Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.21046 del 22/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27668/2014 R.G. proposto da:

CENTRO SERVIZI ROMANO spa, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente tra loro, dagli avv.ti prof. Puri Paolo, e dall’avv. Mula Alberto, presso il cui studio in Roma, via XXIV Maggio n. 43, e’ elettivamente domiciliata;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 2050/38/2014 della Commissione tributaria regionale per il Lazio, depositata il 1/4/2014 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/5/2021 dalla Dott.ssa Pirari Valeria.

RILEVATO

Che:

1. In seguito agli esiti di una verifica fiscale confluiti nel processo verbale di constatazione del 13/4/2007, l’Agenzia delle Entrate, in data 31/12/2009, notificò alla società Centro Servizi Romano s.p.a. avviso di accertamento col quale contestò, per l’anno di imposta 2004, maggiori Ires in relazione 1) ai costi per il perfezionamento del condono fiscale si sensi della legge del 27 dicembre 2002, n. 289, asseritamente indeducibili, 2) ai costi relativi a spese della procedura fallimentare ritenuti indeducibili in quanto asseritamente non documentati, e a 3) perdite pretesamente indeducibili in quanto ritenute prive dei requisiti D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ex art. 101, comma 5; maggiore Irap, con riguardo a) ai costi non documentati relativi a spese della procedura fallimentare, b) alla indeducibilità D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, ex art. 11, comma 1, lett. b), su una quota dei canoni versati in forza di contratti di lease-back, siccome considerata relativa a interessi impliciti esclusi dal computo dell’imponibile, e c) alla maggiore base imponibile – insussistenza di passivo; maggiore Iva, con riguardo all’imposta indetraibile in quanto non inerente, irrogando anche sanzione amministrativa.

Impugnato il predetto atto dalla contribuente, la C.T.P. di Roma, con sentenza n. 438/53/12, accolse parzialmente il ricorso limitatamente alle doglianze rivolte alla indeducibilità ai fini Irap di una quota di canoni di lease-back e al disconoscimento della detrazione Iva e lo respinse con riferimento al disconoscimento ai fini Ires delle perdite su crediti e alla indeducibilità dagli imponibili Ires e Irap delle spese per la procedura fallimentare.

L’Ufficio con ricorso principale e la contribuente con appello incidentale proposero gravame avverso tale sentenza, che esitò nella sentenza n. 2050/38/14, depositata il 1 aprile 2014, con la quale la C.T.R. del Lazio accolse l’appello dell’Ufficio e respinse quello incidentale della contribuente.

2. Contro la predetta sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo di ricorso, la contribuente lamenta la violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 101, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. disconosciuto la deducibilità della perdita su crediti vantati nei confronti della società Pasta Romana s.r.l. in ragione della reputata insussistenza dei requisiti di certezza e precisione richiesti dal citato art. 101, comma 5, che sarebbero potuti derivare dall’effettivo tentativo di recupero del credito con esito negativo. La contribuente ha affermato, infatti, che., sicché qualsiasi azione giudiziale di recupero coattivo del credito o la richiesta di fallimento della debitrice non avrebbero consentito il recupero della parte di credito svalutata, oltre ad essere inutile e controproducente. Peraltro, la debitrice aveva effettuato l’operazione di conferimento d’azienda nella società IPA, divenendone socia, e la successiva cessione della propria quota di partecipazione nella IPA alla Savez di P.G. e C. s.a.s., proprio al fine di rifonderle parzialmente il credito. Ad avviso della contribuente, infine, i requisiti posti dalla norma non derivavano dalla perdita in sé, ma dagli elementi da cui trarre la valutazione di irrecuperabilità del credito.

