Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.20983 del 22/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23361-2015 proposto da:

SOP SRL IN LIQUIDAZIONE, Z.A., S.D., in proprio ed in qualità di soci, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI VILLA SACCHETTI 9, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORIS TOSI;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente avverso la sentenza n. 403/2015 della COMM. TRIB. REG. VENETO, depositata il 24/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/03/2021 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.

RILEVATO

che:

– la S.O.P. S.r.l. (già S.O.P. di S.D. & C. S.n.c.) e i soci S.D. e Z.A. impugnavano gli avvisi di accertamento ai fini IVA, IRPEF e IRAP (anno di imposta 2007) emessi dall’Agenzia delle Entrate e originati da attività ispettiva della Guardia di Finanza, che aveva precedentemente avviato un’indagine nei confronti della Orobase International S.r.l., reperendo (tra l’altro) 16 supporti informatici contenenti contabilità “parallela” riguardante operazioni con altri imprenditori del settore: anche in base alle dichiarazioni dei soci della Orobase, i militari rilevavano, nel processo verbale del 19/10/2010, operazioni commerciali “in nero” tra le due società, poste a base degli atti impositivi impugnati;

– la Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza rigettava il ricorso della S.O.P. S.r.l. e dei soci S.D. e Z.A.;

– la C.T.R. del Veneto, con la sentenza n. 403/31/15 del 24/2/2015 respingeva l’appello;

– avverso tale decisione la S.O.P. S.r.l. (già S.O.P. di S.D. & C. S.n.c.) e i soci S.D. e Z.A. hanno proposto ricorso per cassazione basato su dieci motivi;

resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

CONSIDERATO

che:

1. Col primo motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto “che l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Vicenza, abbia ottemperato, seppur parzialmente, al proprio onere probatorio” (pag. 33 del ricorso); la parte ricorrente sostiene che il giudice d’appello ha erroneamente confermato la pretesa tributaria, la cui prova era a carico dell’Agenzia delle Entrate, nonostante la genericità e contraddittorietà degli elementi addotti.

Il motivo è inammissibile.

Con la censura – oltretutto formulata in maniera generica, perché priva di una specifica critica della decisione d’appello (in proposito, Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 15517 del 21/07/2020, Rv. 658556-01, e Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020, Rv. 658610-01) i ricorrenti mirano, inammissibilmente, ad ottenere un nuovo sindacato sulla valutazione del materiale probatorio già compiuta dal giudice di secondo grado.

A riguardo, con specifico riferimento alla dedotta violazione dell’ art. 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., questa Corte ha già statuito, con principi dai quali non vi è alcun motivo di discostarsi, quanto segue: “In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c., è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037-02); “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c., si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892-01).

2. Col secondo motivo i ricorrenti deducono (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, degli artt. 115 e 221 c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto che “le dichiarazioni di terzi assumano valore probatorio e che sia onere, pena riconoscimento della fondatezza del loro contenuto, proporre querela avverso le stesse” (pag. 36 del ricorso); i ricorrenti censurano la decisione d’appello nella parte in cui il giudice di merito ha affermato che “le dichiarazioni di terzi (amministratori della società Orobase srl) costituiscono degli elementi di prova a prescindere dalla contabilità (…), per cui i contribuenti che le ritengano false devono presentare l’atto di querela. La mancata segnalazione va considerata come forma di acquiescenza”.

La censura è solo parzialmente fondata e, tuttavia, la stessa non può condurre alla cassazione della decisione potendo questa Corte, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., procedere a correzione della motivazione.

Il giudice d’appello ha attribuito alle dichiarazioni degli amministratori della Orobase S.r.l. (società presso la quale erano stati rinvenuti i supporti digitali contenenti la contabilità parallela), che hanno fornito spiegazioni ai militari della Guardia di Finanza e ricostruito le operazioni “in nero” con la S.O.P., il valore di “elementi di prova” e, cioè, di elementi idonei alla formazione del convincimento del giudicante.

Contrariamente agli assunti della ricorrente, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, nella parte in cui esclude l’ammissibilità delle prove testimoniali, non impedisce l’acquisizione di dichiarazioni di terzi trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, e la loro efficacia probatoria è riconosciuta anche da recente giurisprudenza di legittimità: “Nel processo tributario, le dichiarazioni rese da un terzo, inserite, anche per riassunto, nel processo verbale di constatazione e recepite nell’avviso di accertamento, hanno valore indiziario e possono assurgere a fonte di prova presuntiva, concorrendo a formare il convincimento del giudice anche se non rese in contraddittorio con il contribuente, senza necessità di ulteriori indagini da parte dell’Ufficio” (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 9316 del 20/05/2020, Rv. 657774-01).

