Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.22106 del 03/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6001/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

NUOVA ARMAMENTO SUD di NAVIGAZIONE Srl, in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avvocati Vincenzo Scorsone e Carlo Cigolini in virtù di procura speciale in calce al controricorso ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Vincenzo Scorsone in Roma, nella via delle Fornaci 43/5;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1282/2/2014 della Commissione Tributaria Regionale della Liguria, depositata in data 18 dicembre 2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 aprile 2021 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 49/12/2012 la Commissione Tributaria Provinciale di Genova rigettò il ricorso proposto dalla Srl NUOVA ARMAMENTO SUD di NAVIGAZIONE in liquidazione contro il silenzio rifiuto formatosi sulla “istanza di rimborso a valere anche ai fini interruttivi del termine prescrizionale” presentata dalla detta società in data 27.7.2009 con riguardo al rimborso dell’IVA per lire 198.181.000 relativa all’anno 1998 il cui importo era stato evidenziato al rigo VX19 della relativa dichiarazione in data 8 agosto 1999 e di cui aveva nuovamente richiesto il rimborso con modello VR nel 1999 con la causale “cessazione attività”, non avendo nel frattempo l’Ufficio provveduto al dovuto rimborso ma neppure negato la esistenza del credito ormai divenuto irrevocabile.

Con il ricorso iniziale la società contribuente aveva dedotto che aveva cessato effettivamente la attività al 31.12.1998 a seguito di liquidazione volontaria ed in data 1.2.1999 aveva depositato il bilancio finale di liquidazione, anche se per dimenticanza non aveva chiuso la partita IVA, che aveva poi chiuso formalmente in data 8.3.2009 con effetto retroattivo onde adeguarsi ad una richiesta della Amministrazione Finanziaria, di cui era venuta a conoscenza informalmente solo nel 2009 allorché aveva chiesto informazioni sul mancato rimborso ed aveva quindi presentato in via cautelativa la nuova istanza di rimborso in data 27 luglio 2009 sulla quale l’Ufficio non si era pronunciato. L’Ufficio, nel costituirsi in giudizio, aveva opposto che aveva emesso in data 19.12.2005 un provvedimento formale di diniego dell’istanza di rimborso contenuta nella dichiarazione IVA presentata nel 1999, poiché mancavano i presupposti per procedere al rimborso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 30, commi 2 e 3, in quanto al sistema dell’anagrafe tributaria non risultava dichiarata la cessazione dell’attività, per cui la società era decaduta dal diritto al rimborso, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 2 non essendo stata presentata la domanda di rimborso entro due anni dal giorno in cui si era verificato il presupposto per la restituzione e cioè “decorsi due anni dal giorno successivo a quello di avvenuto deposito presso la casa comunale 31.12.2005” (v. trascrizione della memoria di costituzione dell’Agenzia 20 maggio 2010 in primo grado a pagina 5 del controricorso e allegato 8 al controricorso); e la Commissione Tributaria Provinciale accolse la tesi dell’Ufficio ritenendo la contribuente decaduta dal diritto al rimborso per non avere presentato nel termine biennale i rimedi previsti dalla normativa vigente.

Investita dall’appello della contribuente – che dedusse come non fosse prospettabile nella specie alcuna decadenza, non prevista da alcuna disposizione legislativa, poiché il diritto al rimborso, contenuto nella dichiarazione IVA presentata nel 1999 in caso di cessazione effettiva dell’attività anche se non era stata chiusa per dimenticanza la partita IVA, era divenuto inoppugnabile alla data del 31 dicembre 2003, in quanto l’Ufficio non aveva mai emesso alcun avviso di accertamento nei termini di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 e non aveva comunque mai negato la sussistenza del credito, mentre la istanza di rimborso del 2009 costituiva una mera reiterazione della iniziale istanza formulata in via cautelativa, anche ai fini della interruzione della prescrizione ed onde portare a conoscenza dell’Ufficio che nel frattempo era stata chiusa anche la partita IVA, per andare incontro ad una richiesta dell’Ufficio di cui la ricorrente era venuta a conoscenza informalmente solo nel 2009 considerato che non era mai stata notificata – la Commissione Tributaria Regionale della Liguria, con la sentenza n. 1282/2/2014, depositata il 18 dicembre 2014, in riforma della sentenza impugnata, accolse l’appello della contribuente, riconoscendo la spettanza del diritto al rimborso IVA.

