LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PERRINO Angel – Maria –
Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 4070/2014 R.G. proposto da:
I.B., rappresentato e difeso dall’avv. Luigi Quercia, con domicilio eletto in Roma, Viale del Vignola n. 5, presso lo studio dell’avv. Livia Ranuzzi;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle entrate;
– intimata –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 57/13/13, depositata l’8 luglio 2013.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14 aprile 2021 dal Consigliere Enrico Manzon;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale de Augustinis Umberto, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Puglia, previa riunione, rigettava gli appelli proposti da I.B. avverso le sentenze nn. 14/10/11-31/19/12 della Commissione tributaria provinciale di Bari ed accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, nonché rigettava l’appello incidentale proposto dallo I. avverso la sentenza n. 203/24/11 della Commissione tributaria provinciale di Bari, con le quali erano stati parzialmente accolti ovvero rigettati i ricorsi contro gli avvisi di accertamento per II.DD. ed IVA 2003/2007, distintamente proposti dal contribuente per ogni annualità.
La CTR, nella parte che qui rileva, osservava in particolare che:
– non sussisteva alcun vizio motivazionale delle sentenze impugnate, alle quali anzi riteneva di doversi riferire per i compiuti percorsi argomentativi;
– nemmeno si potevano ritenere invalidi gli atti impositivi impugnati per vizi delle rispettive motivazioni, basandosi gli stessi sulle approfondite indagini della GdF anche presso soggetti terzi, le dichiarazioni dei quali potevano essere senz’altro valorizzate ai fini probatori delle allegazioni agenziali;
– non erano fondate le eccezioni con le quali si lamentava la mancata applicazione delle regole del processo penale alle verifiche originanti le riprese fiscali, trattandosi di attività amministrativa, con regole sue proprie, che erano state pienamente rispettate, senza alcuna violazione del diritto di difesa;
– da dette dichiarazioni di soggetti terzi emergeva la falsità materiale delle fatture oggetto di contestazione, alcune per il profilo oggettivo (insistenza dell’operazione fatturata), altre per quello soggettivo (non riferibilità al soggetto indicato quale emittente);
– la falsificazione di tali fatture rendeva non deducibili ai fini delle imposte dirette i costi esposti nelle medesime né detraibile l’IVA correlativa;
– ugualmente dovevano considerarsi fondate le riprese inerenti l’omessa annotazione di ricavi nelle annualità fiscali oggetto della verifica e degli avvisi di accertamento impugnati;
– conseguentemente risultavano legittime le sanzioni irrogate, peraltro irrogate nei minimi edittali.
In virtù di tali considerazioni la CTR pugliese adottava detto dispositivo, implicante la piena conferma degli atti impositivi oggetto del processo in relazione agli anni 2003-2004-2005-2007, quella parziale dell’avviso di accertamento relativo all’anno 2006.
Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il contribuente deducendo dieci motivi.
L’Agenzia delle entrate non si è costituita in questo giudizio, rimanendo intimata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Deve essere, in via preliminare, esaminata la questione degli effetti derivanti dalla circostanza che le conclusioni del Procuratore generale sono state formulate e spedite alla cancelleria della Corte in data 31 marzo 2021, dunque tardivamente (di un giorno) rispetto al termine prescritto dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176 del 2020), che lo individua nel “quindicesimo giorno precedente l’udienza” (nella specie corrispondente al 30 marzo), prevedendo poi – in conformità alla regola generale – che i difensori delle parti possono depositare memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c. “entro il quinto giorno antecedente l’udienza”.
Il Collegio ritiene che la tardività sia fonte di nullità processuale di carattere relativo, la quale, pertanto, resta sanata a seguito dell’acquiescenza delle parti ai sensi dell’art. 157 c.p.c..
Premesso, infatti, che l’intervento del Procuratore generale nelle udienze pubbliche dinanzi alle Sezioni unite civili e alle sezioni semplici della Corte di Cassazione è obbligatorio – a pena di nullità assoluta rilevabile d’ufficio (art. 70 c.p.c. e art. 76 ord. giud.) in ragione del ruolo svolto dal Procuratore generale a tutela dell’interesse pubblico, la tempestività dell’intervento, in relazione al disposto del D.L. n. 137 del 2020, citato art. 23, comma 8-bis opera invece esclusivamente a tutela del diritto di difesa delle parti, con la conseguenza che deve ritenersi rimessa a queste ultime la facoltà e l’onere – di eccepirne la tardività, in base alla disciplina prevista per le nullità relative.
