Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.21832 del 29/07/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26080/2019 proposto da:

***** s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e difeso dall’avvocato Stefano De Bosio, in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

***** s.a., ***** s.r.l.,

– intimati –

e contro

***** s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via San Nicola da Tolentino, 67, presso lo studio dell’avvocato Paolo Marzano, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Gianpaolo Locurto, in forza di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2232/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 22/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 19/05/2021 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione del 15/5/2014 la s.r.l. ***** ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di impresa la ***** s.a. e la ***** s.r.l., contitolari del brevetto Europeo ***** (di seguito, semplicemente, *****), convalidato per l’Italia con relativa traduzione, attinente ad un dispositivo di sicurezza da introdurre sulle cartucce perforabili di gas liquido pressurizzato per l’alimentazione di apparecchi da campeggio, volto a limitare le possibili perdite di prodotto in caso di estrazione della cartuccia non esausta, al fine di accertare la nullità del brevetto per carenza di altezza inventiva e comunque la non interferenza con il brevetto della soluzione tecnica adottata nei suoi dispositivi in seguito all’introduzione di una nuova normativa UNI nell’aprile 2014.

Le due società convenute si sono costituite in giudizio, contestando la domanda di controparte e sostenendo la piena validità del loro brevetto e l’interferenza del dispositivo installato nelle cartucce *****; hanno altresì proposto domanda riconvenzionale volta ad ottenere l’accertamento della contraffazione, con inibitoria, ritiro dal commercio, risarcimento del danno e in ogni caso retroversione degli utili ai sensi dell’art. 125, comma 3, c.p.i., e pubblicazione della sentenza.

Nel subprocedimento cautelare è stata esperita una consulenza tecnica, all’esito della quale sono stati emessi provvedimenti cautelari inibitori e impositivi di penali, parzialmente mitigati in sede di reclamo.

La controversia è stata transatta quanto ai rapporti tra ***** e *****, che è rimasta in causa esclusivamente come litisconsorte necessario quanto alla domanda di nullità del brevetto.

Il Tribunale di Milano con sentenza del 10/7/2018 ha rigettato le domande della ***** e ha accolto le domande riconvenzionali di Plein Air, accertando la contraffazione, disponendo l’inibitoria e il ritiro dal commercio dei prodotti, fissando penali per la violazione, condannando la ***** alla retroversione degli utili ai sensi dell’art. 125, comma 3, c.p.i. e disponendo la pubblicazione della sentenza.

2. Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello la *****, proponendo otto motivi di gravame, in tema di interferenza, misure repressive e soprattutto, per quanto in questa sede ancora rileva, retroversione degli utili, a cui ha resistito l’appellata *****.

La Corte di appello di Milano – sezione specializzata in materia di impresa con sentenza del 22/5/2019 ha accolto il gravame solo in punto pubblicazione del dispositivo della sentenza, confermando per il resto la decisione di primo grado, col favore delle spese per *****.

3. Avverso la predetta sentenza del 22/5/2019, notificata in data 3/6/2019, con atto notificato il 3/9/2019 ha proposto ricorso per cassazione la *****, svolgendo tre motivi.

Con atto notificato il 10/10/2019 ha proposto controricorso e la *****, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione nonché la condanna della ricorrente ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.

La ***** S.a. non si è costituita nel giudizio di legittimità.

Le parti contrapposte ***** e ***** hanno illustrato con apposita memoria le rispettive difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare ***** eccepisce l’inammissibilità del ricorso avversario per tardività poiché la notifica era avvenuta solo in data 3/9/2019 e cioè un giorno dopo la scadenza del termine ex art. 325 c.p.c., decorrente dalla data di notificazione della sentenza di appello (3/6/2019), che scadeva giustappunto il 2/9/2019, lunedì, anche tenuto conto del periodo di sospensione feriale dall’1 al 31/8/2019.

1.1. Secondo ***** sarebbe irrilevante il tentativo di notificazione a mezzo posta effettuato dalla ricorrente il 29/8/2019 – e quindi ancora nel termine ex art. 325 c.p.c. – presso il precedente studio degli avvocati Gianpaolo Lo Curto e Daniele Caneva a *****, poiché essi si erano trasferiti al nuovo studio di *****, sempre in ***** e la cosa era ben nota all’avvocato Stefano De Bosio, legale della ricorrente.

Ciò viene sostenuto dalla controricorrente alla luce di un carteggio (telematico) intercorso tra l’avvocato Stefano De Bosio e l’avv. Giampaolo Locurto, a giugno del 2019, scaturito dalla richiesta di pagamento delle spese legali del giudizio di appello, in cui l’avv. Locurto aveva inviato al collega alcune mails recanti il nuovo indirizzo e i due legali avevano conversato – e finanche scherzato circa il passaggio degli avvocati Locurto e Caneva alla organizzazione legale Ernest & Young, in data 1/4/2019.

1.2. L’eccezione è infondata.

In primo luogo, è bene precisare che ***** neppure sostiene di aver dato conto del nuovo indirizzo dello studio legale dei propri difensori allorché ha notificato la sentenza ai sensi degli artt. 285 e 330 c.p.c. e fa leva solamente su di una conoscenza informale del trasferimento di esso, maturata in capo al legale di controparte nelle more fra la notificazione della sentenza e la scadenza del termine per impugnare.

In secondo luogo, la ricorrente ha prodotto la schermata dell’Albo degli Avvocati di Milano da cui risultava ancora in data 3/9/2019 la permanenza dell’indirizzo dello studio degli avvocati Locurto e Caneva in via del *****, circostanza questa documentata e non contestata dalla controricorrente.

1.3. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di “riattivazione” del procedimento notificatorio, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio, e, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (Sez. U., n. 17352 del 24/07/2009, Rv. 609264 – 01; Sez. U., n. 14594 del 15/07/2016, Rv. 640441 – 01; Sez. 6 – 3, n. 24660 del 19/10/2017, Rv. 645929 – 01).

Sussiste poi indubbiamente nella fattispecie il necessario requisito della celere e tempestiva attivazione del procedimento notificatorio poiché il ricorrente ha lasciato decorrere solo un giorno fra la notizia del fallimento della prima notificazione e la richiesta della seconda.

1.4. Inoltre, secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite, la notifica presso il procuratore costituito o domiciliatario va effettuata nel domicilio da lui eletto nel giudizio, se esercente l’ufficio in un circondario diverso da quello di assegnazione, o, altrimenti, nel suo domicilio effettivo, previo riscontro, da parte del notificante, delle risultanze dell’albo professionale (Sez. U., n. 3818 del 18/02/2009, Rv. 607092 – 01; Sez. U., n. 14594 del 15/07/2016).

Secondo questo orientamento, la previsione dell’art. 330 c.p.c., comma 1, della sussidiaria proposizione dell’impugnazione mediante notificazione “presso il procuratore costituito o nella residenza dichiarata o nel domicilio eletto per il giudizio”, poiché identifica nel procuratore il destinatario della notifica, salvo espressa e diversa dichiarazione di residenza od elezione di domicilio e contiene un riferimento unicamente personale, fa implicito richiamo per la notificazione dell’atto alle modalità previste dagli artt. 138 e 139 c.p.c., in forza delle quali la notifica deve essere effettuata mediante consegna di una sua copia a mani proprie del destinatario ovvero, tra gli altri, nel luogo nel quale il professionista risiede per ragioni del suo ufficio, a norma della legge professionale. Poiché l’indicazione del luogo di consegna dell’atto, oltre che indispensabile al buon esito della notifica, costituisce un requisito essenziale all’identificazione del destinatario di essa, tale requisito deve essere assicurato con l’indicazione del “domicilio professionale” o della “sede dell’ufficio” del procuratore.

Tale accertamento, essenziale alla validità ed all’astratta efficacia della richiesta, costituisce un adempimento preliminare a carico del notificante, che deve essere soddisfatto necessariamente con il previo riscontro di esso presso l’albo professionale, che rappresenta la fonte legale di conoscenza del domicilio degli iscritti e nel quale il procuratore ha l’obbligo di fare annotare i mutamenti della sua sede. Tale onere non può ritenersi escluso od attenuato da un insussistente dovere del procuratore di dichiarare nel giudizio il proprio domicilio ed i suoi mutamenti, e/o della parte di comunicare quelli del domicilio presso di lui eletto.

