LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 32721-2018 proposto da:
SCS ITALIA NET SRL, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA MONDELLI; ed elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL POZZETTO 122, presso lo studio dell’avvocato CINZIA TRIVELLONI, pec:
nicolamondelli.pecgiuffre.it;
– ricorrenti –
contro
TELECOM ITALIA SPA, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dall’avvocato ARTURO LEONE, e dall’avvocato OSVALDO LOMBARDI, ed elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dei medesimi in VIA FLAMINIA 133, pec:
arturoleone.avvocatiroma.org osvaldo.lombardi.legalmail.it;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6088/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 28/09/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/02/2021 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;
lette le conclusioni scritte del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MISTRI CORRADO.
RITENUTO
che:
1. Telecom Italia S.p.A. propose opposizione avverso un decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti dal Tribunale di Cosenza, con il quale le era stato ingiunto di pagare, in favore della S.C.S. Italia Net s.r.l., la somma di Euro 754.172,20, oltre interessi e spese del procedimento monitorio, per mancato pagamento di alcune fatture relative a servizi telefonici, rese dall’intimante su numerazioni non geografiche a tariffazione specifica con prefisso 899/892. L’opponente Telecom rappresentò di aver ricevuto segnalazione da parte di propri abbonati del fatto che S.C.S. avesse inviato degli sms per invitare essi utenti ad accedere a servizi particolari con addebito automatico dell’importo forfettario di Euro 12,50 prima di ricevere l’assenso al servizio, in palese violazione delle prescrizioni normative a tutela dei consumatori che richiedevano, per il caso di servizi a sovrapprezzo di tipo vocale, la gratuità del messaggio di presentazione del servizio. Rappresentò che i servizi promessi non erano in realtà accessibili, sì da determinare una vera e propria frode, tale da indurre Telecom a sospendere i pagamenti del corrispettivo nei confronti di S.C.S.
La S.C.S. Italia Net srl si costituì in giudizio affermando di aver sempre operato con correttezza e buona fede.
1.1 In accoglimento dell’eccezione di incompetenza territoriale il Tribunale sull’accordo delle parti cancellava la causa dal ruolo.
2.La causa fu riassunta davanti al Tribunale di Roma, ai sensi dell’art. 50 c.p.c., istruita con acquisizioni documentali e decisa, con sentenza n. 5061/2013, nel senso dell’accoglimento dell’opposizione di Telecom e del rigetto della domanda di pagamento svolta da S.C.S.
3. La Corte d’Appello di Roma, adita dalla S.C.S. Italia Net srl, con sentenza n. 6088 del 28/9/2017, ha rigettato l’appello affermando, per quanto ancora qui di interesse, che la causa, originata dall’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. di Telecom, era stata istruita in modo corretto rispetto al criterio di riparto dell’onere della prova in quanto il giudice aveva accertato che il creditore aveva dato prova dell’altrui inadempimento mentre il debitore convenuto, gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, non aveva provato di aver eseguito il servizio nel pieno rispetto delle regole comportamentali previste nel contratto e nel D.M. n. 145 del 2006. Inoltre la Corte d’Appello ha ritenuto che la mancata applicazione di sanzioni amministrative ad SCS da parte delle competenti Autorità non provava affatto che le modalità di condotta della medesima fossero state corrette, risultando piuttosto violato il D.M. n. 145 del 2006, art. 12, comma 3 in ordine alla gratuità del messaggio di presentazione dei servizi aggiuntivi, mentre neppure dai giudizi penali, nel frattempo svoltisi, poteva trarsi alcun elemento utile ad escludere che S.C.S. avesse tenuto una condotta conforme alle regole contrattuali, essendo peraltro il giudice civile libero di formare il proprio convincimento in materia di accertamento del nesso causale in base alla regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”.
4. Avverso la sentenza che, rigettando l’appello, ha disposto conseguenzialmente sulle spese del grado, S.C.S. Italia Net s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. Ha resistito con controricorso Telecom Italia S.p.A.
5. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 1, in vista della quale il P.G. ha depositato conclusioni scritte nel senso della inammissibilità o rigetto del ricorso.
CONSIDERATO
che:
1. Prima di procedere all’esame dei motivi occorre preliminarmente riferire che parte resistente ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere la ricorrente omesso di adempiere al proprio dovere di sinteticità e chiarezza espositiva degli atti, limitandosi a ristrascrivere gli atti del primo e del secondo grado del giudizio, con ciò pregiudicando l’intellegibilità delle questioni.
1.1 Il Collegio ritiene di condividere questa eccezione della parte resistente e di dichiarare il ricorso inammissibile per esposizione del fatto sostanzialmente assemblata ed eccedentaria.
