Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.21394 del 26/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

E.I.O., (codice fiscale *****), rappresentato e difeso, giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocata Giuseppina Marciano, del Foro di Milano, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Via Fontana n. 3;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (cod. fisc. *****), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura dello Stato, domiciliata in via del Portoghesi n. 12.

– intimato –

avverso il decreto del tribunale di Milano n. 6905/2019, pubblicata il 3/9/2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021 dal Presidente, Dott. Giacomo Travaglino.

PREMESSO IN FATTO

– che il signor E., nato ad *****, in *****, il *****, ha chiesto alla competente commissione territoriale il riconoscimento della protezione internazionale di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4, ed in particolare:

(a) in via principale, il riconoscimento dello status di rifugiato, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 7 e ss.;

(b) in via subordinata, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(c) in via ulteriormente subordinata, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ex art. 5, comma 6 (nel testo applicabile ratione temporis);

– che la Commissione Territoriale ha rigettato l’istanza;

– che, avverso tale provvedimento, egli ha proposto, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 35, ricorso dinanzi al Tribunale di Milano, che lo ha rigettato con decreto reso in data 3.9.2019;

– che, a sostegno della domanda di riconoscimento delle cd. “protezioni maggiori”, il ricorrente, comparendo personalmente in udienza dinanzi al giudice di primo grado, aveva dichiarato di essere fuggito dal proprio Paese nell’ottobre del 2014, giungendo dapprima in Libia, per poi approdare in Italia nel maggio 2016;

– che la fuga dal proprio Paese di origine era dovuta al fatto di essere omosessuale, e pertanto passibile di sanzioni penali in quello Stato, ed al timore di essere catturato dai cultisti, a causa della sua frequentazione con il fratello di uno degli appartenenti alla setta;

– che, in via subordinata, aveva poi dedotto l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento, in suo favore, della protezione umanitaria, in considerazione della propria – oggettiva e grave – condizione di vulnerabilità;

– che, all’udienza del 17 gennaio 2019, la difesa del ricorrente depositava documentazione integrativa, ed ulteriore documentazione veniva depositata all’udienza del 15 maggio 2019, fissata per l’audizione del ricorrente;

– che, a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento di tutte le forme di protezione internazionale invocate dal ricorrente, alla luce: 1) della sostanziale inattendibilità del suo racconto, ritenuto generico e non sufficientemente circostanziato 2) della insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria, in ciascuna delle tre forme di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, in conseguenza tanto del giudizio di non credibilità del ricorrente (lettere a e b), quanto dell’inesistenza di un conflitto armato nel Paese di respingimento (lettera c), alla luce di un rapporto EASO del 2017; 3) dell’impredicabilità di un’effettiva situazione di vulnerabilità idonea a giustificare il riconoscimento dei presupposti per la protezione umanitaria;

– che, in particolare, il tribunale di Milano ha motivato il proprio convincimento, al fine di escludere i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, sulla base delle seguenti affermazioni:

1. gli ambiti di valutazione della credibilità del ricorrente, anche alla luce delle autorevoli linee guida redatte dall’UNHCR, riguardavano: l’autoidentificazione, l’infanzia, l’accettazione di se, l’eventuale problema dell’identità di genere, la non conformità, le relazioni famigliari, le relazioni sentimentali e sessuali, il rapporto con la comunità, la religione;

2. le dichiarazioni concernenti le modalità con cui il ricorrente riferiva di aver preso consapevolezza della propria omosessualità evidenziavano, in primo luogo, la genericità di tali modalità;

3. il ricorrente riferiva “genericamente” di aver provato sentimenti per i maschi, ma “non sapeva descrivere il tipo di sentimenti provati”;

4. nella descrizione di tali sentimenti, “sembrava piuttosto fare riferimento a degli istinti sessuali”;

5. appariva “implausibile” che tale consapevolezza fosse stata acquisita in giovanissima età, a circa *****, volta che il ricorrente “non si era confidato con nessuno”;

