LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 36315/2019 proposto da:
D.D., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE UNIVERSITA’
11, presso lo studio dell’avvocato EMILIANO BENZI, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRA BALLERINI;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE MILANO;
– resistente –
avverso la sentenza n. 2215/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 21/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/01/2021 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.
RILEVATO
che:
1. D.D., proveniente dalla Costa d’Avorio, ha proposto ricorso, articolato in due motivi, notificato il 21 novembre 2019, per la cassazione della sentenza n. 2215/2019 emessa dalla Corte d’appello di Milano e pubblicata in data 21 maggio 2019.
2. Il Ministero dell’interno ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si è dichiarato disponibile alla partecipazione alla discussione orale.
3. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.
4. Il ricorrente, secondo la ricostruzione della propria vicenda personale contenuta nel ricorso, aveva lasciato il proprio Paese perché vittima di persecuzione religiosa: durante una festività islamica non aveva interrotto la propria attività di commerciante, esponendosi all’ira degli estremisti, che gli avevano incendiato il negozio; per lo stesso motivo era stato incarcerato, senza processo, per un anno e quattro mesi; riuscito a fuggire si spostava in Libia, ove restava diversi mesi, subendo violenze e torture; giunto in Italia richiedeva la protezione internazionale, che gli veniva negata dalla Commissione territoriale, e poi in sede giurisdizionale dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano.
5. La sentenza d’appello, quanto alla richiesta di riconoscimento dello stato di rifugiato, afferma che per quanto non ci sia motivo di dubitare delle circostanze riferite dal ricorrente, esse non integrano una situazione di esposizione a rischio persecuzione dello stesso a causa della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o etnico o della sua razza o della sua religione o della sua nazionalità o della sua opinione politica.
6. In merito alla protezione sussidiaria poi, la Corte territoriale dichiara l’assenza dei requisiti per riconoscerla, in quanto “in Costa d’Avorio pacificamente attualmente non sussiste (anche secondo i rapporti di Amnesty International) alcun conflitto…”.
7. In ultimo, in ordine alla protezione umanitaria, si legge nella sentenza impugnata che l’unica situazione evidenziata nell’atto d’appello a tali fini è l’integrazione in Italia, che non può però di per sé costituire una situazione di vulnerabilità della persona.
RITENUTO
che:
il ricorrente, avverso la sentenza della Corte d’appello milanese, formula due censure.
8. Con il primo motivo il ricorrente deduce “l’erronea, contraddittoria e carente motivazione della ordinanza impugnata in ordine alla valutazione della mancata sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, nonché la presenza di un error in procedendo per la mancata istruttoria d’ufficio e dunque la violazione di legge, errata e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 10 e 16”.
9. Anche nell’introduzione del ricorso, in cui è riportata una sintesi dei motivi, viene rilevato che il richiedente è stato oggetto di persecuzione religiosa (punti 13 e 14) e che nonostante ciò, erroneamente, non gli è stata riconosciuta la protezione sussidiaria.
10. Non può non rilevarsi che la rubrica del motivo è corretta, ma il contenuto del motivo è palesemente relativo ad un altro ricorso (reca il n. III invece che I, e fa riferimento ad un’altra vicenda storica nonché alla decisione di un’altra corte d’appello, la Corte d’Appello di Genova) in cui la persecuzione temuta aveva un’altra causa, ovvero era dovuta all’attività politica svolta dal ricorrente.
11. Essendo non pertinenti le argomentazioni alla storia personale del ricorrente, come risultante da altra parte del ricorso e dalla sentenza, il motivo è inammissibile perché la sentenza non è idoneamente censurata sul punto.
12. Anche la censura relativa alla mancata concessione della protezione sussidiaria è inammissibile perché genericamente formulata, contrappone alle informazioni tratte da fonte attendibile citate nel provvedimento impugnato, delle quali non contesta in sé la mancanza di precisione, altre copiose informazioni senza indicare efficacemente perché quelle selezionate dalla corte d’appello sarebbero inidonee a ricostruire la storia del paese e si dovrebbero invece preferire quelle indicate dal ricorrente.
13. Con il secondo motivo si censura la violazione dell’art. 2 Cost. e dell’art. 11 del Patto internazionale sui diritti civili e politici della Nazioni Unite del 1966 (ratificato con la L. n. 881 del 1977); la violazione dell’art. 8 CEDU in relazione, in particolare, all’art. 5, comma 6, T.U. Imm., la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; la violazione dell’art. 19 del T.U. Imm., nonché l’omesso esame della domanda di protezione umanitaria.
13.1. Si legge nel ricorso che la Corte d’appello ha errato nell’affermare che “l’unica situazione evidenziata nell’atto d’appello a tali fini è l’integrazione in Italia, che non può però di per sé costituire una situazione di vulnerabilità della persona” perché, innanzitutto, la valutazione circa la protezione umanitaria è disancorata dal principio dispositivo: il giudice deve valutare la sussistenza dei motivi umanitari anche a prescindere da una domanda in tal senso.
13.2. In secondo luogo, la decisione della sentenza d’appello erra ad avviso del ricorrente nel negare la sussistenza dei requisiti richiesti per la concessione della protezione umanitaria concentrandosi unicamente sulla asserita inesistenza di problemi di salute ovvero di legami familiari, quasi fossero gli unici elementi idonei a giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria.