Ciò posto, con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., poiché la CTR ha ritenuto assolto l’onere dell’agenzia fiscale di provare la fondatezza delle riprese fiscali di cui agli avvisi di accertamento impugnati, con particolare riguardo all’inesistenza dei costi ed ai maggiori ricavi accertati, basandosi esclusivamente su dichiarazioni di terzi ed elementi presuntivi riguardanti altre imprese con le quali aveva avuto rapporti di affari. Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, poiché la CTR ha affermato la sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti a sostegno degli atti impositivi impugnati, essendo essi basati esclusivamente su dichiarazioni di soggetti terzi, senza corredo di elementi probatori ulteriori.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono inammissibili e comunque infondate.
In primo luogo devono ribadirsi i principi di diritto seguenti:
-“In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015);
-“Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (Cass. n. 9097 del 07/04/2017);
-“In tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (cd. vizio di sussunzione) postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicché è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito” (Cass., n. 6035 del 13/03/2018, Rv. 648414 – 01).
L’articolazione dei mezzi in esame evidentemente collide con il perimetro del giudizio di legittimità, secondo il parametro evocato (violazione/falsa applicazione di norme di diritto), quale tracciato dai citati, consolidati, arresti giurisprudenziali.
In buona sostanza, inammissibilmente, il ricorrente con le due censure mira ad una “revisione” del giudizio sul meritum causae, che è di esclusiva competenza del giudice tributario speciale ed è invece inibito a questa Corte.
Peraltro va anche ribadito che “La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5” (tra le molte, v. Cass., n. 17313 del 19/08/2020, Rv. 658541 – 01).
Orbene, appare chiaro che con le censure in esame il ricorrente si pone in contrasto con tale consolidato principio di diritto, poiché la sua critica non riguarda appunto l’attribuzione dell’onere della prova in ordine alla fondatezza dei fatti costitutivi delle pretese creditorie erariali, bensì il giudizio di assolvimento di tale onere, pur correttamente imputato, da parte del giudice tributario di appello. Le censure sono comunque infondate.
In relazione alla valorizzazione delle dichiarazioni di soggetti terzi va rilevato che la CTR pugliese ha argomentato puntualmente sugli ulteriori – elementi che le suffragano, particolarmente in ordine alla circostanza – fondamentale – che le fatture in contestazione risultano materialmente alterate e si è dunque pienamente uniformata al principio di diritto secondo il quale “Nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (Cass., n. 9080 del 07/04/2017, Rv. 643624 – 01) e comunque a quello, ancor più generale, che “Nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio” (Cass., n. 9316 del 20/05/2020, Rv. 657774 – 01).
Peraltro bisogna anche conclusivamente osservare che è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che “Il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prova che ritenga più attendibili e idonee alla formazione dello stesso, né gli è richiesto di dar conto, nella motivazione, dell’esame di tutte le allegazioni e prospettazioni delle parti e di tutte le prove acquisite al processo, essendo sufficiente che egli esponga – in maniera concisa ma logicamente adeguata – gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione e le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo svolto” (Cass., n. 29730 del 29/12/2020, Rv. 660157 – 01).
Con il secondo, il sesto ed il decimo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – il ricorrente si duole di vizio motivazionale (motivazione insufficiente), poiché la C11 rispettivamente in ordine alla valutazione delle prove che aveva offerto nel giudizio di merito, alla falsità delle fatture in contestazione ed ancora in ordine alle prove che aveva prodotto relativamente all’effettiva sussistenza dei costi d’impresa che dette fatture asseveravano.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione giuridica, sono inammissibili.
La sentenza impugnata è stata depositata l’8 luglio 2013 e dunque nella piena vigenza della versione attuale del parametro di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
I mezzi in esame sono stati articolati secondo la formulazione antevigente e va perciò ribadito che “In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass., n. 23940 del 12/10/2017, Rv. 645828 – 01).
Peraltro la motivazione della sentenza impugnata è tutt’altro che al di sotto del “minimo costituzionale” (cfr. Cass., Sez. U, 8053/2014), sicché comunque le dedotte censure, ancorché “riqualificate” secondo detto principio di diritto, sarebbero comunque infondate.
Con il quarto e con il quinto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 115, c.p.c., poiché la CTR non ha valorizzato in suo favore la mancata “specifica contestazione” da parte dell’Ente impositore delle sue allegazioni difensive (e probatorie) rispettivamente in ordine alla contestazione della fittizietà dei costi ed alla contestazione (presuntiva) di ricavi non contabilizzati.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione giuridica, sono inammissibili e comunque infondate.