Le norme professionali prevedono, infatti, l’obbligo del procuratore di eleggere un domicilio, e comunicarne i mutamenti, soltanto nel caso di svolgimento di attività al di fuori della circoscrizione di assegnazione; la pubblicità dei mutamenti dello studio è soddisfatta da quella legale relativa al mutamento del domicilio del procuratore. All’onere di verificare anteriormente alla notifica dell’impugnazione presso l’albo professionale il domicilio del procuratore presso il quale notificare l’impugnazione corrisponde l’assunzione da parte del notificante del rischio dell’esito negativo della notifica richiesta in un domicilio diverso da quello effettivo e sono manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità sollevati rispetto ad essi per l’impossibilità che ne deriverebbe al notificante di fruire per l’intero dei termini di impugnazione, sia perché l’effettività della tutela del diritto di agire e di difendersi nel processo è assicurata nelle forme e nei limiti ragionevolmente previsti dall’ordinamento processuale e sia in quanto l’accertamento del domicilio effettivo del procuratore risultante dall’albo professionale nessun significativo pregiudizio temporale può comportare alla parte, considerata che l’agevole consultazione degli albi e, in particolare, la loro attuale informatizzazione ed accessibilità telematica.

1.5. Non rileva quindi la conoscenza informale, che sarebbe stata attinta dall’avv. De Bosio, circa il passaggio dei due legali avversari allo studio Ernest & Young, desunta dall’indicazione, in calce alle e-mails dell’avv. Locurto, del nuovo recapito.

Questi dati, infatti, non escludevano, immediatamente e formalmente, la persistente validità anche del precedente indirizzo, il cui mutamento non risulta segnalato il 3/6/2019, e cioè in un momento successivo a quello (1/4/2019) al quale l’avv. Locurto nel carteggio ha fatto risalire l’associazione a E&I, tanto più – elemento questo dirimente – che i difensori di ***** non avevano ancora segnalato il loro trasferimento di studio in data 3/9/2019 al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

Alla stregua delle inequivoche indicazioni fornite dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, l’avv. De Bosio non è quindi venuto meno al proprio onere di diligenza confidando nella validità del recapito professionale attestato dall’Ordine milanese con riferimento alla data della tentata notificazione e presumendo, quindi, come osserva nella memoria illustrativa (pag. 2, notai), che i colleghi facessero la spola tra il vecchio studio, ancora valido recapito professionale, e il nuovo studio a cui già collaboravano.

Ne consegue linearmente la legittimità e la validità della riattivazione del procedimento notificatorio successivamente – e poco dopo – esperita.

2. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente ***** denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 125, commi 1 e 3 c.p.i., art. 1223 c.c., art. 2056 c.c., commi 1 e 2, art. 2600 c.c., all’art. 17 CEDU, all’art. 54 della Carta di Nizza e all’art. 8.2 dei Trips.

2.1. La ricorrente censura la decisione della Corte di appello con riferimento al rigetto del suo quinto motivo di appello in ordine ai requisiti della colpa, del nesso eziologico e del danno ai fini della condanna alla retroversione degli utili conseguiti dall’autore della violazione.

La ricorrente giudica erronei e critica entrambi gli assunti, su cui la Corte di appello ha fondato la sua decisione e cioè:

(a) il fatto che la retroversione degli utili, prevista del citato art. 125, comma 3 c.p.i., prescinda dalla ricorrenza nel caso concreto di un danno risarcibile;

(b) che essa prescinda altresì dal requisito della colpa del contraffattore, rilevando solo la sussistenza in linea oggettiva della contraffazione.

Secondo la ricorrente, l’abbandono della logica risarcitoria per attribuire all’istituto una funzione sanzionatorio-punitiva, porterebbe ad un contrasto con le previsioni normative in caso di violazione del diritto d’autore (art. 158 l.d.a.), non superabile neppure attraverso l’assimilazione dell’istituto a una sorta di arricchimento senza causa; inoltre l’alternatività della retroversione al risarcimento del lucro cessante imporrebbe di attribuirle la medesima natura e il fondamento su di un pregiudizio accertato in capo al titolare del diritto, del resto accreditata anche dall’art. 13 della direttiva 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement).

Infine, in conformità ai principi generali in tema di risarcimento del danno, non potrebbe essere trascurata la necessità di un elemento psicologico, almeno colposo, in capo al contraffattore, al cui riguardo la Corte di appello aveva rifiutato di indagare in quanto considerato irrilevante: elemento tanto più imprescindibile nell’ottica di un rimedio sanzionatorio e punitivo.

In tal modo ***** ripropone gli argomenti già sviluppati dinanzi alla Corte milanese con il quinto motivo di appello per sostenere che l’istituto della retroversione degli utili sarebbe una forma di liquidazione forfettaria del danno all’avviamento aziendale e non già una misura autonoma a cui si potrebbe far ricorso in assenza della prova del danno o dell’elemento soggettivo in capo al contraffattore.

2.2. La Corte di appello di Milano ha affermato, da un lato, che la retroversione degli utili “prescinde dalla ricorrenza, nel caso concreto, di un danno risarcibile” (pag. 25, 4 capoverso); dall’altro, che era irrilevante l’accertamento dell’elemento psicologico (la cui sussistenza era dibattuta tra le parti, visto che ***** protestava la propria buona fede e ***** faceva valere quantomeno una presunzione di colpa del contraffattore di un brevetto) alla luce della funzione dell’istituto di “recupero del vantaggio competitivo” (pag. 29-30).

2.3. I problemi giuridici che la Corte deve affrontare, per la prima volta in modo specifico e puntuale, sono quindi due e distinti fra loro, seppur entrambi implicati dal motivo di ricorso, e cioè:

a) i rapporti dell’istituto della retroversione degli utili con il risarcimento del danno da lucro cessante;

b) il presupposto psicologico (id est: elemento soggettivo) in capo al contraffattore necessario per l’applicabilità dell’istituto.

2.4. L’art. 125 c.p.i., contiene una serie di regole specifiche in tema di risarcimento del danno conseguente alla violazione dei diritti di proprietà industriale che non esistevano nelle leggi speciali anteriori (R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, art. 86, c.d. “legge invenzioni”, del R.D. 11 giugno 1942, n. 929, art. 66, comma 2, c.d. “legge marchi”, della L. 21 febbraio 1989, n. 70, art. 18, comma 1, in tema di topografie dei prodotti a semiconduttori) che non andavano oltre alcune disposizioni molto generiche in tema di tutela risarcitoria.

L’impianto originario del codice della proprietà industriale, che recepiva orientamenti giurisprudenziali consolidati, poco dopo la sua entrata in vigore è stato significativamente revisionato in attuazione della Direttiva 48/2004/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (cosiddetta “Direttiva enforcement”) attuata con il D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140.

2.4.1. Come non ha mancato di segnalare la sentenza impugnata, era opinione largamente diffusa che il sistema di tutela risarcitoria nel caso di violazione dei diritti di proprietà industriale, fondato sui criteri generali che disciplinano il risarcimento del danno secondo le regole ordinarie dell’illecito aquiliano, fosse gravemente inadeguato e sostanzialmente inefficace, per la sua natura esclusivamente compensativa, priva di una reale capacità dissuasiva e deterrente, e soprattutto per la notevole difficoltà di prova di un pregiudizio patrimoniale, oggettivamente determinato e quantificato.

Ciò, secondo autorevole dottrina, comportava una sistematica sottovalutazione del danno risarcibile nelle controverse in tema di violazione dei diritti di proprietà industriale; molti commentatori osservavano criticamente che il contraffattore, nella peggiore delle ipotesi, all’esito del giudizio risarcitorio, rischiava solo di dover pagare una parte dei profitti realizzati illegittimamente o di dover versare al titolare del diritto solamente il corrispettivo teorico di un contratto di licenza che non era mai stato stipulato.

Nel preambolo della Direttiva enforcement si legge che la tutela della proprietà intellettuale deve essere considerata un elemento essenziale per il successo del mercato interno, importante non solo per la promozione dell’innovazione e dell’attività di creazione, ma anche per lo sviluppo dell’occupazione e la crescita della concorrenzialità; che la tutela della proprietà intellettuale deve consentire all’inventore o al creatore di trarre legittimo profitto dalla sua invenzione o dalla sua creazione; che, in assenza di misure efficaci che assicurino il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, l’innovazione e la creazione sono scoraggiate e gli investimenti si contraggono; che è necessario assicurare che il diritto sostanziale in materia di proprietà intellettuale, parte dell’acquis comunitario, sia effettivamente applicato nella Comunità; che gli strumenti per assicurare il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale rivestono un’importanza capitale per il successo del mercato interno.

2.4.2. Il testo originario dell’art. 125 del codice della proprietà industriale, risalente al D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, era costituito solo da due commi e prevedeva che il risarcimento dovuto al danneggiato fosse liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c.; era però espressamente stabilito che il lucro cessante dovesse essere valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto; era inoltre previsto che il giudice, con la sentenza con cui provvedeva sul risarcimento dei danni, potesse farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivavano.

2.4.3. Il testo attuale, modificato nel 2006, recita “1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione. 2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. 3. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”.