Segnala che, al contrario, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare:
– che in Costa d’Avorio c’e’ instabilità geopolitica e inadeguata tutela dei diritti umani;
– che il richiedente non ha alcun legame affettivo o familiare nel Paese di origine; che in Italia (dove si trova da oltre 3 anni) è integrato e ha un lavoro (situazione completamente ignorata dalla Corte milanese).
13.3. In ultimo, lamenta il fatto che non sia stato considerato, in nessun punto della sentenza, che il soggetto è vulnerabile anche alla luce dell’avvenuto transito in Libia, dove è stato vittima di trattamenti inumani e degradanti.
14. Il motivo va accolto: la corte d’appello dà atto della compiuta integrazione in Italia del ricorrente, documentata da un contratto di lavoro, e dall’aver seguito corsi di lingue, ma la ritiene irrilevante né prende in alcuna considerazione, ai fini della valutazione complessiva e comparativa della vulnerabilità del soggetto richiedente, se il transito attraverso la Libia sia stato per lui foriero di traumi indelebili per ciò che in esso si è verificato, né compie alcun accertamento in ordine alla denunciata violazione del diritti umani nel paese di provenienza.
15. La motivazione non è conforme ai principi di diritto elaborati da questa Corte in materia, e va pertanto rinnovata.
Vanno richiamati i seguenti principi di diritto, già affermati da questa Corte e rilevanti nel caso di specie:
a. Il rilascio del permesso di soggiorno per protezione umanitaria (nella disciplina previgente al D.L. n. 113 del 2018, conv., con modif., in L. n. 132 del 2018) costituisce una misura atipica e residuale, volta ad abbracciare situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento di una tutela tipica (“status” di rifugiato o protezione sussidiaria), non può disporsi l’espulsione e deve provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in condizioni di vulnerabilità (v. Cass. 23604 del 2017; Cass. n. 13096 del 2019).
b. Il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, deve essere frutto di valutazione autonoma caso per caso, non potendo conseguire automaticamente dal rigetto delle altre domande di protezione internazionale, essendo necessario considerare la specificità della condizione personale di particolare vulnerabilità del richiedente, da valutarsi anche in relazione alla sua situazione psico-fisica attuale ed al contesto culturale e sociale di riferimento (v. Cass. n. 28990 del 2018; Cass. n. 13088 del 2019).
c. La condizione di vulnerabilità è una condizione personale del richiedente, che deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della vita privata del richiedente in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, per verificare la sussistenza e la consistenza del rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale capace di determinare una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti inviolabili (v. Cass. n. 7599 del 2020).
d. Il giudizio di comparazione tra la situazione attuale, in cui il ricorrente risulta inserito in Italia, e la situazione in cui si ritroverebbe ove rimandato nel paese di provenienza, necessario al fine di apprezzare l’esistenza o meno della condizione di vulnerabilità del ricorrente, deve essere compiuto considerando globalmente e unitariamente i singoli elementi fattuali accertati e non in maniera atomistica e frammentata (Cass. n. 7599 del 2020).
e. In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S.U. n. 29459 del 2019).
16. – La sentenza impugnata non ha rispettato i parametri normativi fissati dal T.U. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, così come esplicitati nella pur richiamata pronuncia n. 4455 del 2018, alla quale fa riferimento quanto alla necessità e ai criteri di svolgimento del giudizio di comparazione anche Cass. S.U. n. 29459 del 2019, in quanto, sebbene la sentenza riproduca il positivo percorso di integrazione compiuto dal ricorrente in Italia, sotto ogni profilo, sia linguistico, che di formazione, che di inserimento lavorativo, che costituisce il primo termine di comparazione, lo svaluta poi totalmente fino ad annullarlo, senza procedere al giudizio di comparazione.
17. – Ai fini della valutazione comparativa volta ad accertare la sussistenza o meno della condizione di vulnerabilità gli elementi oggettivi del contesto di provenienza del ricorrente accertati in giudizio (quali la condizione di miseria diffusa nel paese, l’instabilità politica, i ripetuti attacchi terroristici), se da un lato possono essere inidonei al raggiungimento della soglia particolarmente elevata della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, necessaria per il riconoscimento della protezione sussidiaria, non possono essere completamente obliterati al fine della diversa ed autonoma valutazione della condizione di vulnerabilità del ricorrente, costituendo dati obiettivi da tenere in conto al fini del secondo termine di comparazione, ovvero della situazione che ritroverebbe in caso di ritorno in patria.
18. Ove poi sia denunciata in modo sufficientemente specifico e riscontrabile nei suoi postumi sulla persona, non può neppure essere totalmente ignorata, ai fini della valutazione comparativa, la denuncia delle sevizie subite nel paese di transito, della quale va valutata l’incidenza, ben potendo, la valutazione comparativa tra la condizione soggettiva ed oggettiva in cui lo straniero si troverebbe nel paese di provenienza ed il livello di integrazione raggiunto in Italia, porsi giuridicamente in termini attenuati, quando non recessivi, di fronte ad un evento in grado di incidere per il forte grado di traumaticità, sulla condizione di vulnerabilità della persona.
In accoglimento del secondo motivo, la sentenza deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il primo motivo, accoglie il secondo, cassa e rinvia anche per le spese alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 13 gennaio 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2021