2. Col secondo motivo si lamenta la violazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, comma 1, lett. b), n. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto che tale norma sia applicabile anche ai canoni per contratti di lease-back stipulati dalla società e che pertanto una quota degli stessi non possa essere dedotta dall’imponibile Irap in quanto asseritamente riconducibile a interessi impliciti, stante l’assimilabilità di tale contratto a quello di locazione finanziaria in ragione della identità di causa negoziale e di funzione finanziaria. La contribuente ha invece escluso che una parte dei canoni potesse essere imputata a interessi passivi in assenza di qualsiasi finanziaria e che il lease back fosse sempre assimilabile al contratto di locazione finanziaria, in quanto mentre nel primo caso il bene è già nel possesso dell’impresa, che si limita a trasferirne la proprietà e ad assicurarsene la disponibilità, modificando la propria struttura patrimoniale, sicché il canone pagato è teso esclusivamente a remunerare la disponibilità del bene senza alcuna componente finanziaria, nel secondo il bene non è nella sua disponibilità, avendo l’operazione la finalità di garantirne l’acquisizione attraverso la messa a disposizione della relativa provvista finanziaria, sicché i giudici avrebbero dovuto procedere ad una verifica in concreto del contratto. Inoltre, la stessa appendice D del nuovo principio contabile OIC 12 del 2014 contempla la possibilità che il lease-back sia riconducibile alla fattispecie del leasing operativo e non per forza del leasing finanziario, derivando la distinzione tra le due tipologie di negozio a) dalla durata del contratto di leasing, b) dalla vita utile stimata del bene che ne è oggetto e c) dal valore residuo al momento della sua riconsegna, ed essendo ravvisabile la natura finanziaria del contratto soltanto in caso di durata del contratto pari o vicina alla vita utile del bene, ma non anche dalla situazione contraria, come nella specie, nella quale, peraltro, l’oggetto del contratto era costituito da beni immobili.

3. Col terzo motivo, si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere la C.T.R. riformato la pronuncia di primo grado che aveva riconosciuto la detraibilità dell’Iva addebitata alla contribuente dalla società ImmobilEuro s.r.l.. In particolare, la contribuente, in qualità di locataria, aveva ceduto a quest’ultima società, in data 3/12/2003, un contratto di leasing immobiliare, garantendone il subentro nei contratti di erogazione di servizi già da essa stipulati sugli stessi immobili che ne erano oggetto. La cedente aveva quindi riconosciuto alla cessionaria i canoni (di affitti attivi) che, pur spettando a quest’ultima, aveva continuato a percepire, e questa aveva perciò emesso la relativa fattura con addebito dell’Iva. L’Ufficio (e anche la C.T.R.) aveva disconosciuto la detrazione operata sui predetti canoni sostenendo l’assenza dell’inerenza soltanto in ragione della asimmetria del comportamento tenuto dalla contribuente che non aveva dedotto la relativa fattura ai fini Ires e Irap, senza considerare che la restituzione dei fitti precedentemente introitati indebitamente costituiva un costo deducibile in quanto inerente all’impresa, ciò che avrebbe comportato la detraibilità dell’Iva assolta, restando irrilevante la mancata deduzione del costo ai fini delle imposte dirette.

4. Col quarto motivo, si lamenta la violazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non provata l’esistenza e l’inerenza del costo registrato nel conto mastro acceso per “spese per procedura fallimentare”. A questo riguardo, la contribuente ha evidenziato come l’Ufficio non avesse mai contestato il contenuto dell’assegno del 16/3/2004 dalla stessa emesso all’ordine della procedura fallimentare ***** s.p.a., il quale doveva intendersi imputato all’anno 2004 in quanto era stata provata sia la dichiarazione di fallimento della società avvenuta con sentenza del 17/12/2003, la cui procedura si era chiusa il 7/4/2004 con il rientro in bonis della società, sia, a fronte della registrazione contabile, l’avvenuto versamento delle somme indicate nel titolo, sia l’inerenza di quel pagamento (notoriamente a carico del fallito) in quanto connesso alla procedura fallimentare. Pertanto, considerata la mancata contestazione dell’esistenza dell’assegno, del suo ammontare, del beneficiario e della consistenza delle registrazioni contabili, di cui vi era evidenza nel PVC e nell’avviso di accertamento, la necessità espressa in sentenza della produzione dell’assegno e delle scritture contabili andava considerata errata e oziosa.

