LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12746/2016 proposto da:
TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio degli avvocati ROBERTO PESSI, e MARCO MARIA VALERIO RIGI LUPERTI, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
T.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MANZONI 13, presso lo studio dell’avvocato PIETRO CARATTOLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO CAVACECE;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6443/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 20/11/2015 R.G.N. 2254/2010;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO.
RILEVATO
Che:
La Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 849/2014 passata in giudicato, pronunciando in sede di riassunzione a seguito di rinvio disposto con sentenza di questa Corte n. 4805/2012, in accoglimento della domanda proposta da T.P. nei confronti di Telecom Italia s.p.a., emetteva pronunzia di condanna generica di quest’ultima al risarcimento del danno in favore del ricorrente – per effetto della mancata iscrizione al Fondo di Previdenza Telefonici dal febbraio 1992 – da commisurare al trattamento di quiescenza di cui il T. avrebbe goduto ove fosse stato iscritto al predetto Fondo.
Con sentenza n. 6443/2015 la Corte d’Appello di Roma, pronunciandosi in sede di autonomo giudizio di quantificazione promosso dal T., all’esito dell’espletamento di accertamento tecnico d’ufficio, in riforma della decisione di primo grado, condannava la società Telecom Italia al pagamento in favore dell’appellante, della somma di Euro 1.742.408,98.
Avverso tale pronuncia interpone ricorso per cassazione la società soccombente affidato a tre motivi ai quali resiste con controricorso l’intimato.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
CONSIDERATO
1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ci si duole che la Corte territoriale abbia omesso di pronunciarsi sull’eccezione sollevata in secondo grado, circa l’inammissibilità del gravame per mancata specificazione dei motivi ex art. 434 c.p.c..
2. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.
Innanzitutto deve osservarsi che la ricorrente avrebbe dovuto dedurre la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4.
Ed invero, l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello – così come, in genere, l’omessa pronuncia su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio – risolvendosi nella violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un difetto di attività del giudice di secondo grado, che deve essere fatto valere dal ricorrente non con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale ex art. 360 c.p.c., n. 3, o del vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto siffatte censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l’abbia risolta in modo giuridicamente non corretto ovvero senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione al riguardo resa, ma attraverso la specifica deduzione del relativo “error in procedendo” – ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso giudice anche del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello. La mancata deduzione del vizio nei termini indicati, evidenziando il difetto di identificazione del preteso errore del giudice del merito e impedendo il riscontro “ex actis” dell’assunta omissione, rende, pertanto, inammissibile il motivo (cfr. Cass. 27/1/2006 n. 1755, Cass. 19/1/2007 n. 1196, Cass. 27/10/2014 n. 22759).
3. In ogni caso la censura è infondata.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (vedi Cass. 13/8/2018 n. 20718, Cass. 13/10/2017 n. 24155).
E tale è l’ipotesi in concreto ravvisabile, giacché la disamina da parte dei giudici del gravame, nel merito, dei motivi di appello, rappresenta un incedere argomentativo che presuppone logicamente e giuridicamente, l’infondatezza delle doglianze poste a base della impugnazione stessa (vedi al riguardo Cass. 6/12/2017 n. 29191).
4. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 437,421,61,191,194,196,112,115414 c.p.c. e art. 2967 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Ci si duole, in estrema sintesi, che il giudice del gravame abbia ritenuto di rinnovare gli accertamenti peritali, invece di procedere alla acquisizione di ogni elemento utile a ricostruire la posizione previdenziale che in via di ipotesi sarebbe spettata al ricorrente. Si deduce che il giudicante avrebbe utilizzato lo strumento della CTU per sopperire alle carenze allegatorie del lavoratore, disponendo una illegittima inversione dell’onus probandi, omettendo di pronunciarsi anche sulla nullità dell’elaborato peritale stilato in prime cure e sulla eccezione di novità formulata in relazione alle conclusioni rassegnate in appello.
5. Il motivo è privo di pregio.
Occorre premettere che secondo i principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, ai quali va data continuità, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice. L’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici (vedi per tutte Cass. 24/1/2019 n. 2103).
Nella specie, la Corte di merito ha disposto buon governo della discrezionalità ad essa affidata nella gestione dello strumento di indagine, conferendo l’incarico al nuovo CTU Dott. C. onde verificare la correttezza della precedente elaborazione peritale (non recepita dal primo giudice del giudizio di quantificazione, per essere intervenuta nelle more la pronuncia di Corte d’appello che la sentenza di condanna generica emessa il 21/6/2006 aveva allora riformato), individuando l’importo idoneo ad equiparare il trattamento di quiescenza spettante al ricorrente, a quello che gli sarebbe stato riservato qualora fosse stato iscritto al FPT, tenendo conto dei calcoli elaborati dal precedente ausiliare.
