LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 773/2015 R.G. proposto da:
Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente –
contro
A.G.I., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Silvio D’Andrea e Fabrizio Grassetti, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, via Pompeo Magno n. 2/b, giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 2258/24/14, depositata il 5 maggio 2014.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 22 febbraio 2021 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.
RILEVATO
che:
L’Agenzia delle entrate, notificato avviso di accertamento a A.G.I. per l’anno 2006 con cui era stato rideterminato il maggior reddito in relazione ad operazioni inesistenti e sottofatturate e per l’omessa dichiarazione di proventi, chiedeva l’adozione di misure cautelari D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 22, mediante iscrizione ipotecaria sui beni immobili posseduti dalla contribuente.
La misura veniva concessa fino al limite di Euro 450.000,00 dalla Commissione tributaria provinciale di Como, che, ritenuto il fumus boni iuris ed il periculum in mora, e, dunque, il fondato timore di perdere la garanzia del credito, valutava non ostativo il conferimento del bene al fondo patrimoniale di famiglia.
La sentenza, su impugnazione della contribuente, era riformata dalla CTR, che riteneva l’obbligazione tributaria, sorta nell’esercizio dell’attività d’impresa, estranea agli interessi della famiglia.
L’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione, con due motivi;
resiste con controricorso A.G.I..
CONSIDERATO
che:
1. Il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 167,170 e 2697 c.c., per aver la CTR ritenuto il reddito d’impresa evaso dalla contribuente, e quindi la relativa obbligazione tributaria, estraneo ai bisogni della famiglia, sussistendo accanto ad esso, a tal fine, il reddito conseguito dal coniuge con altra attività commerciale.
2. Il motivo è fondato.
2.1. Il saldo orientamento di questa Corte – affermato in tema di riscossione coattiva con riguardo al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, ma del tutto estensibile all’ipotesi di misura cautelare concessa D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 22, in nulla diversa per quanto concerne i profili qui rilevanti – è nel senso che l’iscrizione ipotecaria volontaria è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. 170 c.c., sicché è legittima quando l’obbligazione tributaria sia strumentale ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni, gravando in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa (Cass. n. 10166 del 28/05/2020; Cass. n. 20998 del 23/08/2018; Cass. n. 22761 del 09/11/2016; Cass. n. 1652 del 29/01/2016; Cass. n. 23876 del 23/11/2015).
In proposito, occorre ricordare che il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo, va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia), ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (v. in particolare Cass. n. 3738 del 24/02/2015, che, in quest’ottica, ha escluso possano essere sottratti all’azione esecutiva dei creditori i beni costituiti per bisogni ritenuti tali dai coniugi in ragione del loro tenore di vita familiare, così da ricomprendere anche i debiti derivanti dall’attività professionale o di impresa di uno dei coniugi qualora il fatto generatore dell’obbligazione sia stato il soddisfacimento di tali bisogni, intesi nel senso ampio su descritto).
2.2. Orbene, nella vicenda in giudizio la CTR non ha fatto corretta applicazione degli enunciati principi, incorrendo in errore di diritto sotto plurimi profili.
Da un lato ha negato che il fondo patrimoniale risponda del debito fiscale assunto dal coniuge per la propria attività sull’assunto che anche l’altro coniuge esercitava una attività propria, senza neppure considerare che ai sensi dell’art. 148 c.c. (ora 316 bis c.c.), si tratta di obbligazione (verso i figli e la famiglia) che è ripartita su entrambi i coniugi in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro e professionale, esclusa la possibilità di enucleare un criterio astratto per stabilire quale attività, tra quelle svolte dai coniugi, sia in una asserita diretta relazione con i bisogni della famiglia.
Alla stregua dei principi su esposti, invece, occorre la prova che i proventi dell’attività sono stati destinati ad altri e diversi interessi (ossia per soddisfare, in particolare, esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi), prova che non può – come erroneamente sostenuto dalla CTR – essere presunta ma deve essere fornita dal contribuente.
Inoltre, il giudice d’appello, nonostante avesse riconosciuto che una parte dei proventi dell’attività erano destinati ai bisogni familiari (“la destinazione dei frutti dell’attività separata, per il soddisfacimento dei bisogni familiari, è secondaria, in quanto avviene per quella parte dei proventi che viene sottratta al soddisfacimento dei bisogni propri”) ha ugualmente concluso per l’estraneità dell’obbligazione tributaria per non essere sussistente “un rapporto diretto tra l’obbligazione tributaria… ed i bisogni familiari soddisfatti dall’appellante con i proventi della propria attività”, conclusione, tuttavia, che rivela l’evidente errata sussunzione dei fatti accertati nelle norme qui applicabili.
E’ appena il caso di sottolineare, infine, che parimenti del tutto omessa è la disamina della conoscenza o meno da parte dell’Agenzia dell’estraneità del credito ai bisogni familiari.
3. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, e art. 7, del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 22, degli artt. 112 e 115 c.p.c., per aver la CTR ritenuto inapplicabili alla contribuente, in regime di contabilità semplificata, le presunzioni conseguenti agli accertamenti bancari, trascurando di valutare i singoli movimenti dei conti bancari, per i quali non era stata fornita alcuna giustificazione.
La CTR, inoltre, ai fini della richiesta cautelare, aveva omesso di considerare la pluralità di titoli (sottofatturazioni e operazioni inesistenti accanto alla ripresa del maggior reddito conseguente alle indagini bancarie) che la giustificavano.
3.1. Il motivo è inammissibile per carenza d’interesse.
3.2. La statuizione della CTR, invero, va considerata in relazione all’oggetto del giudizio, che verte sulla richiesta di concessione di misura cautelare e, dunque, sulla ricorrenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Ne deriva che l’affermazione del giudice d’appello concretizza, in realtà, un sommario riscontro del primo di tali requisiti, ritenuto assente con riguardo ad una delle ragioni di ripresa.
E’ vero, tuttavia, che, come dedotto dall’Ufficio (con riproduzione degli atti per le parti rilevanti), plurimi erano i fondamenti della ripresa, venendo in rilievo anche sottofatturazioni attive e operazioni inesistenti.
La mancata esplicita considerazione di tali profili da parte della CTR, peraltro, non ha significato una loro devalutazione poiché, in tal caso, la domanda dell’Ufficio sarebbe stata rigettata per carenza dei requisiti di legge, mentre il giudice d’appello ha espressamente rivolto la sua attenzione alle caratteristiche del bene destinatario dell’iscrizione ipotecaria e, dunque, muovendo dall’assunto che della pretesa cautelare sussistessero i presupposti.
Del resto, la contestata statuizione – come riconosciuto dalla stessa Agenzia – esordisce con la frase “per inciso va osservato”, risolvendosi dunque in un mero obiter (sommario se non anche sbrigativo) ininfluente ai fini della positiva valutazione del fumus boni iuris.
4. In accoglimento del primo motivo, inammissibile il secondo, la sentenza va pertanto cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR della Lombardia in diversa composizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Lombardia in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 22 febbraio 2021.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021
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