5. Il primo motivo è inammissibile.

Occorre preliminarmente ricordare come il vizio di violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) non consista soltanto “nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta”, la quale implica “necessariamente un problema interpretativo della stessa” (si veda da ultimo Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851), ma comprenda altresì “la falsa applicazione della norma, ossia il vizio di sussunzione del fatto”, il quale, oltre a consistere “nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, può pure sostanziarsi nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione”, ferma restando la necessità che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito, poiché altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici (cit. Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851, che richiama Cass. n. 4125 del 2017).

Ed è con riguardo a quest’ultima fattispecie che si sostanzia la censura in esame, la quale pone l’accento sulla corretta interpretazione del disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 5 (già art. 66, comma 3), secondo cui “…le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali” e, in particolare, sulla locuzione “elementi certi e precisi”.

Orbene, secondo l’orientamento pacifico di questa Corte è il contribuente a dover fornire la prova dell’inerenza all’attività imprenditoriale di tale componente negativo del reddito (in tal senso, Cass., Sez. 6-5 8/4/2019, n. 9784) attraverso la dimostrazione, sulla base di elementi certi e precisi, della natura del costo quale componente negativo o, in alternativa, dell’assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, restando altrimenti insuperabile l’accertamento, da parte del fisco, della indeducibilità del credito, specie se basata su contestazioni specifiche e minuziose in ordine a crediti specificamente determinati (cfr Cass., Sez. 5, 14/1/2015, n. 447).

In sostanza, il legislatore ha affidato la deducibilità di perdite su crediti ad un duplice sistema probatorio, quello tipizzato nei contenuti e vincolato negli effetti, dato dall’assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, nel quale il relativo riconoscimento è previsto ope legis, e quello liberamente dimostrabile, anche mediante prova presuntiva, purché sulla base di elementi certi e precisi, i quali vanno riferiti alla inesigibilità del credito in ragione del suo mancato pagamento volontario da parte del debitore o della impossibilità di una sua attuazione coattiva (cfr. Cass., Sez. 5, 14/1/2015, n. 447; Cass., Sez. 5, 4/5/2018, n. 10686), sicché l’automatica deducibilità opera soltanto nel primo caso, stanti le garanzie derivanti dalle procedure concorsuali sul piano della certezza dell’insolvibilità e dell’entità delle perdite, mentre in tutti gli altri casi è richiesta la prova dell’effettiva riduzione di valore del credito, indipendentemente dal corrispettivo pattuito, e dunque della oggettiva definitività della perdita, della quale è onerato il contribuente (Cass., Sez. 5, 03/03/2021, n. 5787).

Che l’accento, in quest’ultima evenienza, sia posto sulla esigibilità del credito e dunque sulla condotta del debitore e non certo su quella del creditore, è del resto arguibile dal fatto che la deduzione delle perdite su crediti può essere operata, secondo il principio di competenza, nell’anno in cui si acquista la certezza che il credito non può più essere soddisfatto, realizzandosi soltanto in quel momento gli elementi “certi e precisi” della sua irrecuperabilità ossia dell’impossibilità del suo soddisfacimento, posto che, altrimenti, si rimetterebbe all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzione, ciò che snaturerebbe la regola espressa dal principio di competenza, che costituisce, invece, criterio inderogabile e oggettivo per determinare il reddito d’impresa (Cass., Sez. 5, 6/10/2017, n. 23330; Cass., Sez. 5, 23/12/2014, n. 27296).

Pertanto, a tale fine, non è necessario che il creditore fornisca la prova di essersi positivamente attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale dell’insolvenza del debitore e, quindi, l’assoggettamento di costui ad una procedura concorsuale, essendo sufficiente che l’inesigibilità risulti documentata in modo certo e preciso (Cass., Sez. 5, 16/03/2001, n. 3862; Cass., Sez. 5, 19/11/2007, n. 23863).