6. pertanto, il tribunale “non comprendeva” come lo stesso “avesse potuto razionalizzare i sia pur generici sentimenti che si era accorto di provare per i maschi per ricondurli ad un suo sentimento omosessuale”;

7. appariva poi “implausibile” che “la madre avesse potuto capire che egli era omosessuale dalla semplice circostanza di averlo trovato a masturbarsi, posto che non vi era alcuna correlazione tra tale atteggiamento e l’omosessualità”;

8. la reazione dei genitori appariva “incoerente”, poiché inizialmente pietosa e volta a cercare un rimedio (dapprima pregando, poi recandosi da un sacerdote, che dava al ragazzo una bottiglia di acqua santa da bere), poi “improvvisamente dura, senza che tale cambiamento avesse avuto una gradualità”;

9. appariva “poco plausibile” che “in una società omofoba quale quella *****, i familiari lo avessero insultato in pubblico così da consentire la divulgazione della notizia della omosessualità del figlio”;

10. appariva “inverosimile” l’episodio che aveva indotto il ricorrente alla fuga, poiché egli, pur non sapendo nulla della morte del proprio compagno, di nome S., “viene cercato, in un giorno preciso, il *****, mentre era al lavoro, sia dalla polizia che dai cultisti” e ritiene di essere ricercato proprio per la morte di S. e a causa della sua omosessualità;

11. “in assenza di una spiegazione che giustificasse la correlazione tra la morte di S. e l’invito a presentarsi presso la polizia (documento prodotto dal ricorrente il giorno prima dell’udienza)”, appariva al tribunale “affatto incongruente la decisione di abbandonare il Paese, alla semplice notizia che la polizia e i cultisti lo stessero cercando a casa e che il compagno S. fosse morto in circostanze ignote che egli non si era neppure preoccupato di accertare nonostante la lunga relazione di 4 anni che li aveva legati”;

12. Il motivo della fuga era “tanto più inverosimile considerando che, secondo le stesse dichiarazioni del ricorrente, la relazione con S. non era percepita all’esterno, posto che i due compagni si incontravano sempre in albergo”;

13. Non appariva verosimile che il ricorrente fosse stato invitato a presentarsi alla polizia a causa della sua omosessualità “in assenza di una plausibile spiegazione sulle modalità e sulle circostanze in cui la polizia sarebbe venuta a conoscenza della sua omosessualità, sebbene non fosse manifestata all’esterno”;

14. L’ipotesi, formulata dal ricorrente, che la polizia fosse stata informata dal fratello di S. “non appariva plausibile, poiché quegli era a conoscenza della relazione omosessuale del fratello già da 4 anni, sì che avrebbe potuto informarne subito la polizia, mentre la sua prima reazione, alla scoperta della relazione omosessuale, era stata quella di far picchiare i due amanti”;

15. Il timore di rimpatrio riferito dal ricorrente “non era legato a possibili limitazioni della sua libertà sessuale, cui non v’era alcun cenno nelle sue dichiarazioni”, avendo il ricorrente riferito “di più storie omosessuali vissute come fossero la normalità e narrate con una serenità che non si conciliava con il travaglio e il timore di chi scopre e vive un orientamento sessuale in una società ornofoba”;

16. Nel racconto del richiedente “la sua storia omosessuale si esauriva tutta sul piano fisico dei rapporti carnali coni compagni, mentre nulla era stato in grado di riferire in ordine ai sentimenti che egli provava per tali compagni, oppure in ordine al travaglio interiore, alla confusione, allo smarrimento che verosimilmente avrebbe dovuto sentire alla scoperta della propria inclinazione omosessuale, oppure ancora in ordine al modo in cui viveva tale sua inclinazione”;

17. Le risposte del richiedente alle puntuali domande della commissione territoriale e del giudice risultavano “talmente generiche e banali da rendere inverosimile la sua inclinazione omosessuale all’epoca dei fatti narrati, posto che, secondo le linee-guida dell’UNHCR, tale inclinazione non si risolve nell’aspetto fisico e carnale, ma implica il coinvolgimento sentimentale e la consapevolezza razionale del proprio orientamento”;

18. Non essendo credibile la storia del ricorrente, non poteva ritenersi che lo stesso potesse essere ricercato o arrestato dalla polizia *****, oppure che potesse essere ucciso dai cultisti per la sua omosessualità.