Le predette dichiarazioni, dunque, possono fondare una prova presuntiva, che può essere superata da contrastanti elementi probatori senza, però, che sia necessaria la proposizione della querela di falso, non trattandosi di asserzioni dotate di fede privilegiata, nemmeno quando riportate nel processo verbale di constatazione (il quale ha efficacia fidefacente con riguardo alla loro provenienza, ma non alla veridicità del loro contenuto).

Erra, perciò, la C.T.R. nell’affermare che i contribuenti avrebbero dovuto proporre querela di falso a pena di “acquiescenza”, ma, come già esposto, tale (erronea) statuizione – che non incide su quella antecedente (esatta) concernente il riconoscimento del valore probatorio delle dichiarazioni – può essere corretta ex art. 384 c.p.c., ribadendo il principio del capoverso precedente.

3. Col terzo motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, perché la C.T.R. “non ha risposto al motivo di doglianza sollevato dagli appellanti” (pag. 42 del ricorso) riguardante l’illegittimo impiego dello strumento dell’accertamento parziale D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 41-bis, in assenza di elementi di prova tali da consentire all’Ufficio di accertare ictu oculi l’evasione fiscale.

La stessa omissione del giudice d’appello è denunciata – col quarto motivo – come vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Dall’illustrazione del terzo motivo si evince che il richiamo del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, è incompleto, perché il vizio che si imputa alla motivazione della decisione impugnata è la minuspetizione (art. 112 c.p.c.), non avendo il giudice d’appello esaminato una censura che era già stata sottoposta al giudice di prime cure e ribadita nel secondo grado.

Si rileva che la C.T.R. ha effettivamente omesso di pronunciarsi sul menzionato motivo d’appello.

Tuttavia, “La mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonché dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 2731 del 02/02/2017, Rv. 642269-01).

Il predetto motivo, non esaminato dal giudice d’appello, è comunque infondato.

Infatti, l’accertamento parziale “e’ uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, (e) non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 39, e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole” (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 28681 del 07/11/2019, Rv. 655548-01); inoltre, l’accertamento parziale “può essere legittimamente adottato anche su iniziativa propria dell’ufficio titolare del potere di accertamento generale, essendo irrilevante che la segnalazione provenga da un soggetto estraneo all’amministrazione o da fonti ad essa interne” (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 6243 del 05/03/2020, in motivazione; in precedenza anche Cass., Sez. 5, Sentenza n. 27323 del 23/12/2014, Rv. 63372501).

Il quarto motivo, che reitera le medesime censure svolte col terzo, è manifestamente inammissibile, sia perché, a norma dell’art. 348-ter c.p.c., il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado “può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)”, sia perché, comunque, non può identificarsi un “fatto storico” non considerato nella censura svolta dalla parte appellante.

4. Col quinto motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, perché la C.T.R. “non ha risposto al motivo di doglianza sollevato dagli appellanti” (pag. 53 del ricorso) riguardante l’inesistenza di cessioni d’oro tra Orobase e S.O.P., “non prendendo atto delle contrastanti deduzioni di S.O.P. e dei soci” (pag. 43).

La stessa doglianza è dedotta con la sesta censura (ricondotta all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), come omesso esame di un fatto decisivo, per avere la C.T.R. reso una motivazione apparente sul motivo d’appello riguardante l’inesistenza di cessioni d’oro tra Orobase e S.O.P..

Il quinto motivo è inammissibile, sia perché si deduce – oltretutto, in maniera generica e confusa – l’errata valutazione delle risultanze probatorie da parte del giudice di merito (che ha inequivocabilmente accertato, con valutazione del materiale probatorio non sindacabile in sede di legittimità, che l’Agenzia ha dimostrato l’esistenza di resi di oro – specificamente, gr. 3.144,39 – dalla società qui ricorrente alla Orobase International), sia perché si incentra su un obiter dictum (come tale, ininfluente sulla decisione) della sentenza riguardante la distinzione tra contratto d’opera e appalto.

Il sesto motivo, che reitera le medesime censure svolte col quinto, è manifestamente inammissibile, sia perché, a norma dell’art. 348-ter c.p.c., il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado “può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4)”, sia perché, comunque, non può identificarsi un “fatto storico” non considerato nella censura svolta dalla parte appellante.

Peraltro, la C.T.R. ha dato atto di aver esaminato e valutato il materiale probatorio e, contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, il giudice di merito non è “tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16056 del 02/08/2016, Rv. 641328-01); infatti, “Il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l'”iter” argomentativo seguito.” (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 12652 del 25/06/2020, Rv. 658279-01).

5. Col settimo motivo i ricorrenti lamentano (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 2 e 5, per avere la C.T.R. confermato le sanzioni applicate senza prendere “atto che non vi è stato alcun comportamento doloso o colposo da parte di S.O.P.”.

Il motivo è inammissibile, prima ancora che infondato.