Nella specie, la doglianza non si confronta con il contenuto della sentenza emessa dai giudici di merito, i quali hanno preso espressa posizione sul compendio probatorio offerto dalla contribuente e costituito dalla perizia giurata del 31/5/2004, avente ad oggetto la valutazione di beni dell’azienda debitrice da conferire, assumendone l’inidoneità a “configurare quegli elementi certi e precisi richiesti dalla norma al fine di dimostrare l’inesigibilità del credito e la deducibilità di tale perdita”, così da conformarsi al corretto criterio del riparto dell’onere probatorio operante nella fattispecie in esame. Il richiamo alla “instaurazione di una procedura esecutiva non andata a buon fine o il tentativo di recuperare comunque in tutto o in parte” il credito del contribuente, invece, non ha la funzione, nell’architettura della motivazione, di affermare il contenuto necessario della prova gravante sul contribuente, ma, come chiaramente detto nel provvedimento, di mostrare, a titolo meramente esemplificativo, in quali casi la locuzione “certi e precisi” possa dirsi soddisfatta, senza assumere i caratteri di tassatività e di chiusura rispetto ad altri, diversi elementi rispetto a quelli menzionati, che potrebbero parimenti assolvere alla medesima finalità, come invece implicitamente lamentato.

Può allora dirsi che la censura nasconda in realtà la sostanziale richiesta di un’inammissibile revisione del ragionamento decisorio del giudice, la quale è preclusa al giudice di legittimità (Cass., Sez. 5, 11/6/2020, n. 11227).

6. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Va innanzitutto detto che, in tema di Irap, il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, comma 1, lett. b), n. 6, nella formulazione applicabile ratione temporis, essendo stata la disposizione abrogata dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 50, lett. f), n. 2), con decorrenza dal 1/1/2008, escludeva che dalla base imponibile potesse essere ammesso in deduzione “il canone relativo a contratti di locazione finanziaria limitatamente alla parte riferibile agli interessi passivi determinata secondo le modalità di calcolo, anche forfetarie, stabilite con decreto del Ministro delle finanze” (D.M. 24 aprile 1998).

Ebbene, tale disposizione, pur priva di richiami alla fattispecie del lease-back, è in realtà estensibile ad essa, essendo questa una speciale declinazione del genere “locazione finanziaria” cui la stessa fa riferimento.

Il lease-back (detto anche vendita e locazione finanziaria di ritorno), che ha ricevuto espresso riconoscimento normativo nell’art. 2425-bis c.c. in tema di iscrizione a bilancio delle plusvalenze derivanti appunto da “operazioni di compravendita con locazione finanziaria” (vedi Cass., Sez. 5, 14/1/2015, n. 405), e’, infatti, un contratto d’impresa socialmente tipico (Cass., Sez. 1, 07/05/1998, n. 4612; Cass., Sez. 3, 22/03/2007, n. 6969; Cass., Sez. 3, 14/03/2006, n. 5438), che si configura come un’operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poiché risponde all’esigenza dell’operatore economico (c.d. leasee) di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l’alienazione ad una società di leasing (c.d. lessor), dietro pagamento di un corrispettivo, di un bene strumentale – di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo e pertanto non agevolmente collocabile sul mercato -, di cui mantiene l’uso in ragione della contestuale stipula della locazione in suo favore dietro corresponsione di un canone, con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto attraverso l’esercizio del diritto d’opzione ad un prezzo di regola nettamente inferiore rispetto ai valore effettivo del bene stesso (Cass. Sez. 3, 12/7/2018, n. 18327, non massimata).