– che, nel ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), il tribunale di Milano (dopo aver escluso l’applicabilità della medesima norma, sub specie delle ipotesi previste dalle lettere a) e b) per difetto di credibilità del ricorrente), ha ritenuto, sulla base delle COI acquisite (alcune delle quali aggiornate al momento della decisione: Human Rights Watch 2019; *****-World Report 2019, citate ad integrazione di altre COI risalenti agli anni 2015-1016):

1. che la zona del cd. ***** fosse caratterizzata da una situazione di violenza indiscriminata scoppiata nel 2015;

2. che la presenza del gruppo denominato ***** fosse confermata dalle medesime e più recenti fonti nel nord-est del paese;

3. che, con riferimento al sud del Paese (zona di provenienza del ricorrente), alla luce di un rapporto EASO del 2017 (che viene riportato testualmente, sia pur per sintesi), “non si riteneva, pertanto, che sussistessero i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria”.

– che, in punto di riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, la motivazione del tribunale è così testualmente concepita:

“il ricorrente ha documentato di aver frequentato un corso per l’apprendimento della lingua italiana ed un corso di piastrellista posatore e di muratore di base; ha altresì documentato la sua appartenenza alle associazioni *****, ***** e *****, ed ha infine dichiarato di avere una relazione omosessuale con un connazionale di nome F. e di svolgere attività di consegne per Uber. I predetti elementi non sono, tuttavia, sufficienti per ritenere che il ricorrente abbia raggiunto in Italia una situazione personale e familiare rilevante ai sensi dell’art. 8 CEDU, attesa la evidente situazione di precarietà in cui si trova. Quanto alla situazione di salute, dalla documentazione medica prodotta risulta un’infezione gastrica da Helicobacter, sì che non sussiste neanche sotto tale profilo una situazione di vulnerabilità”.

– che il provvedimento del Tribunale è stato impugnato per cassazione dall’odierno ricorrente sulla base di 3 motivi di censura;

– che il Ministero dell’interno non si è costituito in termini mediante controricorso.

OSSERVA IN DIRITTO Col primo motivo, si censura la sentenza impugnata per violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame circa un fatto decisivo della controversia in punto di riconoscimento della protezione internazionale omessa valutazione della produzione documentale.

Col secondo motivo, si lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – motivazione apparente;

Con il terzo motivo, si lamenta la violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5 omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio – motivazione apparente in punto di permesso umanitario.

Il primo motivo di ricorso è parzialmente fondato.

1.1. Non può essere sottoposto a scrutinio di legittimità il giudizio (pur censurabile, poiché del tutto difforme dai criteri più volte indicati da questa Corte in tema di valutazione delle dichiarazioni del richiedente asilo) di non credibilità del ricorrente – giudizio non correttamente criticato, in parte qua, dalla difesa, che si limita a contestare, del tutto genericamente, la decisione adottata dal Tribunale milanese facendo esclusivo riferimento alla documentazione prodotta in sede di ricorso (f. 7 dell’atto di impugnazione), e lamentando, conseguentemente, “la mancanza di una esaustiva indagine, non valutandosi la documentazione prodotta dal ricorrente, volta a supportare il proprio orientamento sessuale”, senza, peraltro, sottoporre alla necessaria (e doverosa) critica le affermazioni contenute nel decreto impugnato, come testualmente riportate in narrativa – e, peraltro, del tutto prive di qualsiasi seria base scientifica in parte qua, oltre che contrarie alle stesse linee guida dell’UNHCR pur citate dal giudicante (linee guida dove si legge, al punto 10, che “le esperienze vissute…saranno spesso diverse l’una dall’altra; che situazioni analoghe possono essere vissute diversamente a seconda dell’individuo interessato”, e che “l’identità di genere di una persona possono trasparire dal comportamento sessuale o da un atto sessuale, dall’aspetto esteriore o dal modo di vestire, ma possono anche essere palesati da tutta una serie di altri fattori”, mentre, al punto 19, si precisa che l’orientamento e l’identità di una persona possono essere espressi o trasparire in diversi modi, più o meno palesi, tramite l’aspetto, il modo di parlare, di comportarsi, di vestirsi e atteggiarsi; come possono non manifestarsi affatto in questi modi. Anche se una certa azione che esprime o palesa l’orientamento sessuale e/o l’identità di genere di una persona può talvolta essere considerata come di scarsa importanza, ciò che conta sono le conseguenze di tale comportamento”).