La Commissione Tributaria Regionale rilevò che la richiesta di rimborso era stata regolarmente presentata dalla contribuente con la dichiarazione IVA 1999 ed era esercitabile in caso di cessazione dell’attività D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 30; il diritto si era consolidato, così rendendo esigibile il credito, per non avere la Amministrazione Finanziaria notificato alcun avviso di rettifica nel termine di legge, per cui sarebbe spettato all’Ufficio procedere senza indugio alla restituzione delle somme a credito, tanto più nella fattispecie in esame in cui la contribuente aveva reiterato nel 2009 la richiesta presentata in dichiarazione anche agli effetti della interruzione del termine prescrizionale.

Contro la sentenza, notificata in data 30.12.2014, ha presentato ricorso per cassazione la Agenzia delle Entrate con atto notificato il 25.2.2015, affidato ad un solo motivo, cui resiste con controricorso la società contribuente.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con un unico motivo di ricorso la Agenzia delle Entrate deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 19 e 21 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per avere la sentenza impugnata implicitamente respinto la eccezione preliminare proposta dalla Agenzia in sede di costituzione in appello – secondo cui, essendo stato notificato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e) il diniego espresso di rimborso, comunque fosse avvenuta la notifica, la società avrebbe dovuto impugnarlo nei 60 giorni e non avrebbe invece potuto impugnare un successivo diniego tacito – a nulla rilevando la tesi difensiva della società per cui la notifica non poteva essere indirizzata alla società già cessata, bensì avrebbe dovuto essere eseguita al liquidatore, poiché la cessazione dell’attività era stata dichiarata sono nel 2009.

2. La controricorrente oppone in primo luogo la inammissibilità del motivo anche per intrinseca contraddittorietà poiché viene dedotta ex art. 360 c.p.c., n. 4 (che prevede la nullità della sentenza o del procedimento) una pretesa violazione di due disposizioni legislative processuali che non hanno pertinenza con il caso in esame, in cui è stato impugnato un silenzio rifiuto di rimborso di imposta, sotto un profilo di errore di giudizio (per avere il giudice di appello implicitamente respinto una eccezione preliminare relativa ai pretesi effetti preclusivi derivanti dal rifiuto espresso) che pareva comunque richiamare una mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato: il tutto nell’ambito di una estrema confusione che non consentiva di comprendere quale censura in realtà fosse stata proposta. Oppone inoltre la inammissibilità del motivo anche per tardività, perché attinente ad una doglianza proposta per la prima volta in appello, come già rilevato dalla contribuente con la memoria di costituzione in appello del 24.4.2003 (pag. 3), poiché in primo grado era stata dedotta dall’Agenzia la diversa questione della decadenza connessa allo spirare del termine biennale di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 e su tale questione si era pronunciato il giudice di primo grado, nonché la sua infondatezza in quanto il preteso diniego del 2005 non era mai stato notificato né alla società, già cessata, né tanto meno al liquidatore, bensì, non essendo stata rinvenuta la società nella sede, l’atto era stato soltanto depositato all’albo del comune e comunque si trattava di atto che non poteva né doveva essere impugnato essendosi limitato a segnalare che mancava la chiusura della partita IVA per procedere al rimborso.

3. E’ opportuno premettere, in punto di diritto, che la giurisprudenza consolidata di questa Corte è nel senso che, in tema di IVA, l’esposizione di un credito d’imposta nella dichiarazione dei redditi fa sì che non occorra, da parte del contribuente, al fine di ottenere il rimborso, alcun altro adempimento, dovendo egli solo attendere che l’Amministrazione finanziaria eserciti, sui dati esposti in dichiarazione, il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte ovvero, ricorrendone i presupposti, attraverso lo strumento della rettifica della dichiarazione. Ne consegue che il relativo credito del contribuente è soggetto all’ordinaria prescrizione decennale, mentre non è applicabile il termine biennale di decadenza previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, comma 2, in quanto l’istanza di rimborso non integra il fatto costitutivo del diritto ma solo il presupposto di esigibilità del credito per dare inizio al procedimento di esecuzione del rimborso stesso (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 20678 del 01/10/2014 Rv. 632503 – 01; Cass. 27 marzo 2013, n. 7706; 11 settembre 2012, n. 15229).