A differenza, dunque, di quanto accade nel leasing finanziario “ordinario”, ormai tipizzato per effetto della L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, commi 136-140, (sul punto vedi Cass., Sez. 1, 28/10/2019, n. 27545), con cui l’utilizzatore mira a conseguire la disponibilità di beni strumentali al processo produttivo, nel sale and lease back l’operazione realizzata, avendo ad oggetto un bene già in proprietà del seller-lessee, risponde, dal punto di vista economico-gestionale, “all’esigenza di (auto)finanziamento dell’impresa venditrice, ossia all’esigenza di incrementare il proprio capitale circolante attraverso lo smobilizzo di una parte del capitale fisso, senza peraltro perdere la materiale disponibilità del bene venduto” (Cass.” Sez. 3, 22/2/2021, n. 4664).

Lo schema negoziale tipico seguito in questo genere di operazioni, caratterizzate da una pluralità di negozi collegati funzionalmente e volti al perseguimento di uno specifico interesse pratico (Cass.” Sez. 3, 22/2/2021, n. 4664), è infatti connotato dal fatto che il trasferimento in proprietà del bene all’impresa di leasing costituisce il necessario presupposto per ottenerne la concessione in locazione, la cui funzione tipica si inserisce nell’operazione economica realizzata, sicché la causa concreta che lo caratterizza, autonoma rispetto a quella, parziale, dei singoli contratti, reciprocamente interdipendenti (sì che le vicende dell’uno si ripercuotono sull’altro condizionandone validità ed efficacia), che, pur nella loro persistente individualità, compongono tale negozio (Cass.” Sez. 3, 22/2/2021, n. 4664, cit.), è quella finanziaria ed è data dalla finalità perseguita di aumentare la liquidità del venditore-utilizzatore (Cass. sez. 5, 05/12/2014, n. 25758), non certo quella di un contratto di vendita puro e semplice, mentre resta estranea la funzione di garanzia, non essendo esso, per natura e fisiologico operare, a ciò preordinato, (vedi in tal senso, Cass., Sez. 3, 21/07/2004, n. 13580, in motivazione; Cass., Sez. 5, 29/03/2006, n. 7296), salvo che questa non assurga, in concreto, a causa del contratto, risultando da dati sintomatici e obiettivi che la vendita, nel quadro del rapporto volto a fornire liquidità all’impresa alienante, sia stata utilizzata per rafforzare la posizione del creditore-finanziatore, che tenti di acquisirne la differenza di valore, abusando della debolezza del debitore (Cass., Sez. 3, 21/07/2004, n. 13580).

Proprio in ragione della finalità perseguita, il contratto in esame perviene dunque normalmente al medesimo risultato economico di un’operazione di finanziamento bancario che consente la maggiore deducibilità dei canoni di leasing rispetto ai soli interessi passivi che sarebbero stati deducibili con la stipula di un mutuo (Cass. sez. 5, 05/12/2014, n. 25758, in motivazione; si veda anche Cass., Sez. 5, 14/1/2015, n. 405).

A queste considerazioni è pervenuta questa Corte nell’analizzare il diverso problema della finalità elusiva del comportamento dell’operatore economico che ricorra a tale negozio, ravvisato, ad esempio, in caso di appartenenza di due società al medesimo gruppo di imprese, allorché il contratto di sale and lease back, posto in essere tra le stesse ed avente ad oggetto beni strumentali già ammortizzati dalla società venditrice, è stato considerato non già realizzativo dell’effetto economico proprio della locazione finanziaria, consistente nell’assicurare al locatore una maggiore disponibilità di denaro, ma di un mero vantaggio fiscale, costituito per la società utilizzatrice dalla possibilità di portare in detrazione i canoni di locazione, e per la società locatrice di effettuare nuovamente l’ammortamento dei medesimi beni (Cass. sez. 5, 08/04/2009, n. 8481; Cass., Sez. 5, 27/4/2021, n. 11023).