2.4.4. La ricordata Direttiva enforcement nei “considerando” n. 25 e 26, per quanto attiene alle misure risarcitorie, ha affermato che occorreva consentire agli Stati membri di prevedere, nei casi in cui una violazione era stata commessa in modo non intenzionale e senza negligenza, e laddove le misure correttive o inibitorie previste dalla direttiva sarebbero sproporzionate, la possibilità, in casi appropriati, di erogare compensazioni pecuniarie alla parte lesa come misura alternativa; inoltre, allo scopo di rimediare al danno cagionato da una violazione commessa da chi sapeva, o avrebbe ragionevolmente dovuto sapere, di violare l’altrui diritto, era opportuno che l’entità del risarcimento da riconoscere al titolare tenga conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali la perdita di guadagno subita dal titolare dei diritti o i guadagni illeciti realizzati dall’autore della violazione e, se del caso, eventuali danni morali arrecati; in alternativa, ad esempio, qualora fosse difficile determinare l’importo dell’effettivo danno subito, l’entità dal risarcimento avrebbe potuto essere calcolata sulla base di elementi quali l’ammontare dei corrispettivi o dei diritti che l’autore della violazione avrebbe dovuto versare qualora avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale.

Il citato preambolo della Direttiva ha anche chiarito che il fine non era quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva, tenuto conto delle spese sostenute dal titolare.

L’art. 13 della Direttiva enforcement ha così preteso che gli Stati membri assicurino che, su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie possano condannare l’autore della violazione, implicato consapevolmente, o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, in tale attività, al risarcimento di danni adeguati al pregiudizio effettivo subito dal titolare del diritto violato.

La Direttiva ha inoltre stabilito che nella liquidazione dei danni le legislazioni nazionali debbano tener conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno subito dalla parte lesa, i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione, e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione; la Direttiva, in alternativa, autorizza la fissazione, in casi appropriati, di una somma forfettaria non inferiore, per lo meno, all’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti qualora l’autore della violazione avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto di proprietà intellettuale violato.

L’art. 13, comma 2, ha aggiunto che nei casi in cui l’autore della violazione fosse stato implicato in un’attività di violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, gli Stati membri possano sancire il recupero dei profitti o il pagamento di danni anche predeterminati.

2.4.5. La disciplina della Direttiva ha dato in tal modo seguito all’Accordo TRIPs (Trade Related Aspects of Intellectual Property, concluso a Marrakech il 15/4/1994 e approvato dal Consiglio Europeo con decisione 94/800/CE) attuato in Italia, dapprima parzialmente con il D.Lgs. 9 marzo 1996, n. 198, in aspetti diversi da quelli relativi alla tutela risarcitoria e poi con la stesura originaria del codice della proprietà industriale.

L’art. 45 Trips esigeva che il risarcimento fosse commisurato in una somma adeguata, equiparava la “violazione consapevole”, ossia dolosa, a quella di chi avesse “ragionevoli motivi per esserne consapevole” (ossia colposa) e prevedeva, per l’uno e l’altro caso, la possibilità di un recupero degli utili dell’autore della violazione ordinato dall’autorità giudiziaria.

2.4.6. Come si è detto, l’art. 125, comma 1, c.p.i. richiama in linea generale la disciplina civilistica del risarcimento del danno aquiliano, ossia gli artt. 1223,1226 e 1227 c.c., vale a dire le identiche norme oggetto del rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c..

L’art. 1223 c.c., include nel risarcimento del danno la perdita subita (ossia il danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) che ne siano conseguenza immediata e diretta; di conseguenza chi agisce per il risarcimento dei danni deve allegare e provare il nesso di causalità tra il comportamento illecito e il pregiudizio subito, secondo le regole della causalità giuridica e materiale ex art. 1223 c.c. e art. 41 c.p.; l’art. 1226, consente la liquidazione con valutazione equitativa del danno che non può essere provato nel suo preciso ammontare; l’art. 1227 c.c., prevede la diminuzione del risarcimento per il danno che il fatto colposo del titolare del diritto ha concorso a cagionare e l’esclusione del risarcimento per i danni che il titolare del diritto avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.

E’ stato osservato che il risarcimento nel campo della proprietà industriale mira al ripristino di corrette condizioni di svolgimento della concorrenza in un mercato caratterizzato dall’esistenza di privative; in questa logica il danno risarcibile si avvicina al danno concorrenziale, provocato dall’alterazione dei fattori di mercato conseguente all’illecito e che giustifica l’irrogazione dell’inibitoria, anche in assenza di un danno economico attuale per il titolare del diritto violato, ma se ne distingue perché ai fini del compimento dell’illecito concorrenziale basta l’astratta potenzialità dannosa, mentre ai fini risarcitori è richiesta un’alterazione attuale ed effettiva di questi fattori.

2.4.7. Merita attenzione, anche in funzione dell’analisi successiva, il riferimento al parametro dei benefici ricavati dal contraffattore quale criterio generale rilevante per la determinazione del danno, indipendentemente dall’istituto della retroversione degli utili contemplato dal comma 3 della norma, oggetto della presente controversia: in questa prospettiva il beneficio ritratto dall’autore della violazione opera come criterio indiretto e presuntivo che va a concorrere nel quadro della valutazione volta a ricavare induttivamente l’entità del pregiudizio subito dal titolare del diritto, attore nello stesso mercato.

Tale disposizione, che pur prende le mosse dalla regola generale della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. e, come questa, richiama le regole sulla liquidazione del danno da inadempimento, si apre ad una logica non puramente indennitaria, nella quale si dovrebbe arrestare alla considerazione delle conseguenze economiche negative per il titolare del diritto violato, compreso il mancato guadagno, per esigere la ponderazione di altri aspetti definiti “pertinenti”, fra i quali appunto i benefici realizzati dall’autore della violazione.

Viene in tal modo introdotto un elemento di per sé non rilevante in chiave strettamente indennitaria e invece significativo in una prospettiva riparatoria, volta a controbilanciare tutti gli effetti negativi che la contraffazione ha avuto per un corretto svolgimento dell’attività di mercato.

A tal proposito questa Corte (Sez. 1, 1/3/2016, n. 4048), dopo aver ricordato che in materia di risarcimento del danno cagionato da una violazione di una privativa industriale, il nuovo art. 125, comma 3, c.p.i., ha attribuito valenza autonoma alla cosiddetta retroversione degli utili, che possono essere richiesti in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento, ha ritenuto che in ogni caso, a prescindere dall’applicabilità ratione temporis di tale articolo, gli utili tratti dal contraffattore devono essere considerati come uno dei parametri di riferimento, applicabili in via equitativa dal giudice, per quantificare il lucro cessante.

2.4.8. Il lucro cessante si rapporta quindi alla differenza fra i flussi di vendita (e di conseguenza agli utili) che il titolare del diritto avrebbe registrato senza la contraffazione e quelli che si sono effettivamente realizzati, dando ingresso ad un giudizio ipotetico controfattuale circa l’andamento ipotetico del mercato quale si sarebbe sviluppato in assenza del fattore illecito perturbante.

Se normalmente vien fatto riferimento per la prova e la determinazione del danno all’entità del calo del fatturato subito dall’impresa del titolare del diritto violato, non si può, però, trascurare anche la possibilità che il calo sia influenzato da un generale andamento negativo del mercato del settore, ovvero dalla presenza di prodotti sostituibili, ossia dalla presenza sul mercato di riferimento di concorrenti ulteriori che agiscano lecitamente.

Non ogni vendita realizzata dal contraffattore corrisponde a una vendita non realizzata dall’avente diritto e per altro verso, la dimostrazione di un calo di fatturato dell’impresa del titolare del diritto violato non è affatto un elemento imprescindibile per la prova del danno da contraffazione: in un contesto di andamento generale positivo del mercato di riferimento, ovvero di comprovato incremento ascendente della quota di mercato del titolare del diritto violato, remunerativa degli investimenti effettuati, è infatti ben possibile che il contraffattore con la sua condotta abbia semplicemente limitato la curva di incremento del fatturato del titolare del diritto, pur sempre positiva, anche se in misura minore di quella che si sarebbe realizzata nel contesto non perturbato dalla violazione.

Questa Corte (Sez. 1, 10/6/2014, n. 13025) ha al proposito affermato che il danno cagionato all’impresa titolare del marchio contraffatto non consiste necessariamente in una riduzione delle vendite o in un calo del fatturato rispetto al periodo precedentemente considerato, potendo esso manifestarsi anche solo in una riduzione del potenziale di vendita e, quindi, in una minore crescita delle vendite, senza che si abbia una corrispondente riduzione rispetto agli anni precedenti.

2.4.9. Il richiamo all’art. 1226 c.c., consente la liquidazione equitativa del danno non suscettibile di prova nel suo preciso ammontare: situazione questa frequentemente ravvisabile in caso di violazione di un diritto di proprietà industriale, in considerazione delle difficoltà probatorie, che in parte scaturiscono dalla peculiarità delle conseguenze economiche provocate dall’alterazione dell’assetto del mercato e in parte risentono della difficoltà di accesso agli elementi di prova che sono nella pertinenza dell’autore della violazione.

