LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. VANNUCCI Marco – rel. Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 2726/2016 proposto da:
Intesa Sanpaolo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via di Villa Grazioli, n. 15, presso lo studio dell’avvocato Benedetto Gargani che la rappresenta e difende per procura speciale estesa in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
L.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via in Arcione, n. 71, presso lo studio dell’avvocato Leonardo Di Brina che lo rappresenta e difende per procura speciale estesa in calce al controricorso e ricorso incidentale;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
nonché contro Intesa Sanpaolo s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via di Villa Grazioli n. 15, presso lo studio dell’avvocato Benedetto Gargani che la rappresenta e difende per procura speciale -stesa in calce al ricorso principale;
– controricorrente al ricorso incidentale –
avverso la sentenza n. 196/2015 della Corte di appello di Roma depositata il 13 gennaio 2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 luglio 2020 dal Consigliere VANNUCCI Marco.
FATTI DI CAUSA
1. Per quanto qui ancora interessa, con sentenza n. 22071/2007 il Tribunale di Roma condannò la Banca Intesa s.p.a. a risarcire a G.L. il danno, liquidato in complessivi Euro. 429.491, aumentati di interessi in misura legale decorrenti, fino al saldo, dalla data di pubblicazione della sentenza, a tale persona fisica cagionato dalla violazione da parte della banca degli obblighi legali di informazione cui era tenuta quale intermediario in relazione alle sottoscrizioni di obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina da parte dello stesso L., rispettivamente avvenute il 17 ottobre 1999 e il 1 giugno 2001.
2. Adita dalla Intesa Sanpaolo s.p.a. (nuova denominazione di Banca Intesa s.p.a.), contumace nel giudizio di primo grado, la Corte di appello di Roma, con sentenza pubblicata il 13 gennaio 2015, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannò: la banca al pagamento, a titolo di risarcimento del danno derivato dall’accertato inadempimento ai sopra indicati obblighi, della somma di Euro 210.892,50, “oltre rivalutazione ed interessi con il metodo di calcolo della sentenza gravata”; L. a restituire alla banca il danaro percepito “in esubero” in esecuzione della sentenza di primo grado.
2.1 Sempre per quanto qui interessa, la motivazione della sentenza in risposta ai motivi di appello della banca, può essere così sintetizzata: il documento denominato “resoconto titoli al 28/6/2002”, la cui provenienza dalla banca non è stata contestata, “offre la presunzione che i titoli depositati siano stati acquistati per l’intermediazione dello stesso istituto di credito, come confermato dalla indicazione nel documento del “prezzo” di acquisto mentre la prova dell’eventuale trasferimento o disinvestimento dei fondi…, quale fatto impeditivo o estintivo dell’obbligazione, avrebbe dovuto essere fornita dalla Banca”; l’ammontare del danno risarcibile era costituito dal prezzo pagato per la sottoscrizione delle obbligazioni (complessivi Euro 336.000), diminuito del 25% (dal momento che “costituisce ormai fatto notorio che le obbligazioni come quelle in questione abbiano conservato un valore effettivo pari al 25% circa di quello nominale”), nonché dell’ammontare delle “cedole” riscosse dall’investitore fino al mese di dicembre 2001, pari a Euro 41.107,50; il credito residuo è dunque pari a Euro 210.892,50, “oltre rivalutazione ed interessi come da calcolo della sentenza gravata”.
3. Per la cassazione della citata sentenza di appello Intesa Sanpaolo s.p.a. (di seguito indicata come “Intesa”) propose ricorso contenente due motivi di impugnazione.
4. L. notificò alla banca controricorso indicante le ragioni del contrasto all’accoglimento del ricorso e contenente altresì un motivo di ricorso incidentale per la cassazione, parziale, della citata sentenza di appello.