Ciò non esclude che il sale and lease back possa avere la natura di leasing operativo, come previsto per il leasing ordinario, la cui differenza è data dalla presenza rispettivamente di tre (fornitore, società di leasing e concessionario) e due parti (fornitore-concedente e utilizzatore), quanto all’aspetto soggettivo, dalla diversa ripartizione dei rischi sul bene e dal trasferimento dello stesso al termine del contratto, quanto a contenuti, e dalla finalità di finanziamento o di scambio nell’un caso e di utilizzo durevole del bene nell’altro, così da imporre la verifica della causa attraverso la disamina delle clausole contenute nel contratto.

Ciò detto, deve escludersi che, nella specie, i giudici di merito abbiano dato per assodata l’impossibilità di configurare questo genere di lease back, sottraendosi alla necessità di analizzare nel dettaglio i contenuti del contratto sottoposto al loro esame, come vorrebbe la contribuente, essendo evidente che l’analisi compiuta in sentenza abbia avuto ad oggetto proprio la fattispecie negoziale concreta sottoposta alla loro attenzione, stante il richiamo alle statuizioni contenute nella sentenza di primo grado che a questa hanno fatto riferimento per escluderne l’equiparabilità al leasing finanziario, ritenuta invece sussistente in secondo grado e necessitante, in quanto tale, dello scorporo dal canone degli interessi impliciti.

E allora non può non evidenziarsi come l’articolazione della censura pecchi di genericità, avendo il contribuente omesso di segnalare e descrivere nel dettaglio tutte le clausole contrattuali che avrebbero consentito di qualificare il negozio come operativo piuttosto che finanziario, così impedendo di verificare la decisività della doglianza.

Questa Corte intende, infatti, dare continuità al principio secondo cui, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata la qualificazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, ma debbono essere proposte sotto il profilo della mancata osservanza dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. o dell’insufficienza o contraddittorietà della motivazione, e, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso, debbono essere accompagnate dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti (la cui ricerca, che integra un accertamento di fatto, è preliminare alla qualificazione del contratto) e dunque dalla riproduzione in esso del testo della fonte pattizia invocata, al fine di consentire, in sede di legittimità, la verifica dell’erronea applicazione della disciplina normativa, non potendosi sopperire alle lacune dell’atto di impugnazione con indagini integrative. (Cass., Sez. 5, 4/6/2010, n. 13587; Cass., Sez. 3, 8/3/2019, n. 6735).

Non avendo la ricorrente ottemperato a questo preciso obbligo, stante la laconicità della descrizione del negozio, affidata al mero suo oggetto (leasing immobiliare), alla durata (16 anni) e al prezzo fissato per il riscatto, meramente indicato come “molto elevato, ovvero, pari a circa un terzo del valore del bene”, senza alcun altra specificazione, la censura è da considerarsi generica, non rispondendo ai criteri delineati dai sopra indicati principi.

7. Il terzo motivo è invece inammissibile, stante la genericità dell’esposizione dello stesso in quanto mancante dell’individuazione di fatti controversi in senso tecnico.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, prevede, infatti, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione come riferita ad un preciso accadimento o ad una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a questioni o argomentazioni che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (Cass., Sez. 5, 8/10/2014, n. 21152; Cass., Sez. 3, 20/8/2015, n. 17037; Cass., Sez. 1, 8/8/2016, m. 17761; Cass., Sez. 2, 29/10/2018, n. 27415). Peraltro si deve trattare di un fatto principale ex art. 2697 c.c., ossia un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche un fatto secondario, purché controverso e decisivo (Cass., Sez. 1, 8/8/2016, n. 17761; Cass., Sez. 6, /10/2017, n. 23238), mentre è inammissibile la revisione del ragionamento decisorio del giudice, atteso che questa Corte non può mai procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa e che il vizio non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, controllare attendibilità e concludenza delle prove e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova, sicché mai può essere censurata in sé la valutazione degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass., Sez. 5, 11/6/2020, n. 11227).

Non essendo chiaro perciò quale sia il fatto decisivo omesso dalla C.T.R., ne deriva l’inammissibilità del motivo.