2.4.10. Il danno da contraffazione deve pur sempre essere dimostrato, anche presuntivamente, nella sua ontologica esistenza e non si tratti solamente di determinarne l’entità: è stato affermato (Sez. 1, 21/06/2016, n. 12812), con riferimento a fattispecie sottratta ratione temporis all’applicazione del novellato art. 125 c.p.i., che la valutazione equitativa del lucro cessante dall’art. 2056 c.c., comma 2, non implica alcuna relevatio dall’onere probatorio quanto alla concreta esistenza del pregiudizio patrimoniale (e ciò sia nelle linee generali, sia in materia brevettuale, sia nei casi di danno da concorrenza sleale), poiché il giudizio di equità riguarda solo l’entità del pregiudizio, in considerazione dell’impossibilità o della grande difficoltà di dimostrarne l’esatta misura.

2.4.11. l’art. 125, comma 2, attribuisce però una ulteriore agevolazione probatoria al titolare del diritto violato rispetto all’ordinaria liquidazione equitativa, ammettendo che la stessa possa avvenire in una “somma globale” stabilita in base agli elementi acquisiti e alle presunzioni da essi ricavabili, in tal modo autorizzando una significativa attenuazione dei doveri motivazionali da parte del giudice che provvede alla liquidazione forfettaria.

La Direttiva Europea e quindi la legge nazionale disegnano quindi due distinte tecniche liquidatorie: quella “analitica”, disaggregata in singole voci; e quella alternativa “forfettaria”, basata sull’attribuzione di una somma globale onnicomprensiva.

2.4.12. La legge prevede che nella tecnica forfettaria il danno da lucro cessante possa essere determinato anche con riferimento al “giusto prezzo del consenso”, individuato in una somma non inferiore all’equa royalty, ossia al canone che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere in base ad una ipotetica licenza concessagli dal titolare del diritto.

A tal proposito, recentemente questa Corte ha affermato che il titolare del diritto di privativa leso può chiedere di essere ristorato del danno patito invocando il criterio costituito dal margine di utile del titolare del brevetto applicato al fatturato dei prodotti contraffatti, realizzato dal contraffattore, di cui all’art. 125 c.p.i., alla luce del quale il danno va liquidato sempre tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale. In particolare, in tale ambito, il criterio della giusta royalty o royalty virtuale segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa che non può essere utilizzato a fronte dell’indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, il tutto nell’obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale (Sez. 1, n. 5666 del 02/03/2021, Rv. 660575 – 01) 2.5. I profili più problematici nel campo del risarcimento del danno attengono all’istituto – rilevante ai fini di causa – della retroversione degli utili (ovvero “riversione” o “reversione”; “restituzione” nell’art. 125 c.p.i.; “recupero” di profitti e utili nella Direttiva enforcement e negli Accordi Trips).

2.5.1. Il comma 3 dell’art. 125 c.p.i., appunto prevede che “in ogni caso” il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione – evidentemente in forza e in conseguenza della stessa – in alternativa al risarcimento del lucro cessante.

La lettera della norma è inequivocabile nel circoscrivere la forma di ristoro al pregiudizio da lucro cessante, ossia ai mancati guadagni, sicché tale voce può sicuramente cumularsi al risarcimento di quelle di danno emergente.

La norma è altrettanto chiara nell’ammettere la richiesta della retroversione degli utili realizzati dal contraffattore nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante.

In tal modo il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ritratto anche se la violazione non vi fosse stata, per esempio perché, essendo meno attrezzato, meno efficiente o meno dimensionato rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato; il caso inoltre si può verificare nella materia brevettuale, in cui la titolarità del diritto di proprietà industriale può essere svincolata dallo svolgimento di una attività di impresa, quando l’inventore titolare lamenti la violazione da parte di un imprenditore di una privativa che egli non ha ancora provveduto a realizzare o a far realizzare industrialmente.

Il tema è stato indagato da autorevole dottrina, che ha posto in luce l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e di prevenire la pianificazione di attività contraffattive da parte di operatori economici più efficienti per capacità imprenditoriale del titolare del diritto di proprietà intellettuale; questi infatti potrebbero, anche in presenza di un sistema che garantisca al titolare una piena compensazione del suo mancato profitto, organizzare una attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, pur considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, contando sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare ed il proprio maggior profitto.

2.5.2. In tali ipotesi, il ricorso a questa forma di liquidazione forfettaria e rigida del danno allontana il risarcimento dalla tradizionale funzione meramente compensativa ad esso assegnata nel nostro ordinamento, preordinata a ristorare il titolare del diritto da una perdita che non avrebbe subito se la violazione non fosse stata perpetrata, o, quantomeno, da tale sola funzione, avvicinandola sensibilmente a una logica preventiva e dissuasiva dall’illecito, sia pur sempre sotto l’egida del collegamento necessario con la violazione di un diritto assoluto potenzialmente capace di una espansione economica.

In questa prospettiva la retroversione, così come delineata dal legislatore, rivela una evidente analogia (seppur non in termini di completa sovrapposizione delle fattispecie) con i principi che governano l’arricchimento senza causa per l’intento di riallocare la distribuzione di ricchezza in tal modo conseguita fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa.

Il legislatore del 2006 ha così introdotto uno strumento rimediale sui generis, di tipo restitutorio, ispirato a una logica composita, in parte compensatoria e in parte dissuasiva e deterrente, che si affianca alla tutela risarcitoria classica, sia pur nella sua declinazione speciale prevista in materia di proprietà industriale con le regole particolari stabilite nei primi due commi dell’art. 125.

Questa conclusione è resa evidente già dalla stessa rubrica del novellato art. 125, intitolata al “Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell’autore della violazione” e caratterizzata dal riferimento ai due istituti rimediali.

Dal punto di vista dell’analisi testuale appaiono assai significativi sia l’inequivocabile incipit del comma 3 (“in ogni caso”), sia, soprattutto, l’esplicita previsione, nell’ultima parte della norma, della possibilità – altrimenti inspiegabile in una logica prettamente risarcitoria volta a ricondurre comunque la retroversione nell’alveo del risarcimento classico – per il titolare di chiedere la restituzione degli utili nella misura eccedente il lucro cessante e quindi in una ipotesi, nella quale, per definizione, non ci sarebbero i presupposti ordinari del risarcimento.

E’ evidente poi che l’introduzione del comma 3, effettuata nel 2006, sarebbe stata del tutto inutile se la retroversione presupponesse comunque la prova a monte di un mancato utile del titolare della privativa, tenuto conto di quanto dispone dello stesso art. 125, comma 1 c.p.i. e del suo puntuale riferimento, quale elemento di valutazione complessiva, al fattore dei benefici realizzati dall’autore della contraffazione.

2.5.3. Indubbiamente il legislatore nazionale è andato oltre la stretta esigenza di adeguamento scaturente dalla Direttiva enforcement (che contemplava il parametro dei benefici realizzati dal contraffattore quale componente eventuale di commisurazione del danno risarcibile e autorizzava facoltativamente gli Stati membri a introdurre l’istituto della restituzione degli utili per le violazioni cosiddette “incolpevoli”, commesse in modo non intenzionale e senza negligenza).

Tuttavia, non si vede come si possa superare il rilievo sistematico che la violazione dolosa o colposa non potrebbe essere sanzionata meno severamente di quella inconsapevole e come quindi si possa negare la retroversione anche a colui che abbia subito una violazione dei diritti di privativa, dolosa o quantomeno colposa, tanto più in assenza di qualsiasi limitazione in tal senso dell’art. 125, comma 3 c.p.i. che invece contiene una clausola generale deliberatamente latissima (“in ogni caso”).

Occorre quindi concludere che la restituzione dei profitti completa l’arsenale degli strumenti di tutela reale della proprietà industriale e garantisce al titolare del diritto il godimento del vantaggio competitivo assicurato dalla privativa e gli incrementi patrimoniali connessi al suo sfruttamento.

Del resto, l’art. 13 della Direttiva enforcement va letto in armonia con l’art. 45 dei TRIPS, che appunto ammetteva la possibilità di recupero degli utili del contraffattore anche in caso di violazioni inconsapevoli, implicitamente riconoscendola anche per le violazioni consapevoli.

2.5.4. Secondo un condivisibile orientamento della giurisprudenza di merito, fondato sia sul riferimento testuale della legge alla facoltà di richiesta da parte del titolare del diritto leso, sia soprattutto sulla peculiarità dei temi di indagine connessi, capaci di influire significativamente sull’orientamento delle difese delle parti, la richiesta di retroversione degli utili costituisce una vera e propria domanda che deve essere proposta entro la soglia fissata dalla legge processuale per le preclusioni assertive, quindi quantomeno entro il termine della prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6.