5. All’accoglimento del ricorso incidentale Intesa si oppone con controricorso.
6. Le parti hanno depositato memorie.
7. Il collegio ha disposto che la motivazione dell’ordinanza sia redatta in forma semplificata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo”, Intesa deduce che la sentenza di appello è caratterizzata da violazione ovvero falsa applicazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c. e dell’art. 23, comma 6, del t.u.f., avendo disatteso la tesi secondo cui mancava la prova che la sottoscrizione delle obbligazioni da parte di L. fosse avvenuta con l’intermediazione di essa banca e non potendo, invece, considerarsi idonea, allo scopo, la produzione del “resoconto titoli al 28/6/2002”, in quanto il prezzo di tali beni in esso indicato, valorizzato dal giudice di appello nella motivazione della sentenza, non era il prezzo di acquisto, bensì la mera quotazione alla data del resoconto, come specificato in una nota in calce a tale documento (del seguente tenore: “I titoli italiani quotati sono valorizzati alla quotazione del giorno precedente la data in cui la posizione del resoconto si riferisce. Per i titoli non quotati (italiani ed esteri) il prezzo, se esposto, si intende puramente indicativo”).
2. Il motivo, per come dedotto, è inammissibile in quanto: l’accertamento di fatto confermato dalla sentenza di appello è nel senso che L. sottoscrisse il 17 ottobre 1999 e il 1 giugno 2001 le, obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina con l’intermediazione di Intesa; tale accertamento di fatto, dalla sentenza impugnata desunto, per presunzioni, dal contenuto del documento in essa menzionato (proveniente dalla banca), sì sarebbe dovuto, in tesi, contestare articolando una idonea censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) che, invece, non viene nemmeno enunciata, avendo Intesa dedotto solo violazioni di legge; il motivo contiene in buona sostanza una sollecitazione ad una valutazione, inammissibile nel giudizio di legittimità, del contenuto del documento in questione.
3. Con il secondo motivo la ricorrente principale afferma che la sentenza è caratterizzata da violazione dell’art. 112 c.p.c., nella parte in cui omise la pronuncia sul quarto motivo di appello di essa banca, con il quale si censurò l’extrapetizione in cui era incorso il Tribunale di Roma riconoscendo a L., a titolo di maggior danno ex art. 1224 c.c., una somma di danaro (Euro 53.406) di consistenza ben maggiore di quella richiesta dall’attore (Euro 34.000) e comprendente altresì la rivalutazione monetaria, del pari da lui non invocata.
In subordine, per il caso si ritenga che il menzionato motivo di appello sia stato rigettato, si deduce allora l’extrapetizione da parte della Corte di appello che, confermando la corrispondente statuizione contenuta nella sentenza di primo grado, riconobbe a sua volta all’attore un “maggior danno” (da lucro cessante) in misura superiore alla richiesta di Euro 34.000 da lui formulata con la citazione introduttiva del giudizio di primo grado.
4. In considerazione dell’autosufficienza del ricorso sul punto, la Corte è abilitata all’esame del contenuto della sentenza di primo grado nella parte relativa alla liquidazione del danno risarcibile.
Così, il Tribunale affermò:
che il danno emergente era pari alla perdita del capitale investito dall’attore, rivalutato secondo l’indice I.S.T.A.T. per le famiglie di operai ed impiegati relativo al mese di gennaio 2002, “momento nel quale il danno può ritenersi consolidato a seguito del tracollo finanziario conclamato dello Stato argentino (dicembre 2001)”;
che la domanda relativa agli interessi sulla somma capitale rivalutata è da interpretare come domanda di liquidazione del danno da lucro cessante, conseguente alla mancata disponibilità del danaro per il periodo intercorso fra la data dell’illecito e la pubblicazione della sentenza “e consistente nella perdita dei frutti civili che il danneggiato avrebbe potuto ritrarre – ove la somma fosse stata corrisposta tempestivamente – dall’impiego dell’equivalente monetario del valore economico del bene perduto, con l’attribuzione di interessi a un tasso non necessariamente coincidente con quello legale”;
che, in considerazione della differenza, nel menzionato periodo, fra tasso medio di rendimento degli investimenti mobiliari e tasso di inflazione secondo gli indici I.S.T.A.T. del costo della vita, è da riconoscere in via equitativa “un ulteriore 3% annuo”;
che, assumendo come base di calcolo la somma intermedia tra il valore del bene perduto al mese di gennaio 2002 (Euro 336.000) e il valore dello stesso, dopo la rivalutazione, al momento dell’emissione della sentenza (Euro 376.085), “si ottiene così un ulteriore importo di Euro 53.406,00 dovuto a titolo di lucro cessante”.