Infatti, l’esposizione si articola, dalla pagina 2 sino alle prime sei righe della pagina 40 del ricorso, nel seguente modo:
a) dopo che si è riferito della proposizione dell’opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Cosenza e dell’eccezione di incompetenza territoriale proposta dalla Telecom, nonché della non contestazione di essa da parte della ricorrente, si enuncia che la Telecom aveva riassunto la causa davanti al Tribunale di Roma e, dalla seconda metà della stessa pagina 2 sino al settimo rigo della pagina 9, si riporta per intero il contenuto dell’atto di riassunzione;
b) dando atto della costituzione della ricorrente, si riproduce, quindi, la comparsa di costituzione davanti al detto tribunale sino al terzultimo rigo della pagina 18 e, dopo avere dato atto che il giudice aveva rigettato le richieste istruttorie della ricorrente, riproducendo sino al quinto rigo la relativa motivazione adottata in udienza, si dice che seguiva la precisazione delle conclusioni e di seguito si riproduce la comparsa conclusionale della ricorrente sino alle prime cinque righe della pagina 38;
c) si dà atto, quindi, che all’udienza di discussione, la S.C.S. aveva depositato documenti inerenti un procedimento penale nel quale essa era stata assolta in modo pieno e si dice che la Telecom aveva dedotto di avere fatto appello ai soli effetti civili, nonché – senza indicare da chi – che era stata formulata istanza di sospensione del giudizio ai sensi degli artt. 295 o 337 c.p.c.;
d) quindi si dice che la corte territoriale aveva pronunciato la sentenza impugnata e di essa si dà conto riportando tre brani di motivazione.
L’esposizione non rispetta l’art. 366 c.p.c., n. 3 interpretato dalla ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte nel senso della necessità di osservare il requisito della esposizione sommaria dei fatti di causa senza riprodurre il testo integrale di atti dello svolgimento processuale evitando di onerare la Corte di procedere alla loro lettura. Si veda sul punto la pronuncia di Cass., U, n. 5698 dell’11/4/2012 e tutte le successive pronunce: “In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali e’, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. (Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell’assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, sentenza d’appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l’illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi)”. In senso conforme Cass., L, n. 17168 del 9/10/2012; Cass., 6-3, n. 593 dell’11/1/2013; Cass., 6-5, n. 10244 del 2/5/2013; Cass., 6-5 n. 26277 del 22/11/2013).
Nella specie, peraltro, la lettura dei motivi non è idonea a rivelare lo svolgimento sostanziale e processuale che la tecnica eccedentaria adottata dalla ricorrente non ha assolto.
In ogni caso, se fosse superabile la rilevata inammissibilità, procedendo alla non dovuta lettura integrale di quanto riprodotto in atti diversi dal ricorso – quali la sentenza e il controricorso – emergerebbe la loro infondatezza nei termini indicati dal Pubblico Ministero, nel senso qui di seguito esposto.
1. Con il primo motivo di ricorso la S.C.S.. lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, atteso che le parti del presente giudizio, anche parti contrattuali del negozio fonte del rapporto giuridico in argomento, avrebbero reciprocamente adempiuto alle proprie prestazioni e che Telecom non avrebbe, contrariamente a quanto erroneamente ritenuto dalla corte territoriale, eccepito l’inadempimento della controparte ex art. 1460 c.c. ma si sarebbe limitata a sospendere il pagamento del compenso stabilito dal contratto in base alle previsioni dell’art. 7 del contratto stesso. Dunque la corte territoriale avrebbe errato due volte, sia applicando l’art. 1460 c.c. laddove la S.C.S aveva adempiuto alle obbligazioni su di sé gravanti, sia richiamando le regole di riparto sull’onere della prova, attesa la non rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di inadempimento.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, con particolare riguardo al procedimento penale conclusosi in data 22/2/2018 dinanzi la Corte d’Appello di Catanzaro che aveva escluso la rilevanza penale di alcune condotte imputate ad S.C.S.
1-2 Il P.G. nelle sue conclusioni scritte che questo Collegio condivide e ritiene di far proprie osserva quanto segue. Quanto al primo profilo di doglianza, evidenziata la non rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di inadempimento, la ricorrente lamenta la mancata formulazione, da parte di Telecom, della relativa eccezione, di talché discenderebbe, a suo dire, l’errore della Corte d’Appello di ritenere applicabile la suddetta eccezione. Il motivo non può essere accolto. Preliminarmente va evidenziato che il rapporto giuridico tra le parti risulta disciplinato dal contratto intercorso tra le stesse, nel quale l’art. 7, rubricato “Morosità e prevenzione delle frodi”, recita che “Se per le numerazioni di cui all’allegato sussistano evidenze documentabili di comportamenti fraudolenti a danno degli utenti o di Telecom Italia, quest’ultima porrà in essere tutte le azioni ritenute idonee al fine di tutelare i suoi interessi e quelli dei suoi utenti. Tali azioni potranno consistere nella disabilitazione dell’accesso al numero di cui in oggetto da parte delle linee di singoli utenti chiamati, nell’eventuale sospensione del pagamento o, come extrema ratio, previo avviso all’Autorità, nello sbarramento di accesso al numero.”