2.5.5. In passato era stata prospettata una lettura riduttiva dell’istituto della retroversione degli utili, volta a ricondurne i lineamenti alla tradizionale funzione compensatoria del risarcimento e in parte influenzata dall’orientamento in tema di contrasto dei “danni punitivi” con l’ordine pubblico interno.

Si è già detto che l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato.

Non pare comunque fuor di luogo rammentare che il citato orientamento restrittivo in materia è stato rimeditato e significativamente attenuato dalla successiva pronuncia delle Sezioni unite del 5/7/2017, n. 16601 (nello stesso senso, Sez. 3, 28/2/2019, n. 5829), con la quale è stato infatti ritenuto che nel sistema italiano della responsabilità civile, così come regolato dalla legge, la valutazione dell’incidenza della condotta del danneggiante sulla entità del danno da liquidare (e, dunque, l’apprezzamento di una sostanziale funzione sanzionatoria dell’istituto della responsabilità risarcitoria), non è astrattamente incompatibile con i principi dell’ordinamento, in cui al risarcimento non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, ma anche la funzione di deterrenza e la funzione sanzionatoria del responsabile civile, anche se richiede la sussistenza di specifici presupposti di tipicità legislativa, oltre che ulteriori requisiti di prevedibilità e di dimensionamento quantitativi.

In un recente arresto (Sez. 1, n. 5666 del 2/3/2021) questa Corte ha affermato che ” Anche per il comma 3 della disposizione in esame, ci si trova indubbiamente di fronte non ad una mera e tradizionale funzione esclusivamente riparatoria o compensativa del risarcimento del danno, nei limiti del pregiudizio subito dal soggetto danneggiato, ma ad una funzione, se non propriamente sanzionatoria, diretta, quantomeno, ad impedire che il contraffattore possa arricchirsi mediante l’illecito consistito nell’indebito sfruttamento del diritto di proprietà intellettuale altrui. Le Sezioni Unite (Cass. 16601/2017) hanno, al riguardo, chiarito, proprio richiamando la normativa nazionale in materia di tutela della proprietà intellettuale, che, nel vigente ordinamento nazionale, “alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile, sicché non è ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto, di origine statunitense, dei risarcimenti punitivi”, purché la misura si regga “su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i suoi limiti quantitativi” (nella specie, si discuteva del riconoscimento di una sentenza straniera). Questa Corte (Cass. 8944/2020) ha poi, di recente, rilevato che l’utile percepito dal contraffattore non corrisponde all’intero ricavo derivante dalla commercializzazione del prodotto contraffatto, ma al margine di profitto conseguito da colui che si è reso responsabile della lesione del diritto di privativa, deducendo i costi sostenuti (produttivi e di distribuzione) dal ricavo totale”.

2.5.6. Il Collegio non reputa convincente l’argomento su cui insiste particolarmente la ricorrente circa la dissimmetria sistematica rispetto all’analoga disciplina contenuta nell’art. 158 della legge sul diritto d’autore (L. 22 aprile 1941, n. 633 e s.m.i.: breviter l.d.a.).

Anche tale disposizione, al pari dell’art. 125 c.p.i., è stata oggetto di novellazione ad opera del D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140, art. 5, ossia del decreto attuativo della Direttiva enforcement, che in effetti si riferiva non solo al settore dei diritti di proprietà industriale ma a tutta la proprietà intellettuale, incluso il diritto d’autore.

Secondo la ricorrente, la corretta interpretazione dell’art. 125 c.p.i. dovrebbe risentire del diverso contenuto della norma gemella (l’art. 158 l.d.a.), che non contempla l’istituto della retroversione, e che dovrebbe perciò orientare l’interprete verso una lettura dell’art. 125, comma 3, ricondotta alla matrice tradizionale di tipo risarcitorio.

Non può certo negarsi la difformità testuale delle due norme (art. 125 c.p.i. e art. 158 l.d.a.) che pure sono state oggetto di intervento ad opera dello stesso D.Lgs. n. 140 del 2006, in attuazione della Direttiva 2004/48.

Tra l’altro è stato messo in evidenza che solo l’art. 158 l.d.a. richiama l’art. 2056 c.c.; l’art. 158, fa riferimento agli “utili realizzati in violazione del diritto”, mentre l’art. 125 c.p.i. menziona i “benefici realizzati dall’autore della violazione”; il solo art. 125 richiama quale ulteriore elemento di valutazione del danno “le conseguenze economiche negative”; i danni morali debbono essere liquidati nell’art. 125 nei casi appropriati, mentre l’art. 158, li afferma “altresì dovuti” senza alcuna distinzione; soprattutto, per quanto qui rileva, l’art. 158, non ha raccolto la previsione facoltativa della Direttiva concernente la retroversione degli utili e il suo riferimento agli utili realizzati in violazione del diritto gioca solo come elemento di cui il giudice deve tenere conto in sede di valutazione del lucro cessante.

Si è di fronte quindi a una consapevole e deliberata scelta differenziatrice adottata dal legislatore del 2006, che non ha mancato di suscitare aspre critiche in dottrina, al pari dell’opzione, giudicata altrettanto discutibile, di non ricondurre la disciplina del diritto d’autore e dei diritti connessi nell’alveo di un più ampio codice della proprietà intellettuale, e non solo industriale: di tale scelta, rientrante nell’ambito della discrezionalità legislativa, tuttavia l’interprete non può che prender atto, senza che sia possibile elaborare interpretazioni omologanti dell’art. 125 c.p.i., come vorrebbe la ricorrente, in contrasto con le risultanze convergenti dell’applicazione dei canoni di interpretazione storica, convenzionale, Eurounitaria, sistematica e testuale sopra illustrate.

Il legislatore del 2006 ha ritenuto che non fosse il caso di introdurre nel sistema rimediale delle violazioni del diritto d’autore e dei diritti connessi quella più drastica tutela restitutoria che ha invece giudicato opportuna in materia di diritti di proprietà industriale e ha considerato invece sufficiente e adeguato un sistema più elastico e flessibile, modulabile caso per caso, in cui i profitti realizzati dall’autore della violazione giocassero solo come elemento concorrente di valutazione.

Tale scelta, poi, non appare affatto irrazionale, ove si consideri, da un lato, che i diritti di proprietà industriale sono attribuiti in base a un titolo e altresì soggetti a regimi di pubblicità legale, a differenza del diritti sulle opere dell’ingegno, e, dall’altro, che le controversie in tema di violazione di diritti di proprietà industriale coinvolgono, almeno normalmente, due imprese in concorrenza sul mercato, a differenza di quelle in tema di opere dell’ingegno, ove tale connotazione imprenditoriale è del tutto eventuale.

Non è poi ininfluente neppure il fatto che il “diritto vivente” elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, presumibilmente ritenuto appagante dal “legislatore consapevole”, dava già sfogo alla restituzione degli utili del contraffattore come forma di liquidazione minimale del risarcimento del danno, anche sulla base di argomenti desunti dai lavori preparatori della legge del 1941, quando una norma analoga a quella del Codice della proprietà industriale era stata proposta, ma poi non inserita proprio perché giudicata superflua e già implicita nel sistema (Sez. 1, n. 6251 del 24/10/1983, Rv. 431011 – 01).

Ancora a ridosso dell’intervento del 2006 questa Corte aveva affermato che in tema di sfruttamento abusivo di opera protetta dalla legge sul diritto d’autore, il giudice del merito, nell’addivenire alla liquidazione dei danni in via equitativa, ben può, tra i criteri seguiti per determinare l’entità del risarcimento, valorizzare quello ancorato al lucro ricavato da tale operazione abusiva (Sez. 1, n. 3390 del 07/03/2003, Rv. 560961 – 01); principio poi ribadito anche dalla giurisprudenza successiva in tema di peculiare rilievo al criterio della reversione degli utili, sia pur nell’ambito della liquidazione equitativa del lucro cessante, nell’ottica “tort must not pay” (Sez. 3, n. 8730 del 15/04/2011, Rv. 617891 – 01; Sez. 1, n. 11464 del 03/06/2015, Rv. 635654 – 01; Sez. 1, n. 11225 del 29/05/2015, Rv. 635580-01).

2.5.7. Quanto al primo dei due interrogativi posti dal primo motivo del ricorso occorre quindi concludere che la decisione della Corte milanese è corretta e conforme a diritto, laddove ha ritenuto di poter prescindere dalla prova di un pregiudizio sotto forma di lucro cessante in capo al titolare della privativa violata che aveva proposto domanda di retroversione degli utili.

A tale riguardo questa Corte enuncia il seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c.:

“In tema di proprietà industriale, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (c.d. “retroversione”) degli utili realizzati dall’autore dell’illecito, con domanda proposta ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che, agli utili realizzati dal contraffattore, sia corrisposto un mandato guadagno da parte sua”.