E’ certamente vero che (come del resto risulta dal testo della sentenza impugnata) con il quarto motivo di appello Intesa denunciò che la determinazione del danno da lucro cessante caratterizzante la sentenza di primo grado era viziata da violazione dell’art. 112 c.p.c. avendo essa determinato il lucro cessante in Euro 53.406 mentre l’attore lo aveva espressamente indicato in Euro 34.000, ma è altrettanto vero che tale censura risulta, implicitamente, disattesa dalla sentenza impugnata che, dopo avere determinato il danno emergente in misura inferiore a quella fissata nella sentenza di primo grado, ha espressamente confermato la correttezza del metodo di calcolo di “rivalutazione ed interessi” in tale ultima sentenza contenuto.
La prima parte del motivo è dunque da disattendere.
Con la seconda parte della censura la ricorrente principale imputa alla sentenza impugnata di essere caratterizzata dal medesimo vizio di extrapetizione assertivamente proprio della decisione di primo grado.
Essendo denunciato error in procedendo e sussistendo discussione fra le parti sul punto specifico, la Corte è tenuta all’esame del contenuto della citazione introduttiva del giudizio di primo grado (cfr. Cass. S.U., n. 8077 del 2012); avendo le parti avuto modo di evidenziare che la domanda risarcitoria non venne dall’attore emendata ovvero precisata nel corso del giudizio di primo grado.
Orbene, nella citazione, l’attore: affermò di avere diritto al risarcimento del danno a lui cagionato dai fatti, imputabili alla banca, in tale atto descritti; indicò tale danno in “Euro. 370.000, oltre interessi legali, da computarsi dalla domanda al saldo”; precisò che il danno è costituito “senza dubbio…dal valore nominale dei titoli acquisiti, oltre all’ulteriore danno costituito dalla mancata percezione dei ratei di interesse, nonché dal mancato guadagno derivante dal’impiego in altre forme di investimento finanziario delle somme”; in conclusione, affermò di avere diritto “alla restituzione delle somme investite pari a complessivi Euro 336.000,00, oltre al risarcimento dei danni, che si quantificano in ulteriori Euro. 34.000,00, costituiti dalla mancata percezione degli interessi sulla sorte capitale e dal mancato guadagno per non aver diversamente impiegato le relative cifre in investimenti remunerativi”.
La doglianza di extrapetizione riferita alla rivalutazione monetaria del credito da danno emergente è manifestamente infondata.
Sul punto è il caso di rammentare che la giurisprudenza di legittimità è ferma nell’affermare il principio secondo cui l’obbligazione di risarcimento del danno da responsabilità contrattuale (nella specie, da accertata violazione da parte della banca degli obblighi, di fonte legale, di informazione cui la stessa era tenuta, in esecuzione del contratto di intermediazione in valori mobiliari concluso con l’attore, in occasione della sottoscrizione da parte del cliente delle obbligazioni avvenuta con l’intermediazione dello stesso istituto di credito; nel senso che la responsabilità in questione è di natura contrattuale, cfr., per tutte: Cass. S.U., n. 26724 del 2007) costituisce debito di valore, sì che essa deve essere quantificata tenendo conto, anche d’ufficio, della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione dell’equivalente pecuniario del danno, costituente soltanto una diversa espressione monetaria del danno medesimo; in questo senso, cfr., per tutte: Cass. n. 13225 del 2016; Cass. 5843 del 2010; Cass. n. 18299 del 2003).