1.2. Il motivo e’, viceversa, fondato nella parte in cui lamenta la sostanziale apparenza della motivazione nella valutazione attuale della condizione di omosessuale del sig. E..

1.2.1. Nel rigettare la domanda di protezione umanitaria (sulla quale, amplius, infra, sub 3.3), il Tribunale scrive, testualmente: “il ricorrente ha altresì documentato la sua appartenenza alle associazioni *****, ***** e *****, ed ha infine dichiarato di avere una relazione omosessuale con un connazionale di nome F.”, per poi aggiungere, altrettanto testualmente (supra, in narrativa), che “i predetti elementi non sono, tuttavia, sufficienti per ritenere che il ricorrente abbia raggiunto in Italia una situazione personale e familiare rilevante ai sensi dell’art. 8 CEDU, attesa la evidente situazione di precarietà in cui si trova”.

1.2.2. A tanto consegue che “i predetti elementi” considerati dal Tribunale tutti, nessuno escluso, non essendo stato né espressamente né implicitamente escluso alcuno di essi – attestano inconfutabilmente l’attualità di una condizione di omosessualità da parte del richiedente asilo, al di là ed a prescindere dalla correttezza della conclusione che il giudicante ne trae al fine di valutare la domanda di protezione umanitaria, dovendo la motivazione di un provvedimento (a prescindere dalla sua qualità) essere letta unitariamente e sinergicamente al fine di esprimerne una valutazione in sede di legittimità.

1.2.3. Tali elementi di fatto (al pari della prova documentale della convocazione del ricorrente da parte della Polizia all’indomani dell’omicidio del connazionale S.) non sono stati affatto considerati dai Tribunale milanese per valutare, del tutto a prescindere dalla sua storia passata, la attuale condizione di omosessuale del richiedente asilo (condizione che non postulava né postula alcuna ulteriore indagine di carattere psicologico-psicoanalitico, al più da rimettere alla valutazione di un competente professionista, ove, sia pur infondatamente, ritenuta necessaria), ed i conseguenti rischi di persecuzione, anche soltanto potenziale, che lo stesso potrebbe correre se rimpatriato in un Paese che lo stesso Tribunale non esita a definire omofobo (e in relazione al quale sarebbero stati necessari approfondimenti istruttori circa la legislazione penale eventualmente esistente in tema di omosessualità).

1.3. In argomento, la giurisprudenza di questa Corte ha già osservato (Cass. 23891/2020 e, in particolare, Cass. 15048/2020) che l’orientamento sessuale del richiedente costituisce ipso facto fattore di individuazione del “particolare gruppo sociale”, la cuì appartenenza, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, comma 1, lett. d), costituisce ragione di persecuzione idonea a fondare il riconoscimento dello status di rifugiato.

1.3.1. L’assunto per cui l’appartenenza a un orientamento omosessuale debba rispondere – in via necessaria (o pressoché necessaria) – a uno schema di consapevolezza sofferta, di travaglio interiore, di confusione e smarrimento, di mancanza di serenità del soggetto, così come opinato dal Tribunale, risulta affermazione in sé stessa autoreferenziale, oltre che priva, prima di tutto sul piano delressere”, di una qualsivoglia base di razionalità scientifica. Non si vede, per vero, perché un orientamento omosessuale dovrebbe per forza connotarsi di “sofferenza”, né perché, di converso, debba essere impedito alla persona omosessuale di vivere con serenità interiore il proprio orientamento a pena del rischio di imbattersi in un organo giudicante che, perciò solo, ne metta in discussione la stessa veridicità.