E tale attività non era certo volta a supplire ad eventuali carenze probatorie riconducibili agli oneri gravanti sulla parte attrice, la quale aveva allegato alla domanda la documentazione inerente alla posizione contributiva e pensionistica INPGI, indicando i parametri sui quali impostare il conteggio, oltre al prospetto elaborato dal sindacato.
E’ bene ribadire al riguardo che i dati acquisiti dal Dott. C. erano stati allegati nel precedente grado di giudizio dalle parti, in parte acquisiti dal CTU di primo grado, in parte attinti da documentazione INPGI quanto al dettaglio contributi, in parte acquisiti dal medesimo ausiliare nominato in grado di appello presso gli enti previdenziali, secondo le indicazioni impartite dal Collegio giudicante.
Nell’ottica descritta va, quindi, rammentato che la consulenza tecnica di ufficio, non essendo qualificatile come mezzo di prova in senso proprio, perché volta a dare ausilio al giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni necessitanti specifiche conoscenze, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito. Questi può affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche cognizioni tecniche (vedi Cass. 3/7/2020 n. 13736, Cass. 8/2/2019 n. 3717, Cass. 22/1/2015 n. 1190 secondo cui in tema di risarcimento del danno, è possibile assegnare alla consulenza tecnica d’ufficio ed alle correlate indagini peritali funzione “pertipiente”, quando essa verta su elementi già allegati dalla parte, ma che soltanto un tecnico sia in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone).
Alla luce delle esposte considerazioni, anche detto secondo motivo non è meritevole di accoglimento.
6. Con il terzo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 112,113,115,416 c.p.c. e art. 2967 c.c., L. n. 1450 del 1956, art. 9 e successive modifiche, della L. n. 58 del 1992, art. 5, D.L. n. 503 del 1992, art. 7, L. n. 335 del 1995, art. 1, comma 17, L. n. 153 del 1969, art. 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si addebita alla Corte di merito di aver aderito alla relazione peritale stilata dal Dott. C., violando le disposizioni in tema di ammissione e valutazione delle prove ed omettendo di pronunciarsi su punti decisivi della controversia ai fini del calcolo del risarcimento danno pensionistico per violazione di norme speciali, oggetto di specifica allegazione del consulente di parte Dott. Te..
7. Il motivo è inammissibile.
In base ai principi affermati in sede di legittimità, da ribadirsi in questa sede, in tema di ricorso per cassazione, la parte che lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l’onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione (vedi ex plurimis, Cass. 17/7/2014 n. 16368, Cass. 22/2/2010 n. 4201).
E’ infatti orientamento costante che, in tema di ricorso per cassazione, a seguito della riforma ad opera del D.Lgs. n. 40 del 2006, il novellato art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 6, richiede la “specifica” indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, e della sede processuale in cui siano collocati.
Il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c. – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto (confronta, tra le altre, Cass. 13/11/2018 n. 29093, Cass. 4/10/2018 n. 24340, Cass. 2/8/2016 n. 16103).
Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.
Nella specie, i documenti richiamati nella critica formulata (relazione di consulenza, note critiche del,consulente di parte…) non risultano trascritti nel loro contenuto, onde l’esposizione del motivo è inosservante del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione, sotto tale decisivo profilo.
Di conseguenza, non sussistono i presupposti per lo scrutinio del denunciato vizio di violazione di legge; né sussistono i presupposti per la disamina del vizio motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, nel quale non è inquadrabile la censura concernente deficienze argomentative della decisione in punto di recepimento delle conclusioni della CTU che esige, piuttosto, l’indicazione delle circostanze secondo le quali quel recepimento, sulla base delle modalità con cui si è svolto, si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti (vedi Cass. 26/7/2017 n. 18391). In tal senso neanche è proponibile la prospettazione di un omesso esame su punto decisivo della controversia, con riferimento alla “normativa che disciplina la retribuzione imponibile ai fini del calcolo della pensione Fondo Telefonici” (vedi pag. 31 ricorso), giacché la disposizione richiamata postula l’omesso esame di un fatto storico, decisivo, oggetto di discussione fra le parti.
Ne deriva che; sotto tutti i profili delineati, la censura deve essere disattesa.
8. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata, con distrazione in favore degli avv.ti Antonio Cavacece e Pietro Carattoli.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 13.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% da distrarsi in favore degli avv.ti Cavacece e Carattoli.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 18 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 16 luglio 2021
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