A ben vedere tale previsione, vincolante tra le parti, introduce uno strumento di autotutela contrattuale consistente nella sospensione del pagamento dei corrispettivi in caso di inadempimento contrattuale o di inesatto adempimento della parte oggi ricorrente, di cui Telecom Italia ha legittimamente fatto uso. E’ del resto irrilevante che la parte debba espressamente denominare come eccezione ex art. 1460 c.c. quella di che trattasi, denominazione peraltro spesa specificamente da Telecom in sede di comparsa conclusionale di primo grado, rimanendo comunque fermo il potere del giudice di merito di interpretare le eccezioni proposte dalle parti e risultando piuttosto decisiva la sussistenza del presupposto dell’inadempimento di una di esse per attivare lo strumento di autotutela contrattuale che non vi è dubbio possa manifestarsi nelle forme di cui al citato art. 7 del contratto. Più precisamente, l’inesatto adempimento imputabile a S.C.S. Italia Net srl consiste nella imperfetta esecuzioné del servizio di cui era incaricata da Telecom Italia, reso con modalità tali da indurre i clienti Telecom ad usufruire di servizi effettivamente non richiesti o per i quali comunque non avevano espressamente manifestato il loro consenso. Giova sottolineare la piena sussumibilità delle accertate condotte operative della ricorrente nello spettro applicativo legittimante l’eccezione di inadempimento, specificato dall’art. 7 del contratto concluso inter partes; e così si conferma la logicità e la consequenzialità delle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale in tema di riparto dell’onere della prova, di talché, stante l’eccezione sollevata dalla società mandante Telecom, l’odierna ricorrente avrebbe dovuto dimostrare di aver operato nel rispetto delle regole comportamentali originate dal contratto e dal D.M. n. 145 del 2006, più volte richiamato in atti. Orbene risulta che un onere siffatto non è stato adempiuto e che la relativa prova del corretto adempimento non è stata offerta da S.C.S. a nulla rilevando la circostanza, invocata in grado d’appello e riproposta in sede di legittimità, per cui la stessa prova della correttezza e buona fede della ricorrente discenderebbe dalla mancata irrogazione di sanzioni amministrative o penali nei suoi confronti; come correttamente evidenziato nella motivazione della sentenza impugnata, infatti, l’illogicità di una soluzione siffatta sarebbe sottolineata dalla possibile mancanza di effettiva conoscenza della vicenda da parte delle Autorità vigilanti, ossia del Ministero delle Comunicazioni e dell’AGCOM le quali, peraltro, nell’irrogazione delle sanzioni amministrative o penali seguono iter probatori sostanziali e modalità di accertamento del tutto peculiari e, senza alcun dubbio, eccentrici rispetto alla verifica del comportamento della ricorrente alla stregua del parametro della buona fede da parte del giudice civile.
Il secondo motivo, afferente la necessità di sospendere, ex art. 295 o 337 c.p.c. il giudizio di appello in attesa della definizione di quello innanzi alla Corte d’Appello di Catanzaro, posto che, ad avviso del ricorrente, dalla sentenza penale che verteva sul presunto comportamento truffaldino di S.C.S. Italia Net srl dipendeva la legittimità o meno della sospensione dei corrispettivi da parte di Telecom, deve considerarsi assorbito. Giova comunque evidenziare l’inconferenza della doglianza proposta, atteso che la Corte d’Appello di Roma ha ampiamente esaminato tale profilo, ritenendo di non dover sospendere il giudizio sulla base di due ordini di considerazioni: in primo luogo valorizzando il consolidato orientamento di legittimità per cui la sentenza penale che perviene ad una assoluzione ex art. 530 c.p.p., comma 2 non vincola in alcun modo il giudice civile se non nei casi in cui contenga uno specifico ed effettivo accertamento circa l’insussistenza del fatto o della partecipazione dell’imputato, ed in secondo luogo rimarcando l’irriducibile diversità dell’accertamento del nesso causale in materia civile, ove vige la regola del “più probabile che non “, da quella operante nel processo penale, della prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. Proprio sulla base di tali considerazioni la Corte territoriale ha sottolineato come “non siano stati posti in dubbio i meccanismi adottati per indurre gli utenti ad accedere a certi servizi a pagamento così come è stato accertato che, in violazione dell’art. 13 citato decreto ministeriale, non veniva mai acquisito espressamente il consenso dell’utente prima di accedere al servizio”: di talché “non può che confermarsi la carenza di prova circa il rispetto della condotta relativa all’acquisizione dell’assenso da parte degli utenti, stante le modalità ingannatorie che risultano ben descritte dalla relazione della Polizia Postale, a prescindere dalla loro qualificabilità come reato di truffa e dalla loro riconducibilità a soci e amministratori di S.C.S.”.
3. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e la ricorrente condannata alle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del cd. raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 10.200 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%.
Si dà atto ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 3 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2021
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