2.6. Il secondo interrogativo delineato dal motivo attiene invece alla rilevanza dell’atteggiamento psicologico dell’autore, ritenuto ininfluente dalla Corte ambrosiana nell’economia della violazione esaminata.

2.6.1. E’ opinione consolidata in dottrina e giurisprudenza che il risarcimento dei danni conseguente alla violazione dei diritti di proprietà industriale presupponga il dolo o la colpa secondo le regole generali dell’art. 2043 c.c., anche se, almeno per i diritti titolati, l’esistenza di un sistema di pubblicità legale autorizza una presunzione di colpa in capo all’autore dell’illecito.

Inoltre, occorre considerare che l’art. 2600 c.c., in tema di atti di concorrenza sleale, riferibili anche alla violazione di diritti non titolati di proprietà industriale, prevede una presunzione di colpa in capo al contraffattore; è pertanto del tutto logico e coerente osservare che sarebbe del tutto irrazionale un regime probatorio più gravoso in caso di violazione di diritti di proprietà industriale titolati, resi generalmente conoscibili dal sistema pubblicitario, rispetto alla disciplina repressiva degli atti di concorrenza sleale confusoria ex art. 2598 c.c., n. 1, per i quali, una volta accertata l’oggettività dell’atto di concorrenza sleale, la colpa è presunta, ex lege, sia pur sino a prova contraria.

Ciò ha condotto anche questa Corte (Sez. 3, n. 22332 del 22/10/2014, Rv. 633113 – 01) ad affermare che ai fini dell’elemento soggettivo della consapevolezza da parte dell’autore dell’illecito è sufficiente la sola conoscenza dell’esistenza di un brevetto, riguardante un prodotto avente caratteristiche uguali o comunque similari a quello che si intende produrre e commercializzare, tali da poter ingenerare la confondibilità dei prodotti medesimi.

2.6.2. La censura proposta presenta profili di inammissibilità commisti a profili di infondatezza.

Per un verso, infatti, al fine di suffragare la censura con il necessario requisito dell’interesse, era onere della ricorrente ***** dedurre e dimostrare di aver non solo sostenuto il carattere incolpevole della propria violazione brevettuale, ma anche di aver impugnato specificamente sotto quell’angolo visuale la sentenza di primo grado con specifico motivo di appello, tanto più necessario in considerazione della presunzione di sussistenza dell’elemento soggettivo, quantomeno colposo, in caso di violazione di diritti di proprietà industriale titolati.

Altrimenti la sua censura sarebbe caduta nel vuoto e si sarebbe risolta in una mera esercitazione teorico-accademica.

A pagina 24 la sentenza impugnata, nel riportare il quinto motivo di appello di *****, alla lettera e) del capoverso riferisce solamente che l’appellante aveva sostenuto di aver contraffatto il brevetto ***** in assenza di colpa.

Nulla di più riferisce la ricorrente alla pagina 7 e alla pagina 8 del ricorso; alla pagina 13 nella nota 3, la ricorrente riporta le argomentazioni che avrebbero supportato la sua pretesa assenza di colpa, che sono peraltro tutte relative alla insussistenza della interferenza o alla invalidità del titolo, all’interferenza del prodotto di ***** e alla natura dipendente del brevetto ***** di *****: argomentazioni tutte che appaiono ormai superate dal passaggio in giudicato della sentenza impugnata in ordine alle questioni inerenti la validità del brevetto *****, la cui esistenza peraltro pacificamente era ben conosciuta dalla ricorrente.

2.6.3. La tesi proposta dalla ricorrente è comunque infondata in diritto, poiché la Corte milanese ha correttamente applicato il diritto positivo.

Secondo l’orientamento accolto dalla Corte di appello di Milano e anche da altri Tribunali e Corti territoriali con pronunce edite, note al Collegio, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.

Secondo questo orientamento, se un soggetto commette una contraffazione consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, il titolare del diritto violato può ottenere il risarcimento del danno, domandando il danno emergente ed il lucro cessante (ovvero, in alternativa a questo, la restituzione degli utili prodotti dal contraffattore); se, invece, fa difetto l’elemento soggettivo (peraltro ut supra presunto) in capo al contraffattore, il titolare della privativa può domandare comunque la retroversione degli utili.

2.6.4. La correttezza dell’interpretazione accolta dalla Corte territoriale trova alimento innanzitutto nelle fonti internazionali.

L’accordo TRIPs, ratificato dall’Italia con L. 29 dicembre 1994, n. 747 e approvato dal Consiglio Europeo con decisione 94/800/CE, all’art. 45, dedicato al risarcimento del danno, il quale dopo aver previsto al comma 1, che l’autorità giudiziaria ha la facoltà di ordinare all’autore della violazione di pagare al titolare del diritto una somma adeguata per risarcire i danni – che quest’ultimo ha subito a causa della violazione di un suo diritto di proprietà intellettuale da parte di un soggetto che ha proceduto a detta violazione consapevolmente o avendo ragionevoli motivi per esserne consapevole -, nel comma 2, seconda parte considera la possibilità che gli Stati contraenti autorizzino le autorità giudiziarie a ordinare il recupero degli utili e/o il pagamento di somme prestabilite, anche se l’autore della violazione non ha proceduto alla violazione consapevolmente o avendo motivi ragionevoli per esserne consapevole.

Come si è pure ricordato, il paragrafo 2 dell’art. 13 della Direttiva 2004/48/CE ha previsto che, nei casi in cui l’autore dell’illecito fosse stato implicato in un’attività di violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, gli Stati membri possano sancire il recupero dei profitti o il pagamento di danni anche predeterminati.

E’ pur vero che le fonti internazionali rammentate non obbligavano l’Italia a introdurre una disciplina restitutoria degli utili nei confronti del contraffattore incolpevole, ma senza dubbio lo consentivano e in varia misura lo auspicavano.

Tale disciplina va individuata dell’art. 125, predetto comma 3, che appunto riferisce il proprio campo di esplicazione ad “ogni caso” e quindi anche ai casi di violazione incolpevole che abbia comunque condotto ad un arricchimento dell’autore, il quale abbia maturato profitti a cui non aveva diritto, invadendo oggettivamente la sfera di dominio riservata a un diritto assoluto di privativa altrui e così nei fatti usufruendo di un vantaggio competitivo ingiustificato.

Il concetto di “violazione” del diritto di proprietà industriale, prescinde dall’elemento soggettivo, come è reso palese dall’uso di tale locuzione in numerosi articoli del codice (artt. 124, 126, 131) riferite all’irrogazione di misure sanzionatorie che prescindono dalla colpa dell’autore della contraffazione.

Tale soluzione, peraltro conforme alle fonti internazionali, non può ritenersi estranea neppure alla tradizione giuridica nazionale, giacché sancendo l’obbligo restitutorio a carico dell’attore della violazione incolpevole essa finisce con l’applicare principi riequilibratori riconducibili all’ingiustificato arricchimento (locupletatio) a carico di un soggetto che ha oggettivamente conseguito un beneficio ingiustificato, sfruttando una risorsa di un altro, titolare di un diritto assoluto e di una esclusiva di sfruttamento, limitandosi, nella sostanza, a presumere la depauperatio dell’avente titolo in virtù del suo diritto erga omnes all’esclusività e la relazione causale per la riconducibilità di entrambi i fenomeni allo stesso diritto.

2.6.5. Non appare convincente la pur suggestiva obiezione mossa dalla ricorrente, condivisa anche da autorevole dottrina, che fa leva sul fatto che dell’art. 125, comma 3, prevede la retroversione degli utili come rimedio alternativo o complementare al risarcimento del lucro cessante, di cui implicitamente richiederebbe comunque la sussistenza, riconducendo in tal modo la norma nell’ambito del sistema stricto sensu risarcitorio.

Come si è ricordato in precedenza, la disposizione citata contiene infatti un elemento assolutamente incompatibile con tale lettura riduttiva, laddove prevede che in ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento.

A parte il fatto che l’alternatività del rimedio non consente di inferire che esso si fondi sugli stessi presupposti del risarcimento del danno da lucro cessante, tanto più che in questa prospettiva la citata alternatività perderebbe di pratica utilità, sembra decisivo il rilievo che l’ultima parte del comma 3, ammette il titolare del diritto a chiedere la retroversione anche degli utili eccedenti il risarcimento del danno da lucro cessante, così disancorandone l’attribuzione da una logica strettamente indennitaria.

2.6.6. Il secondo profilo del primo motivo deve quindi essere rigettato alla luce del seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c.:

” In tema di proprietà industriale, il titolare del diritto di privativa che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (c.d. “retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 c.p.i., senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo”.