Anzitutto, in termini generali, il Collegio ritiene di doversi uniformare all’orientamento secondo il quale “Nel vigore del novellato art. 115 c.p.c., a mente del quale la mancata contestazione specifica di circostanze di fatto produce l’effetto della “relevatio ad onere probandi”, spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte” (Cass., n. 3680 del 07/02/2019, Rv. 653130 – 01), il che appunto evidenzia l’inammissibilità dei mezzi de quibus, in quanto implicanti una valutazione sul materiale probatorio di esclusiva competenza del giudice del merito.
Comunque va ribadito che “Nel processo tributario, nell’ipotesi di ricorso contro l’avviso di accertamento, il principio di non contestazione non implica a carico dell’Amministrazione finanziaria, a fronte dei motivi di impugnazione proposti dal contribuente, un onere di allegazione ulteriore rispetto a quanto contestato mediante l’atto impositivo, in quanto detto atto costituisce nel suo complesso, nei limiti delle censure del ricorrente, l’oggetto del giudizio” (Cass., n. 19806 del 23/07/2019, Rv. 654953 – 01).
Con l’ottavo ed il nono motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – il ricorrente lamenta la violazione della L. n. 44 del 2012, art. 8, poiché la CTR ha escluso la deducibilità ai fini delle imposte reddituali dei costi rappresentati nelle fatture contestate dall’agenzia fiscale come inesistenti, senza chiarire quali tra esse lo fossero in termini “soggettivi” e quali in termini “oggettivi”, appunto rilevando tale distinzione ai fini della corretta applicazione dell’evocata disposizione legislativa.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono fondate.
In primo luogo deve rilevarsi che la L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, (come novellato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1) dispone che “Nella determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’art. 530 c.p.p. ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 c.p.p. fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’art. 529 c.p.p., compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi” e che il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, commi 2 e 3, prevede che “2. Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 12 e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 16, comma 3.
3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4-bis previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi. Resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive”.
Quindi il legislatore, con norme espressamente retroattive, ha stabilito per un verso l’indeducibilità dei costi relativi a fatture per operazionirggettivamente inesistenti, ma per altro verso ha imposto la correlativa rettifica dei ricavi.
Questa Corte ha peraltro precisato che:
-“In materia di deducibilità dei costi d’impresa, la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa, come in caso di operazioni oggettivamente inesistenti per mancanza del rapporto sottostante, comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi; tale ultima prova non può, peraltro, consistere nella esibizione della fattura, in quanto espressione cartolare di operazioni commerciali mai realizzate, né nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia” (Cass., n. 33915 del 19/12/2019, Rv. 656602 – 01);
-“In tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, (nella formulazione introdotta dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. in L. n. 44 del 2012), che opera, in ragione del comma 3 della stessa disposizione, quale “jus superveniens” con efficacia retroattiva “in bonam partem”, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che detti costi siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo.(Nella specie la S.C., in applicazione del principio, ha annullato la decisione impugnata che ritenuto “certo” il costo per la mera rappresentazione dello stesso in fattura, senza alcuna valutazione sulla inerenza dello stesso all’attività di impresa)” (Cass., n. 17788 del 06/07/2018, Rv. 649801 – 01).
Ciò posto nell’escludere, come denunciato, sic et simpliciter la deducibilità dei costi relativi alle fatture in contesto, senza operare la, giuridicamente necessaria, distinzione tra fatture “oggettivamente false” e fatture “soggettivamente false”, ma limitandosi ad accertarne in fatto la falsità “materiale” ha violato e falsamente applicato le evocate disposizioni legislative nelle loro specifiche previsioni, come interpretate nella giurisprudenza di legittimità.
Attenendosi a detti principi di diritto il giudice del rinvio dovrà pertanto riesaminare il punto decisionale de quo.
Ne consegue l’assorbimento del settimo motivo, con il quale si è denunziato l’omesso esame del fatto decisivo controverso appunto costituito da detta distinzione ontologica delle fatture in contestazione.
In conclusione, accolti l’ottavo ed il nono motivo del ricorso, assorbito il settimo motivo, rigettati gli altri, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR per nuovo esame ed anche per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie l’ottavo ed il nono motivo del ricorso, assorbito il settimo motivo, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 14 aprile 2021.
Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021
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