1.3.2. Nei fatti, le affermazioni contenute nel decreto impugnato non riescono ad occultare l’esistenza di un giudizio morale, che risponde a una mera opinione personale del giudicante, peraltro privo di qualsivoglia base scientifica, a conferma dell’assunto per cui, “nel tempo della complessità” (richiamando l’espressione di un’acuta dottrina), il giudice si mostra sempre più spesso imperitus peritorum rispetto a discipline e scienze delle quali mostra di non avere alcuna, sia pur minima cognizione.

1.3.3. Più ancora, la motivazione del decreto impugnato si fonda su regole non già oggettive, bensì espressive di una moralità meramente soggettiva. Ne’ si scorge la ragione per cui agli orientamenti omosessuali dovrebbe essere necessariamente riconnettersi la ricerca di profonde e tormentate condizioni affettive ed emotive (anche in termini stabili), non pretesa, di converso, da un soggetto eterosessuale (il quale, all’esito di una eventuale diagnosi di totale anaffettività da parte di uno specialista, non diverrebbe, sol per questo, meno o nient’affatto eterosessuale);

1.3.4. L’affermazione della necessaria sussistenza di un legame non solo fisiologico, ma anche emotivo, nei rapporti omosessuali si manifesta, a ben vedere, frutto di un pregiudizio affatto ingiustificato, prima di tutto, sul piano del fatto (in argomento, Cass. 18 settembre 2020, n. 19503).

1.3.5. Essa si manifesta, ancor più, come conseguenza di una lettura di mortificazione punitiva – sul piano della “moralità sociale” – degli orientamenti omosessuali. Lettura che si pone agli antipodi dei principi espressi, sul piano normativo, dalle disposizioni di cui all’art. 3 Cost., in specie di quella del comma 2, in relazione al “pieno sviluppo” di ciascuna persona (secondo le proprie, personali inclinazioni e secondo la propria, personale natura caratteriale e temperamentale), come anche di quella del comma 1, sul divieto assoluto di discriminazione per orientamento sessuale.

1.4. Va, in proposito, ancora considerato che, ai sensi delle già citate linee guida UNHCR del 21.10.2012, non tutti i richiedenti LGBTI hanno necessariamente subito azioni persecutorie in passato, volta che essere stati vittima di persecuzione non è un prerequisito per l’ottenimento dello status di rifugiato (punto 18); di fatto, la fondatezza del timore di persecuzione deve essere stabilita in base alla valutazione della difficile situazione che il richiedente si troverebbe ad affrontare nell’ipotesi di un ritorno nel Paese di origine, senza che lo stesso sia tenuto a dimostrare che le autorità erano al corrente del suo orientamento sessuale e/o della sua identità di genere prima che egli lasciasse il suo paese di origine.

1.4.1. Va ancora, e per concludere, in questa sede riaffermato l’ulteriore e consolidato principio a mente del quale l’orientamento omosessuale può perfino rilevare (pur non essendo questo il caso di specie) anche solo se attribuito, a prescindere dal fatto che il richiedente sia davvero omosessuale, volta che le autorità statuali, in caso di rimpatrio del richiedente asilo, lo percepiscano come tale; mentre, per converso, ove quelle stesse autorità dovessero non esserne a conoscenza, il rischio è legato al fatto di non poter vivere questa condizione senza il timore di subire discriminazioni o persecuzioni.

1.5. A tali principi sarà tenuto ad attenersi il giudice del rinvio nel valutare la fondatezza della domanda di asilo.

2. Il secondo motivo di ricorso è fondato.

Dal contenuto delle censure svolte (ff. 12 ss. del ricorso, il cui esame resta subordinato alle sorti della precedente domanda di asilo) emerge che tanto la valutazione delle COI assunte dal giudicante, quanto la carenza del necessario aggiornamento “alla data della decisione”, non sono conformi a diritto.

