avendola richiesta dopo l’inoltro dell’Avvocatura dello Stato.

Il procedimento veniva riattivato con contestazione dell’8 luglio 2016 notificata l’11 luglio 2016 Ad avviso del ricorrente è al momento della comunicazione da parte dell’Avvocatura dello Stato che occorre fare riferimento atteso che l’Amministrazione in tal modo aveva avuto contezza della sentenza nella sua versione integrale.

4.1. Il motivo non è fondato.

Come già affermato da questa Corte (Cass., n. 12358 del 2017, n. 21193 del 2018), nel pubblico impiego contrattualizzato, in tema di rapporti tra procedimento disciplinare e procedimento penale, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 69, comma 1, non trova applicazione nei procedimenti disciplinari aperti e sospesi prima della sua entrata in vigore, anche ove il procedimento disciplinare venga ripreso o riaperto successivamente alla sua entrata in vigore.

Nella specie trova applicazione, ratione temporis, il CCNL Enti locali 1995, che stabilisce all’art. 25, commi 8 e 9: “8. Il procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 24, comma 2, deve essere avviato anche nel caso in cui sia connesso con procedimento penale e rimane sospeso fino alla sentenza definitiva. La sospensione è disposta anche ove la connessione emerga nel corso del procedimento disciplinare. Qualora l’amministrazione sia venuta a conoscenza dei fatti che possono dar luogo ad una sanzione disciplinare solo a seguito della sentenza definitiva di condanna, il procedimento disciplinare è avviato nei termini previsti dall’art. 24, comma 2, dalla data di conoscenza della sentenza.

9. Il procedimento disciplinare sospeso ai sensi del comma 8 è riattivato entro 180 giorni da quando l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza definitiva”, che nella specie risulta rispettato.

Peraltro, va ricordato che questa Corte ha affermato che occorre avere riguardo al momento in cui l’Ufficio competente per i procedimenti disciplinari è venuto in possesso della copia della sentenza recante l’attestazione della sua irrevocabilità, restando irrilevante la semplice conoscenza del provvedimento in epoca anteriore alla data di trasmissione (Cass., n. 5313 del 2017).

5. Con il quarto motivo di ricorso (indicato come V) è prospettata la violazione e falsa applicazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 159 c.p.c., art. 55 sexies, comma 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, degli artt. 115 e 116 c.p.c.

E’ censurata la statuizione che ha rigettato l’eccezione di decadenza dell’Amministrazione per mancata riattivazione dell’unico procedimento incardinato nel 2002.

Da un lato, assume il ricorrente che nella nota di contestazione del 2016 non vi era rinvio espresso a tutte le note di contestazione succedutesi negli anni; dall’altro, che atteso il riferimento alla nota del 2004, il procedimento disciplinare era tardivo.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Occorre premettere che la Corte d’Appello ha affermato che il procedimento disciplinare riattivato con la nota dell’8 luglio 2016 risulta pienamente individuato mediante il richiamo alla nota di addebito del 4 novembre 2004. Ciò, in quanto si trattava di un unico procedimento disciplinare, in cui si venivano integrate le note di addebito in relazione all’evoluzione del procedimento penale, nelle sue diverse fasi ed alle connesse ripercussioni sul rapporto di lavoro. Il mancato esplicito richiamo alle note di addebito precedenti non inficiava la validità dell’atto di riapertura, essendo individuato il procedimento disciplinare senza violazione del diritto di difesa.

Ciò premesso occorre ricordare che (Cass. n. 11868 del 2016) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per circoscrivere meglio l’addebito, sempre nell’ambito di quello originario, e purchè al lavoratore, nel rispetto del diritto di difesa, sia consentito di replicare alle accuse così precisate.

Nella specie, l’accertamento di fatto svolto dal giudice di appello sulla specificità contestazione con cui veniva riattivato il procedimento disciplinare non è stato adeguatamente contestato dal ricorrente che, pur incentrando il motivo sulla genericità della contestazione stessa, non trascrive quest’ultima, nè trascrive le note intervenute nel tempo, nè le allega o indica in modo circostanziato il luogo di produzione in giudizio, con conseguente inammissibilità del motivo.

I requisiti imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perchè solo l’esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure.

6. Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 e 116 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 110 c.p., e dell’art. 654 c.p.p..

Il ricorrente, nel contestare il rigetto dell’eccezione di genericità della contestazione, assume che l’atto di rinvio a giudizio a cui la stessa faceva riferimento non può contenere il riferimento circostanziato a fatti e comportamenti che potrebbero essere rilevanti anche ai fini disciplinari, in quanto gli stessi sono ancora da accertare in sede penale.