Dal ricorso introduttivo si evince che in primo grado era stata eccepita l’illegittimità delle sanzioni per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, e che in secondo grado era stato formulato un motivo d’appello concernente, genericamente, l’illegittimità delle sanzioni irrogate: la censura non riporta il contenuto delle doglianze precedentemente avanzate, né delle eventuali deduzioni a sostegno della carenza di dolo o colpa e, dunque, non rispetta l’art. 366 c.p.c..

Anche a voler desumere dal riferimento al citato art. 5, che i ricorrenti avessero inteso dedurre l’assenza dell’elemento soggettivo, si osserva che la C.T.R. ha inequivocabilmente ravvisato la violazione di norme tributarie e che “ai fini dell’affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, è sufficiente una condotta cosciente e volontaria, senza che occorra, da parte dell’Amministrazione finanziaria, la concreta dimostrazione del dolo o della colpa (o di un intento fraudolento), atteso che la norma pone una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico di colui che lo abbia commesso” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22329 del 13/09/2018, Rv. 650506-01).

6. Con l’ottavo motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 112 c.p.c., perché la C.T.R. “non ha preso atto che SOP non aveva una struttura per effettuare le lavorazioni ipotizzate” (pag. 55 del ricorso).

La censura è manifestamente inammissibile.

Si deduce una carenza di motivazione, reputata insufficiente, quando, al contrario, il giudice d’appello ha espressamente considerato la deduzione della società circa l’assenza di una struttura per l’espletamento dell’attività accertata e ha ritenuto, compiendo una valutazione delle risultanze istruttorie, che tale asserzione sia rimasta indimostrata: il motivo si risolve, dunque, in un inammissibile tentativo di investire la Corte di legittimità di una rivalutazione del materiale probatorio.

7. Col nono motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 112 c.p.c., perché la C.T.R. “non riconosce la sussistenza di maggiori costi in base ad una motivazione contraddittoria” (pag. 57 del ricorso).

Il motivo è inammissibile.

Come già esposto con riguardo alla censura precedente, si rileva che la parte ricorrente mira a contrastare un’univoca – per nulla contraddittoria – affermazione del giudice di merito, il quale ha statuito che “la società non ha dimostrato l’avvenuto sostenimento di costi aggiuntivi rispetto a quelli evidenziati nella contabilità per cui non è possibile riconoscere alcuna ulteriore deduzione”.

La pretesa contraddittorietà non emerge dal testo della sentenza, ma – nella (infondata) tesi dei ricorrenti – dalla mancata considerazione di elementi (l’incidenza di “costi neri” afferenti le lavorazioni non contabilizzate) che il giudice di merito, nel valutare le prove, non avrebbe considerato: si deve in proposito ribadire che l’esercizio del potere di apprezzamento delle prove (anche presuntive) non può essere oggetto di ricorso per cassazione se non ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e solo nei rigorosi limiti – nella specie non rispettati – in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass., Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037-02).

8. Col decimo motivo si denuncia (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) la nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 112 c.p.c., perché la C.T.R. “non ha risposto a tutte le domande formulate da SOP e dai soci” (pag. 62 del ricorso).

Anche tale motivo è inammissibile.

I ricorrenti censurano la sentenza perché non ha reso una decisione sulla dedotta carenza di motivazione dell’avviso di accertamento, sull’acriticità del rinvio ivi contenuto al processo verbale di constatazione, sulla genericità dell’autorizzazione rilasciata dal Pubblico Ministero (allegata al p.v.c.) condizionante l’utilizzabilità nei confronti di S.O.P. degli esiti dell’indagine condotta nei confronti di Orobase International, sull’errata ricostruzione dei ricavi resasi ostativa al ricorso alla mediazione e al reclamo D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17-bis.

Oltre a ribadire che il giudice di merito “non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito” (tra le altre, Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 12652 del 25/06/2020, Rv. 658279-01), questa Corte rileva che l’inammissibilità deriva in primis dall’aver formulato la censura senza rispettare il disposto dell’art. 366 c.p.c..

Difettano, infatti, sia una dettagliata ricostruzione del fatto processuale che consenta di comprendere la portata delle questioni sollevate e il momento in cui le stesse sono state proposte (e/o riproposte col gravame), sia la trascrizione dell’avviso di accertamento, del verbale di constatazione e dell’autorizzazione del Pubblico Ministero, documenti sui quali si incentra la generica e confusa censura in esame.

9. In conclusione, il ricorso è respinto.

Alla decisione fa seguito la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di cassazione, le quali sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo secondo i vigenti parametri.

10. Stante il rigetto dell’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso;

condanna S.O.P. S.r.l., S.D. e Z.A., in solido tra loro, a rifondere ad Agenzia delle Entrate le spese di questo giudizio, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre a spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di S.O.P. S.r.l. e dei soci S.D. e Z.A., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 25 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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