Del pari infondata è la censura di extrapetizione dalla ricorrente principale formulata quanto alla determinazione dell’equivalente pecuniario del lucro cessante.
Costituisce principio affatto consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, in tema di danno da ritardo nel pagamento di debito di valore, il riconoscimento di interessi compensativi costituisce una mera modalità liquidatoria alla quale il giudice può far ricorso col limite costituito dall’impossibilità di calcolare gli interessi sulle somme integralmente rivalutate dalla data dell’illecito; non essendogli, invece inibito, purché esibisca una motivazione sufficiente a dar conto del metodo utilizzato, di riconoscere interessi anche al tasso legale su somme progressivamente rivalutate; ovvero sulla somma integralmente rivalutata, ma da epoca intermedia;
ovvero, sempre sulla somma rivalutata e con decorrenza dalla data del fatto, ma con un tasso medio di interesse, in modo da tener conto che essi decorrono su una somma che inizialmente non era di quell’entità e che si è solo progressivamente adeguata a quel risultato finale; ovvero, di non riconoscerli affatto, in relazione a parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria e dalla redditività media del denaro nel periodo considerato (in questo senso, cfr., fra le altre: Cass. n. 7267 del 2018; Cass. n. 9515 del 2007; Cass. n. 20742 del 2004; Cass. n. 11712 del 2002).
Da tale principio la sentenza impugnata non si è discostata nel confermare la statuizione sul punto della sentenza di primo grado che, con congrua motivazione, non specificamente contestata, determinò il lucro cessante, derivante dalla indisponibilità del danaro da parte dell’attore nel periodo intercorso fra il momento del danno e la sua liquidazione, in un interesse pari al 3% annuo calcolato sulla somma intermedia fra il valore dei titoli alla data del danno (gennaio 2002) e quello rivalutato degli stessi al momento dell’emissione della sentenza di primo grado.
Premesso, poi, che in conseguenza della parziale riforma della sentenza di primo grado operata dalla sentenza impugnata, la misura del lucro cessante è necessariamente diversa da quella (Euro 53.406) indicata nella sentenza emessa dal Tribunale di Roma, avendo la Corte di appello accertato che la misura del valore delle obbligazioni in discorso al momento della pubblicazione della sentenza di appello (Euro 210.892,50) è inferiore a quella affermata dalla sentenza di primo grado (Euro 336.000), è manifestamente infondata la deduzione del ricorrente principale secondo cui L. avrebbe inteso limitare la misura del lucro cessante alla somma di Euro 34.000.
Al riguardo si osserva che nella citazione introduttiva del giudizio avanti il Tribunale di Roma (per come sopra riprodotta nelle parti qui di interesse) non sono in alcun modo specificate le ragioni da cui desumere che il lucro cessante (costituito “dalla mancata percezione degli interessi sulla sorte capitale e dal mancato guadagno per non aver diversamente impiegato le relative cifre in investimenti remunerativi”) sia stato dall’attore quantificato in misura pari a Euro 34.000; con la conseguenza che tale specifica indicazione non può in alcun modo interpretarsi come espressiva della volontà della parte di limitare la propria pretesa al conseguimento del lucro cessante (che il giudice venne chiamato a liquidare) nella misura da essa, arbitrariamente, indicata, in maniera non vincolante il giudice di merito.
5. Con l’unico motivo di ricorso incidentale G.L. deduce che la sentenza di appello è caratterizzata da violazione dell’art. 115 c.c., comma 2, nella sola parte in cui, dopo avere affermato che il danno emergente, costituito dalla perdita del valore nominale delle obbligazioni, pari a Euro 336.000, doveva essere ridotto di Euro 41.107,50, pari agli interessi sulle obbligazioni nel tempo percetti dallo stesso L. prima del mese di gennaio 2002 (statuizione in questa sede non censurata), accerta che tale valore deve essere ridotto in quanto “costituisce ormai fatto notorio che le obbligazioni come quelle in questione abbiano conservato un valore effettivo pari al 25 % circa di quello nominale”.