Espone che la Corte d’Appello non ha provveduto ad esaminare le prove prodotte per tabulas, e non ha provveduto sulla prova per testi come richiesta.

6.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato (si v., Cass. 10662 del 2014) che la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purchè siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.

Ne consegue, la piena ammissibilità della contestazione “per relationem”, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio.

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi. Le censure sono inammissibili nella parte in cui mirano inammissibilmente al riesame del merito della causa e nella parte in cui denunciano la violazione degli artt. 115 e 116, omettendo di chiarire la rilevanza e la decisività delle prove richieste e non ammesse, cfr Cass. (Cass., n. 1229 del 2019).

7. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 e 116 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 110 c.p., e dell’art. 654 c.p.p..

Il ricorrente assume che la Corte d’Appello avrebbe richiamato Cass. n. 24582 del 2017, in materia di giudicato penale, secondo cui l’effetto vincolante del giudicato penale nel giudizio civile non vi sarebbe nel caso di sentenza meramente dichiarativa della intervenuta prescrizione, dovendosi escludere l’applicazione analogica dell’art. 654 c.p.p..

Ma proprio in ragione dei suddetti principi, il ricorrente censura la sentenza di appello per aver fatto solo generico riferimento alle sentenze penali, senza alcun approfondimento sui fatti materiali disciplinarmente rilevanti per il P., nè tanto meno sugli elementi di prova degli stessi.

La contestazione del Comune era priva di specificità, e di ciò si sarebbe fatta carico la sentenza della Corte d’Appello. Inoltre, nel richiamare l’art. 10 del CCNL del 1999, assume che sarebbero sfuggite alla Corte le argomentazioni difensive svolte al fine di prospettare il superamento dell’onnicomprensività della posizione organizzativa.

7.1. Il motivo è inammissibile.

La Corte d’Appello, difatti, non ha deciso alla stregua del principio di cui all’art. 654 c.p.c., che regola gli effetti del giudicato penale nel giudizio civile, ma ha utilizzato e rivalutato autonomamente gli elementi di prova acquisiti al giudizio penale, pervenendo su tali basi a formulare un autonomo giudizio di responsabilità in ordine ai fatti ascritti in sede disciplinare, ritenuti idonei ad integrare la giusta causa di licenziamento.

La Corte d’Appello ha affermato che “nel merito contrariamente all’assunto di parte ricorrente-reclamata, ritiene il collegio sufficientemente asseverata in atti la sussistenza, nel caso concreto, della giusta causa di recesso posta alla base del licenziamento attraverso il richiamo ai fatti penalmente rilevanti, quali contestati nella nota di addebito ed incidenti sul vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro.

Ed infatti, in adesione all’orientamento giurisprudenziale di legittimità – v. Cass. sent. n. 21229 del 2014 – ritiene la Corte che non è ipotizzabile un’estensione analogica dell’art. 654 c.p.c., anche a sentenze dichiarative della prescrizione, in quanto tale norma ha carattere eccezionale.

Anche in detta censura, peraltro, il ricorrente, pur dolendosi della sentenza che avrebbe supplito la contestazione, e dunque nella sostanza invocando un raffronto con quest’ultima, richiamando le sentenze penali e propri atti difensivi, non ne trascrive il contenuto, nè allega o indica in modo circostanziato il luogo di produzione di tali documenti, con conseguente inammissibilità della censura.

8. Con il settimo motivo il lavoratore deduce la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 e 166 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 110 c.p., e dell’art. 654 c.p.p..

Assume il ricorrente che il provvedimento di licenziamento era fuorviante perchè vi era ritrascritto il rinvio a giudizio a carico del dirigente e di altri 307 dipendenti, pertanto l’attenzione era stata rivolta alla complessa vicenda penale e non alla posizione del lavoratore, e benchè sembrasse che lo stesso non partecipasse attivamente alle vicende, poichè aveva beneficiato delle maggiorazioni stipendiali non avrebbe potuto non sapere.

Andava considerato che per gli altri beneficiari non vi era stato procedimento disciplinare e neanche il recupero. Nel corso del motivo il ricorrente riporta stralci del procedimento penale.

8.1. Il motivo è inammissibile, in quanto lo stesso pur rubricato quale vizio di violazione di legge, si sostanzia nella richiesta di una rivalutazione dei fatti di causa.