2.1. Come si è evidenziato in narrativa – e come puntualmente rilevato dal ricorrente (che, dal suo canto, fa riferimento, in seno al ricorso, a Report più aggiornati) il Tribunale si è servito, in parte qua, del solo rapporto EASO aggiornato al 2017 (e dunque, di ben due anni precedente la data della decisione), il cui contenuto, pur solo superficialmente esaminato, descrive una situazione che difficilmente potrebbe non essere definita “di conflitto a bassa intensità”, volta che (si legge al f. 17 del decreto impugnato) come riportato dall’EASO per quanto concerne il sud della *****: a) i conflitti locali nel sud solitamente sono basati sulle differenze etniche o sulla concorrenza per l’utilizzo delle risorse, specie nel *****; b) l’emergere di un nuovo gruppo (*****) ha riportato in auge la violenza dopo un periodo di calma iniziato nel 2009; c) erano continui i disordini nel sud est, collegati a gruppi separatisti *****, in particolare *****, *****; d) nel sud della *****, oltre alla violenza petrolifera esiste(va) anche un’altra violenza armata nella regione; e) nello *****, personalità politiche hanno fornito armi ai giovani per spingerli alla violenza politica; f) queste armi sono state utilizzate in attività criminali come sequestri, omicidi, rapine a mano armata, uccisioni di agenti di polizia e assassini politici; g) per quanto concerne i culti, anche il sud-ovest sperimenta la violenza trai gruppi di culto, quali le confraternite *****; h) mentre ***** è lo Stato più colpito della regione, quello di ***** è il più sicuro di tutta la *****, mentre ***** è risultato l’ottavo degli stati del *****”.

2.2. La disamina di tali, concorrenti circostanze conduce il Tribunale alla seguente conclusione (f. 17, terzo capoverso): “non si ritiene, pertanto, che sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria”.

2.3. Tale motivazione, che oltrepassa le soglie dell’apparenza, sconfina, evidentemente, nel territorio della sua assoluta inesistenza.

3. Il terzo motivo di ricorso è fondato.

Il nuovo esame delle relative censure in sede di giudizio di rinvio resta subordinato alla sorte della domanda principale di riconoscimento di una delle due forme di protezione maggiore.

La motivazione adottata in parte qua dal Tribunale, già riportata in narrativa, non è conforme a diritto.

3.1. Come ripetutamente affermato da questa Corte regolatrice, se, per il riconoscimento dello status di rifugiato, o della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, lett. a) e b), deve essere dimostrato che il richiedente asilo abbia subito, o rischi concretamente di subire, atti persecutori come definiti dall’art. 7 (atti sufficientemente gravi per natura o frequenza, tali da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, ovvero costituire la somma di diverse misure il cui impatto si deve risolvere in una grave violazione dei medesimi diritti), così che la decisione di accoglimento consegue ad una valutazione prognostica dell’esistenza di un rischio, onde il requisito essenziale per il riconoscimento di tale forma di protezione consiste nel fondato timore di persecuzione, personale e diretta, nel paese di origine del richiedente asilo, alla luce di una violazione individualizzata – e cioè riferibile direttamente e personalmente al richiedente asilo in relazione alla situazione del Paese di provenienza, da compiersi in base al racconto ed alla valutazione di credibilità operata dal giudice di merito, diversa, invece, è la prospettiva dell’organo giurisdizionale in tema di protezione umanitaria, per il riconoscimento della quale è necessaria e sufficiente (anche al di là ed a prescindere dal giudizio di credibilità del racconto) la valutazione comparativa tra il livello di integrazione raggiunto in Italia e la situazione del Paese di origine, qualora risulti ivi accertata la violazione del nucleo incomprimibile dei diritti della persona che ne vulnerino la dignità – accertamento che prende le mosse, e non può prescindere, dal dettato costituzionale di cui all’art. 10 comma 3, ove si discorre, significativamente, di impedimento allo straniero dell’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (norma che, come è noto, fu oggetto di un intenso dibattito in Assemblea costituente, ed il cui contenuto immediatamente precettivo, nonostante una retriva e risalente giurisprudenza del Consiglio di Stato, fu immediatamente rilevato dalla dottrina maggioritaria e definitivamente riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle sezioni unite del 26 maggio 1997, n. 4674): di qui, il riconoscimento della natura di diritto costituzionalmente garantito della situazione giuridica dei richiedenti asilo e quindi di “concreta e materiale esigibilità in via giurisdizionale” del relativo diritto soggettivo – un diritto perfetto, pertanto, in quanto il suo fondamento necessario e sufficiente, nonché la sua causa di giustificazione risiedono entrambi nella sola Costituzione.