Va peraltro detto che, anche analizzando nella sua interezza la doglianza, essa non si confronta con le considerazioni espresse nella sentenza impugnata dai giudici di merito, i quali non hanno affatto detto che il motivo del rigetto della censura relativa alla fattura della ImmobilEuro emessa con riguardo alla cessione dei contratti di leasing fosse dovuto al fatto che la contribuente aveva contraddittoriamente ripreso a tassazione il relativo costo ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, per poi detrarre la stessa ai fini Iva, avendo semmai fondato la decisione sulla affermata nullità ab origine di quel contratto.

Ne deriva dunque la inammissibilità del motivo.

8. Il quarto motivo è infondato.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il principio generale di non contestazione, proprio del processo civile e fondato tanto sull’art. 115 c.p.c., in ragione del carattere dispositivo dello stesso e della struttura dialettica a catena nella generale organizzazione per preclusioni successive che lo connota, sui doveri di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., che impongono alle parti di collaborare fin dall’inizio a circoscrivere la materia effettivamente controversa, e sul dovere di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., trova applicazione anche nel processo tributario, in quanto caratterizzato, al pari di quello civile, dalla necessità della difesa tecnica e da un sistema di preclusioni, nonché dal rinvio alle norme del codice di procedura civile, in quanto compatibili, senza che assumano rilevanza, in senso contrario, le peculiarità dello stesso, quali il carattere eminentemente documentale dell’istruttoria e l’inapplicabilità della disciplina dell’equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass. Sez. 5, 01/10/2018, n. 23710; Cass., Sez. 5, 6/2/2015, n. 2196; Cass., Sez. 5, 24/1/2007, n. 1540; Cass., Sez. 5, 1/10/2018, n. 23710). Tuttavia, in quanto correlato, in questo ambito, alla natura indisponibile dei fatti controversi e alla specialità del contenzioso, esso opera esclusivamente sul piano probatorio, sempreché il giudice, in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, non ritenga di escluderne l’esistenza (Cass., 2020, n. 8489; Cass., Sez. 5, 18/5/2018, n. 12287), sicché la mancata presa di posizione dell’Ufficio sui motivi di opposizione del contribuente alla pretesa impositiva, proposti in via subordinata, non equivale ad ammissione dei fatti posti a fondamento di essi, né determina il restringimento del thema decidendum ai soli motivi contestati, essendo consentito all’Ente impositore, in caso di rigetto dell’intera domanda del contribuente e delle relative questioni dedotte in via principale, di scegliere, nel prosieguo del giudizio, tra tutte le possibili argomentazioni difensive rispetto ai motivi di opposizione (Cass., Sez. 5, 13/3/2019, n. 7127) Nella specie, la contribuente pretende di dedurre dai contenuti dell’avviso di accertamento e dal p.v.c. la non contestazione, da parte dell’Ufficio, della riconducibilità del costo riportato nell’assegno del 16/3/2004 alla procedura fallimentare, senza considerare che proprio gli stralci dei predetti atti, riportati in ricorso, conducono a risultati affatto differenti, risultando da essi come l’Ufficio, fin dalla fase amministrativa, avesse contestato l’idoneità del titolo e del conto della gestione prodotti a dimostrare l’inerenza del costo e avesse peraltro evidenziato, nel processo di merito, come il compenso legale per prestazioni professionali fornite durante la procedura fallimentare fosse stato già imputato in altro conto di mastro, ossia in quello “consulenze”.

Pertanto, i giudici di merito, allorquando hanno evidenziato la mancata produzione in giudizio dell’assegno e delle registrazioni contabili e di qualsiasi altra documentazione idonea a dimostrare l’inerenza del costo, hanno sostanzialmente reputato insussistente la condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, nell’ambito di un giudizio di fatto ad essi riservato (in tal senso, Cass., Sez. 6-1, 7/2/2019, n. 3680).

Ne deriva l’infondatezza del motivo.

9. In conclusione, dichiarata l’inammissibilità del secondo e terzo motivo e l’infondatezza del primo e del quarto, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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