Costituisce principio consolidato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Con riguardo all’art. 115, e all’art. 116 c.p.c., la giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, precisato (Cass., n. 1229 del 2019) che una censura relativa alla violazione e falsa applicazione delle suddette norme, non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali (ma nella specie valga quanto si è osservato nella trattazione del primo motivo di ricorso), o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, doglianze non dedotte in modo specifico con riguardo ai relativi criteri legali in materia di prova dal lavoratore.

9. Con l’ottavo motivo di ricorso il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 e 166, c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 110 c.p., e dell’art. 654 c.p.p..

Il ricorrente deduce che la riattivazione del procedimento disciplinare è intervenuta a seguito di una sentenza dichiarativa della prescrizione, e che quindi non poteva trovare applicazione l’art. 654 c.p.p., e che l’Amministrazione non avrebbe svolto alcun autonomo accertamento delle prove raccolte nel procedimento penale.

10. Con il nono motivo di ricorso il lavoratore deduce la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 115 e 116 c.p.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 110 c.p., e dell’art. 654 c.p.p..

Il ricorrente riferisce che nella ricostruzione accusatoria veniva ritenuto aver svolto un ruolo di concorrente nei reati di peculato, per i quali era stato tratto in giudizio anche il dirigente responsabile, usufruendo di somme rilevanti percepite in virtù delle condotte deviate delle procedure previste per l’erogazione di somme. Deduce quindi, facendo riferimento all’organizzazione dell’ufficio e al personale, alla gestione contabile, al regolamento di contabilità, agli incarichi di posizione organizzativa, richiamando plurimi atti, l’illegittimità del recesso sia in ragione del mancato accertamento delle condotte contestate sia per la mancanza del venir meno del vincolo fiduciario.

10.1. I due motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione.

Entrambi sono inammissibili, in particolare, si osserva che il nono motivo si articola in una ampia narrazione (per diciotto pagine) di varie vicende che nella prospettazione del ricorrente consentirebbe (come esposto nelle ultime due pagine del motivo) di rilevare l’illegittimità del licenziamento.

Quanto alla rilevanza della sentenza penale nel successivo procedimento disciplinare, va osservato che, come si è già sopra rilevato, la Corte d’Appello non ha fatto applicazione dell’art. 654 c.p.p..

Il giudice di appello ha fatto corretta applicazione del principio generale secondo cui il giudicato non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità. Costituisce corollario di tale principio che, come già affermato da questa Corte (Cass., n. 5284 del 2017), la prova dell’addebito disciplinare si forma in giudizio, atteso che la stessa attiene non alla procedura disciplinare ma a quella della, eventuale, fase di impugnativa giudiziale del licenziamento da parte del lavoratore.

Va, inoltre considerato che la sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato non determina l’automatica archiviazione del procedimento disciplinare perchè non si può escludere che lo stesso, inidoneo a fondare una responsabilità penale, possa comunque integrare un inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare.

A detti principi si è, quindi, correttamente attenuta la Corte d’Appello che, contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, non ha preteso di attribuire efficacia di giudicato alla sentenza penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione, bensì, in relazione agli addebiti contestati, ha proceduto (si vedano in particolare le ultime tre pagine della sentenza di appello e la relativa articolata motivazione) ad una complessiva valutazione del materiale probatorio acquisito nel corso del procedimento penale, ed ha ritenuto provata la condotta contestata.

A tale accertamento il ricorrente contrappone la propria ricostruzione delle vicende per cui è causa, in modo peraltro non satisfattivo dei requisiti imposti dall’art. 366, comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, attesa la mancata trascrizione ed allegazione di diversi documenti richiamati nel motivo, chiedendo a questa Corte un inammissibile rivalutazione nel merito.

La Corte d’Appello ha, inoltre, correttamente applicato, svolgendo una specifica valutazione, il principio secondo cui ai fini della valutazione di proporzionalità è insufficiente un’indagine che si limiti a verificare se il fatto addebitato è riconducibile alle disposizioni della contrattazione collettiva che consentono l’irrogazione del licenziamento, essendo sempre necessario valutare in concreto se il comportamento tenuto, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, con particolare attenzione alla condotta del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti e a conformarsi ai canoni di buona fede e correttezza. La Corte d’Appello ha quindi affermato, in particolare, che la condotta del ricorrente assume particolare rilevanza disciplinare perchè integrante fattispecie di reati gravi contro la pubblica amministrazione datrice di lavoro tale da ledere in maniera irreparabile il vincolo fiduciario.

11. Il ricorso deve essere rigettato.

12. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

13. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 5 luglio 2021

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