3.2. Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, pertanto, deve ritenersi necessaria e sufficiente la valutazione dell’esistenza e della comparazione degli indicati presupposti (per tutte, Cass. 8819/2020; Cass. 19337/2021), che non sono condizionati dalla eventuale valutazione negativa di credibilità del ricorrente – o, comunque, dal contenuto della sua narrazione, ove pur ritenuta credibile ma non rilevante ai fini della concessione della misura di protezione invocata, come nella specie.

3.3. Il riconoscimento della protezione umanitaria postula – una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto – l’obbligo per il giudice del merito, ai sensi del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, estensivamente interpretato, di cooperare nell’accertamento della situazione reale del Paese di provenienza, mediante l’esercizio di poteri/doveri officiosi d’indagine, ed eventualmente di acquisizione documentale (Cass. n. 28435/2017; Cass. 18535/2017; Cass. 25534/2016) – essendo quel giudice investito di singole vicende aventi ad oggetto diritti fondamentali della persona, e non di cause cd. “seriali”, destinate improvvidamente a motivazioni altrettanto seriali, in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente; e al fine di ritenere adempiuto tale obbligo officioso, l’organo giurisdizionale è altresì tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass. n. 11312 del 2019), ma senza incorrere nell’errore di utilizzare le fonti informative che escludano (a torto o a ragione) l’esistenza di un conflitto armato interno o internazionale (rilevanti al solo fine di valutare la domanda di protezione internazionale sub specie del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c)) – al diverso fine di valutare la situazione del Paese di origine sotto l’aspetto della mancata tutela dei diritti umani e del loro nucleo incomprimibile – di cui pure il provvedimento impugnato sembra indirettamente dare atto, nel riportare il contenuto del Report EASO di cui si è già detto in precedenza.

3.4. Ne’ Tribunale, nell’omettere il giudizio di comparazione de quo, tiene nella dovuta considerazione la documentazione prodotta dal difensore, e funzionale alla dimostrazione dell’avvenuta integrazione del ricorrente nel tessuto sociale italiano, motivando il rigetto dell’istanza con la considerazione per cui “i predetti elementi non sono tuttavia sufficienti per ritenere che il ricorrente abbia raggiunto in Italia una situazione personale e familiare rilevante ai sensi dell’art. 8 CEDU, attesa la evidente situazione di precarietà in cui il ricorrente si trova in Italia”.

Motivazione che, alla luce del principio dianzi esposto, si colloca ben al di sotto dei limiti dell’apparenza.

3.5. Va pertanto riaffermato il principio di diritto, cui il giudice di rinvio si atterrà nel riesaminare, eventualmente, la domanda di protezione umanitaria, alla luce del quale, secondo l’interpretazione fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte, in tema di protezione umanitaria l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del suo riconoscimento, occorre operare la valutazione comparativa della situazione oggettiva, oltre che eventualmente soggettiva (peraltro del tutto predicabile, alla luce delle considerazioni svolte in sede di analisi del primo motivo di ricorso) del richiedente con riferimento al Paese di origine sub specie della libera esplicazione dei diritti fondamentali della persona, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza – pur senza che abbia rilievo esclusivo l’esame del livello di integrazione, se isolatamente ed astrattamente considerato.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato nei limiti di cui in motivazione e rinvia il procedimento al Tribunale di Milano, che, in diversa composizione, farà applicazione dei principi di diritto suesposti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte di cassazione, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2021

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