2.6.7. Per le ragioni esposte il primo motivo di ricorso deve essere rigettato.

3. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 125, commi 1 e 3 c.p.i., art. 1223 c.c., art. 2056 c.c., commi 1 e 2, art. 2600 c.c., all’art. 17 CEDU, all’art. 54 della Carta di Nizza e all’art. 8.2 dei TRIPs e denuncia altresì nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,329 e 342 c.p.c..

3.1. La ricorrente con il mezzo censura la decisione della Corte di appello con riferimento alla dichiarazione di inammissibilità del suo settimo motivo di appello e al rigetto del suo ottavo motivo di appello circa l’erronea determinazione dell’utile reversibile.

3.1.1. In primo luogo, la ricorrente rammenta di aver sostenuto che l’utile oggetto di retroversione, quale conseguenza immediata e diretta della violazione, doveva essere circoscritto al maggior prezzo ricavato dalla vendita delle cartucce con il dispositivo di sicurezza, con decurtazione del costo di produzione del dispositivo e lamenta che la Corte abbia indebitamente rifiutato l’esame della censura perché tardivamente sollevata in quanto non sottoposta alla dialettica del contraddittorio in sede di osservazioni alla consulenza tecnica contabile.

3.1.2. ***** con il settimo motivo di appello aveva chiesto la rideterminazione dell’utile oggetto di retroversione, rimproverando ai giudici di primo grado di aver fatto proprio il calcolo della vendite del dispositivo contestato effettuato dalla consulenza tecnica contabile, prospettando tre distinte recriminazioni inerenti alla sottovalutazione di tre distinti profili di costo (a) costo della manodopera; b) costo di alcune operazioni come taglio, litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno; c) ammortamento dei costi fissi).

3.1.3. La censura è inammissibile perché non si confronta con l’esatto contenuto della sentenza impugnata.

Quanto alle prime due recriminazioni (inerenti i costi di manodopera e operazioni varie di cui ai punti a) e b) di cui supra) la Corte di appello ha disatteso le censure della ricorrente – allora appellante – non per la tardività delle sue osservazioni ma per la tardività delle produzioni documentali proposte a loro sostegno, opinando che l’ampliamento dei termini per il deposito di documenti tecnici consentito, in via eccezionale, nell’ambito dei procedimenti relativi ai diritti di proprietà industriale, dall’art. 121, comma 5 c.p.i., non poteva essere dilatato sino a permettere la produzione di nuovi documenti finanche con una memoria depositata dopo la chiusura della consulenza tecnica d’ufficio (sentenza impugnata, pag. 43-44).

Affermazione questa, per vero ineccepibile in linea di diritto, non affrontata dal motivo di ricorso.

Inoltre, la Corte milanese, quanto ai costi di manodopera, ha anche argomentato nel merito, alla pagina 44, 2 capoverso, richiamando le valutazioni espresse dal Consulente d’ufficio.

3.1.4. La terza recriminazione sub c), inerente la mancata deduzione dell’ammortamento dei costi fissi è stata disattesa dalla Corte territoriale (pag. 44-45) non solo per carenza di argomentazioni da parte di ***** nell’ambito delle operazioni peritali, ma anche per la ritenuta genericità delle osservazioni svolte a pagina 42-43 dell’atto di appello e soprattutto per la mancanza di indicazioni sia in sede peritale, sia nell’atto di appello circa i costi di acquisto del primo macchinario e relative quote di ammortamento e la genericità non supportata dell’indicazione di costo del secondo macchinario.

3.2. In secondo luogo, la ricorrente – riproponendo il tema del suo ottavo motivo di appello – si duole del fatto che la Corte milanese abbia ritenuto che l’accertata contraffazione del brevetto imputabile al dispositivo ***** precludesse l’esame della rilevanza del brevetto di titolarità della *****, ***** (*****), conseguito in corso di causa presso l’Ufficio Europeo dei Brevetti in data 5/9/2018, quale brevetto dipendente da quello ***** di *****, poiché tale circostanza doveva essere comunque considerata, visto che il dispositivo attuava anche il trovato dipendente.

3.2.1. ***** si lamentava del fatto che l’attribuzione a ***** di tutti gli utili da lei ricavati in relazione al dispositivo di sicurezza da essa utilizzato comportasse l’indebita attribuzione alla ***** anche delle utilità del brevetto ***** che invece era di proprietà dell’appellante.

La Corte di appello ha risposto che poiché le cartucce di ***** interferivano con il brevetto di ***** non poteva essere scomputato alcun utile relativo alla commercializzazione del dispositivo di sicurezza, indipendentemente quindi dal fatto che il brevetto ***** si ponesse come invenzione dipendente dal brevetto dell’appellata.

3.2.2. Tale risposta è indubbiamente molto sintetica ma corretta: come osserva giustamente la controricorrente, il fatto che un prodotto applichi gli insegnamenti di un determinato brevetto dipendente successivo non implica affatto che esso non costituisca contraffazione di un brevetto anteriore.

Ed in effetti l’art. 71 c.p.i. ammette solo la concessione di licenza obbligatoria se l’invenzione protetta dal brevetto non possa essere utilizzata senza pregiudizio dei diritti relativi ad un brevetto concesso in base a domanda precedente. In tale caso, la licenza può essere concessa al titolare del brevetto posteriore nella misura necessaria a sfruttare l’invenzione, purché questa rappresenti, rispetto all’oggetto del precedente brevetto, un importante progresso tecnico di considerevole rilevanza economica.

3.3. Le ulteriori recriminazioni svolte con il motivo ai punti II., 11.5, 11.6. alle pagine 19 e 20 del ricorso per lamentare la mancata considerazioni delle circostanze del caso, la sottovalutazione degli aspetti pertinenti, l’abuso del diritto e l’imboscata brevettale (patent ambush), oltre che gravemente generiche, non considerano i lineamenti dell’istituto della retroversione degli utili correttamente applicati dalla Corte di appello.

3.4. L’ultima parte delle argomentazioni di parte ricorrente (11.7, pag.23) non è agevolmente comprensibile laddove lamenta il trattamento del tutto omogeneo in maniera “assurda e kafkiana” riservato all’autore incolpevole della violazione così come al contraffattore colposo o doloso.

Non è affatto così, né tale trattamento è stato riservato a *****: il contraffattore colposo o intenzionale è tenuto a risarcire il danno emergente e non solo il lucro cessante, come pure il danno non patrimoniale.

4. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 121, comma 1 c.p.i. e nullità della sentenza per motivazione apparente in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 276 c.p.c., comma 5.

4.1. La ricorrente censura in tal modo la decisione della Corte territoriale con riferimento al rigetto del suo sesto motivo di appello che investiva il conteggio delle cartucce interferenti, ritenute circa sette milioni (per la precisione 7.078.678) e non solo circa cinque milioni (per la precisione 5.025.523) come accertato dal Consulente, mentre non vi erano elementi per affermare o negare l’interferenza dei due milioni circa di cartucce prodotti tra il 21/4/2015 e il 30/6/2015, che non era possibile determinare se fossero state prodotte con il metodo ritenuto dipendente di cui al brevetto ***** e non già con il metodo di cui al nuovo brevetto del tutto indipendente (*****) conseguito successivamente dalla *****.

La ricorrente rimprovera alla Corte di appello, da un lato, la violazione della regola dell’onere probatorio circa la prova della contraffazione, attributo erroneamente al preteso contraffattore e non al titolare del brevetto; dall’altro, critica la decisione per la pretesa mera apparenza della motivazione che aveva, a un tempo, ritenuto che le cartucce prodotte a partire dal 1/7/2015, ritenute non interferenti, avessero ancora impresso il medesimo codice a barre di quelle interferenti, e dall’altro, le aveva attribuito l’onere probatorio di aver cessato la produzione del dispositivo interferente sin dal 21/4/2015 sol perché non era mutato il codice a barre apposto ai prodotti.

4.2. Il sesto motivo di appello di ***** investiva in primo luogo un preteso “diniego di indagine” da parte del Consulente tecnico che avrebbe sospinto “inconsapevolmente” il Tribunale verso l’attribuzione di un numero eccessivo di cartucce contraffatte, a cui la Corte di appello ha fornito ampia risposta alla pagina 32, chiarendo, in sostanza, che il Consulente, a fronte del dibattito fra le parti sul momento in cui avrebbe avuto termine la produzione delle cartucce recanti il dispositivo contraffatto, aveva agito del tutto correttamente, nel rispetto del quesito, sottoponendo al Giudice di prima cura i calcoli alternativi relativi alle due contrapposte tesi.

In secondo luogo, il problema sostanziale investito dal sesto motivo atteneva al diverso “orizzonte temporale “della violazione brevettuale da parte di *****: secondo *****, la produzione delle cartucce realizzate con il metodo ritenuto dipendente di cui al brevetto ***** e pertanto ritenute contraffatte era cessata il 20/4/2015, sicché le cartucce prodotte tra il 21/4/2015 e il 30/6/2015 non dovevano essere conteggiate; diversamente ragionava *****, che riteneva che anche questo gruppo di cartucce presentasse il dispositivo interferente.