Sostiene il ricorrente incidentale che la sentenza ha fatto errata applicazione del concetto di “fatto notorio”, che è solo quello acquisito alle conoscenze della collettività (costituita da uomini di media cultura in un determinato tempo e luogo) con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile; con la conseguenza che la citata norma di legge processuale non risulta applicabile al caso concreto “in cui si trattava di accertare il valore residuo di specifici strumenti finanziari, trattati sul mercato internazionale, dei quali era ben nota solo l’integrale perdita di valore (dovuta al default dell’emittente)”.
6. Il motivo è ammissibile, censurando il ricorrente incidentale il riconoscimento del fatto notorio da parte della sentenza impugnata in ragione di dedotto vizio di motivazione (sostanzialmente assente) quanto alla determinazione del criterio legale di notorietà giustificativo, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, del giudizio di fatto destinato a individuare le premesse in fatto che possono assumersi per vere anche in mancanza della relativa prova (cfr., in argomento: Cass. n. 5089 del 2016; Cass. n. 17906 del 2015).
La censura coglie anche nel segno, essendo l’affermazione, affatto immotivata, sul punto caratterizzante la sentenza impugnata, antagonista del principio, da tempo acquisito al patrimonio della giurisprudenza di legittimità, secondo cui il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio) ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, comportando una deroga ai principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile: sono di conseguenza estranei alla nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, le acquisizioni specifiche di natura tecnica, gli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, nonché quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto, non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie (in questo senso, cfr., fra le molte: Cass. n. 33154 del 2019; Cass. n. 14063 del 2014; Cass. n. 6299 del 2014; Cass. n. 16959 del 2012; Cass. n. 13234 del 2010; Cass. n. 5232 del 2008; Cass. n. 7044 del 2005).
Tale principio è in questa sede da ribadire, non essendo con una qualche plausibilità predicabile che rientri oggi nelle cognizioni di un individuo, di media intelligenza e cultura, parte della società italiana la conoscenza, propria di chi è aduso a seguire con costanza le notizie relative all’andamento dei mercati, regolamentati o meno, in cui si scambiano prodotti finanziari (quali le obbligazioni emesse dagli Stat), dell’esistenza e, eventualmente, della consistenza del valore di scambio su tali mercati delle obbligazioni di cui si discute; emesse dalla Repubblica Argentina in periodo antecedente alla decisione di tale Stato (assunta nel mese di dicembre 2001) di dichiarare la moratoria del proprio debito in conseguenza dell’avanzato stato di deterioramento della propria economia, non corrispondendo dal mese di gennaio 2002 cedole sui prestiti obbligazionari da esso emessi.
7. In conclusione:
il ricorso principale è da rigettare in ragione della sua infondatezza;
il ricorso incidentale è fondato e la sentenza impugnata deve essere cassata nella sola parte in cui afferma, ai fini della determinazione del danno accertato, che il valore delle obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina, dal Signor L. sottoscritte, con l’intermediazione di Intesa, il 17 ottobre 1999 e il 1 giugno 2001, era, al momento dellàpubblicazione della sentenza impugnata, pari al 25% del relativo valore nominale, con rinvio alla Corte di appello di Roma che, in diversa composizione, dovrà conformarsi al principio di diritto sopra ribadito e accertare, alla luce di tutti gli elementi di fatto acquisiti al processo, se tali obbligazioni abbiano un qualche valore residuo e, in caso affermativo, quale sia tale valore residuo.
Al giudice di rinvio è rimessa anche la pronuncia sulle spese relative al giudizio di legittimità.
PQM
La Corte: rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, cui rimette anche la pronuncia sulle spese relative al giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Prima Sezione Civile, il 7 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021