***** aveva fondato il proprio assunto sul fatto che i codici a barre e i codici prodotto erano uguali per le cartucce contestate e per quelle montanti il nuovo sistema, sulla dichiarazione resa dal suo legale rappresentante, su di una affermazione del C.t.u. ing. P. di aver visionato un impianto di produzione fermato in data 20/4/2015, sull’allegazione delle bolle di consegna e delle distinte basi del nuovo sistema di sicurezza e su alcuni documenti ritenuti inammissibili dal Tribunale.

4.3. La Corte di appello, pur riconoscendo in conformità agli artt. 67 e 121 c.p.i., che competeva a *****, titolare del diritto violato, provare la contraffazione, adempimento sicuramente soddisfatto sino alla data del 20/4/2015, ha ritenuto che spettasse invece a ***** la prova di aver cessato la contraffazione e in particolare l’onere di dimostrare l’esistenza di cartucce non interferenti, caratterizzate con i medesimi codici prodotto e i codici a barre identificativi dei prodotti contraffatti, e che tale conclusione fosse ulteriormente suffragata dalla maggior vicinanza alla prova di ***** quale produttrice diretta del dispositivo.

La Corte di appello ha poi affermato che nessuna documentazione dimostrava l’avvenuta sostituzione del dispositivo di sicurezza interferente, analizzando, uno per uno, alle pagine 3538 della sentenza impugnata, tutti gli elementi forniti dall’attuale ricorrente: l’autocertificazione di cui all’allegato Q (corretta a penna e recante la stessa denominazione delle cartucce); le distinte base (prive di riferimenti temporali e lacunose); l’autodichiarazione del legale rappresentante (di scarso valore probatorio per provenienza e datazione); l’affermazione del Consulente (smentita dallo stesso ing. P.); le bolle di consegna e la domanda del nuovo brevetto ***** (inconcludenti probatoriamente); i documenti prodotti con la memoria del 27/4/2015 (inammissibili ex art. 121, comma 5 c.p.i., perché prodotti da ***** al di là dei termini fissati per le produzioni nell’ambito delle operazioni peritali, dopo la chiusura della consulenza tecnica e senza alcuna valida giustificazione).

La Corte milanese ha quindi concluso (pag. 38, primo capoverso) che ***** non aveva soddisfatto il proprio onere di dimostrare l’affermata non riconducibilità di alcune cartucce al novero di quelle interferenti, pur caratterizzate dai medesimi elementi identificativi.

4.4. Il comma 1, secondo periodo, dell’art. 121 c.p.i, afferma che salvo il disposto dell’art. 67 (in tema di invenzioni di procedimento) l’onere di provare la contraffazione incombe al titolare.

Secondo il Collegio, la Corte milanese, allorché ha attribuito all’autore della violazione l’onere di dimostrare di averla cessata, ragionando in termini di fatto estintivo o modificativo e invocando a sostegno anche il principio integrativo della vicinanza della prova, ha adottato così una regola di giudizio non conforme a quella legale, che grava il titolare del diritto dell’onere di dimostrare, in tutta la sua estensione quantitativa e temporale, an e quantum del fatto illecito commesso ai suoi danni o comunque, per quanto qui rileva a fronte della domanda di retroversione degli utili, del fatto contraffattivo.

Un problema analogo era stato proposto a questa Corte, ma non risolto per l’inammissibilità della censura non specificamente rivolta avverso tutte le rationes decidendi della sentenza impugnata, nel giudizio sfociato nella pronuncia n. 5666 del 2021, ove era stata introdotta la questione circa l’ambito di allegazione delle parti nella materia della tutela delle privative industriali, e l’interrogativo se la domanda di contraffazione implicasse la sola deduzione in giudizio di un illecito unitario “di durata” e non di un fascio di singoli illeciti “di evento”, cosicché l’attore fosse tenuto solo ad allegare l’elemento materiale della violazione brevettuale, vale a dire la commissione dell’illecito (la fabbricazione e/o la vendita di un prodotto dotato di certe caratteristiche tecniche) ad opera del convenuto, tenuto, invece, ad allegare tempestivamente il fatto impeditivo rappresentato dalla cessazione della condotta lamentato da controparte e che rappresenta il fatto costitutivo dell’illecito contestato.

4.5. Quest’assunto, basato sull’indebita assimilazione della violazione del diritto di proprietà industriale a un illecito permanente di durata, non può essere condiviso.

Resta il fatto però che il titolare del diritto può provare l’entità temporale e quantitativa della violazione, sia avvalendosi dei potenti strumenti probatori e cautelari disciplinati dagli artt. 121,121 bis e 129 c.p.i., sia ricorrendo alla prova indiziaria e presuntiva delle violazioni del suo diritto.

La Corte a tal riguardo enuncia il seguente principio di diritto: “In tema di proprietà industriale, l’onere della prova circa la sussistenza della contraffazione di un diritto in privativa, ai sensi dell’art. 121, comma 1, c.p.i., grava sul titolare del diritto violato, salva l’eccezione prevista dall’art. 67 c.p.i. in tema di contraffazione di brevetti di procedimento; tale regola di giudizio vale anche per tutta l’estensione quantitativa e temporale della violazione, e non soffre deroga ove si discuta del momento di cessazione delle attività contraffattive, dopo che il titolare del diritto abbia fornito la prova del loro inizio da parte dell’autore della violazione; a tal fine il titolare del diritto può avvalersi di tutti gli strumenti probatori e cautelari disciplinati dagli artt. 121,121 bis e 129 c.p.i. e ricorrere altresì alla prova indiziaria e presuntiva”.

4.6. Nel caso concreto, tuttavia, la Corte di appello ha anche ritenuto implicitamente che ***** avesse soddisfatto presuntivamente tale onere per il fatto che i prodotti fabbricati fra il 21/4/2015 e il 30/6/2015 dalle linee di ***** recavano i medesimi codici identificatici (codici a barre e codici prodotto) di quelli contraffatti, e che a quel punto, del tutto ragionevolmente, spettasse a ***** dimostrare la fallacia di quella presunzione di identità di caratteristiche di prodotti ugualmente codificati.

Tale affermazione si compone in un accertamento di fatto e in una conseguente valutazione, non sindacabili in sede di legittimità se non per vizio motivazionale, nei ristretti limiti attualmente consentiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

A valle di tale valutazione la Corte di appello ha minuziosamente esaminato tutti gli elementi forniti dalla attuale ricorrente, allora appellante, per superare tale presunzione, pervenendo a un giudizio negativo, ampiamente e scrupolosamente motivato, per giunta suffragato dal principio di vicinanza della prova che avrebbe consentito a ***** di dimostrare più facilmente della sua contraddittrice di aver modificato in una certa data la sua linea di produzione, per giunta in corso di causa e nella piena consapevolezza della rilevanza decisiva di tali circostanze agli effetti della lite in corso.

Di conseguenza il profilo di censura deve essere rigettato, previa parziale correzione della motivazione della sentenza impugnata, ut supra.

4.7. Con la seconda parte del motivo la ricorrente addebita alla sentenza impugnata il vizio di apparenza della motivazione nella variante del cosiddetto “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” (Sez. U., n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830 – 01).

La motivazione sarebbe viziata per aver, a un tempo, ritenuto che le cartucce prodotte a partire dal 1/7/2015, ritenute non interferenti, avessero ancora impresso il medesimo codice a barre di quelle interferenti, e dall’altro, aver attribuito a ***** l’onere probatorio di aver cessato la produzione del dispositivo interferente sin dal 21/4/2015 sol perché non era mutato il codice a barre apposto ai prodotti.

4.8. La censura è manifestamente infondata.

La Corte di appello non ha formulato alcuna affermazione circa le cartucce prodotte dopo il 1/7/2015: a pagina 34, righe 14-17 (richiamata da ***** a pag. 27 del ricorso) la Corte milanese non riporta una sua opinione, ma le difese di *****, che comunque si riferiscono al rinvenimento di cartucce interferenti sul mercato a luglio e ottobre del 2015 e tacciono completamente sulla pretesa identità di codici fra cartucce contraffatte e pacificamente non contraffatte su cui farebbe leva la contestazione di contraddittorietà.

Le cartucce prodotte dopo il 1/7/2015 erano semplicemente fuori dal dibattito processuale e dall’area del controverso perché neppure ***** sosteneva che dopo tale data ***** avesse protratto la commissione della violazione.

5. Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

Non può essere accolta la domanda di condanna della ricorrente per lite temeraria ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, come richiesto dalla controricorrente, non foss’altro che perché le questioni di diritto proposte con il primo motivo non trovano precedenti puntuali nella giurisprudenza di questa Corte.

PQM

La Corte;

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate nella somma di Euro 15.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esborsi, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021

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