4. In questo quadro, per cui la presentazione dell’istanza di rimborso, come già affermato da questa Corte (Sez. 5, Sentenza n. 19115 del 28/09/2016 Rv. 641101 – 01; Cass. n. 7223 del 2016; nn. 4857 e 9941 del 2015; n. 20678 del 2014; nn. 7684, 14070; 15229 e 23580 del 2012; n. 13920 del 2011; n. 9794 del 2010), costituisce solo il presupposto per l’esigibilità del credito, non è pertanto condivisibile quell’orientamento minoritario affacciatosi in questa Corte (Cass. 16 settembre 2011, n. 18920), invocato dalla Agenzia delle Entrate nel giudizio di primo grado, il quale subordina il diritto al termine di decadenza biennale previsto, in via residuale, dall’art. 21 proc. trib., in quanto confonde il fatto costitutivo del diritto con il presupposto di esigibilità del credito, poiché la domanda di rimborso del credito d’imposta maturato dal contribuente deve considerarsi già presentata con la compilazione del corrispondente quadro della dichiarazione annuale, la quale configura formale esercizio del diritto, mentre la presentazione del modello VR costituisce, ai sensi del d.p,r. n. 633 del 1972, art. 38 bis, solo un presupposto per l’esigibilità del credito e, dunque, un adempimento prodromico al procedimento di esecuzione del rimborso (“ex plurimis”, Cass. nn. 4592, 4857 e 9941 del 2015; nn. 10653, 20069 e 26867 del 2014; n. 14070 del 2012; n. 20039 del 2011).

5. Deve quindi ritenersi ormai definitivamente superato il diverso e più risalente orientamento secondo cui, anche in caso di cessazione dell’attività, solo una domanda di rimborso conforme al modello ministeriale corrisponderebbe allo schema tipico delineato dall’art. 30 del decreto, con la conseguenza che la domanda difforme resterebbe assoggettata alla decadenza biennale prevista, in via residuale, dal citato D.Lgs. n. 546. Si deve, invece, dare continuità alla rimeditazione di tali aspetti da parte di copiose, più recenti e ormai costanti pronunce di questa corte, che nella dichiarazione annuale ravvisano l’esaustiva manifestazione di una volontà diretta all’ottenimento del rimborso, ancorché non accompagnata dalla presentazione dell’ulteriore “mod. VR” (in tal senso “adde”, a quelle già sopra citate, Cass. nn. 2005, 3742, 6486, 6986, 6987 e 8790 del 2014; nn. 8813 e 23755 del 2013; nn. 7684, 7685 e 15229 del 2012), che peraltro nella specie era stato presentato.

6. Tanto premesso ai fini dell’inquadramento della questione sotto il profilo sostanziale e rilevato che quindi la sentenza di primo grado era certamente erronea, così come riconosciuto dalla stessa Agenzia delle Entrate, la quale, in sede di appello, rendendosi conto, evidentemente, della insostenibilità della tesi iniziale, ha per la prima volta prospettato la diversa tesi della preclusione al rimborso derivante dalla mancata impugnazione nei 60 giorni del preteso diniego espresso del 19.12.2005, passando ora all’esame del motivo di ricorso proposto dalla Agenzia delle Entrate è opportuno osservare che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti, ad esempio, come nel caso in esame, l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi però univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (v., sul punto, Cass. Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013 Rv. 627268 – 01) o ancora contenga una critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11603 del 14/05/2018 Rv. 648533 – 01; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19959 dell 22/09/2014 Rv. 632466 – 01 e precedenti e successive conformi).

7. Alla luce di tali principi il motivo di ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle Entrate presenta ampi profili di inammissibilità poiché dedotto in modo confuso ed inestricabile non comprendendosi se si tratta di violazione di legge o di quale violazione procedimentale, considerato che il vizio di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. deve consistere in un vizio di forma della sentenza o in un vizio del procedimento anche eventualmente sotto il profilo della violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (il quale è denunziabile come error in procedendo ex art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), mentre nel caso in esame non vi è stata alcuna omissione di pronuncia da parte della sentenza impugnata, bensì eventualmente un omesso esame di una argomentazione oltretutto proposta per la prima volta in appello, con la quale la Agenzia delle Entrate aveva modificato in appello la propria tesi difensiva e sulla quale non era doverosa una esplicita risposta.

8. La sentenza impugnata ha infatti accolto – correttamente – la tesi in diritto per cui il diritto al rimborso dell’IVA si era consolidato per non avere la Agenzia delle Entrate esercitato il potere-dovere di controllo secondo la procedura di liquidazione delle imposte ovvero, ricorrendone i presupposti, attraverso lo strumento della rettifica della dichiarazione, per cui una eventuale comunicazione dell’Ufficio attinente alla mancata dichiarazione della cessazione dell’attività all’anagrafe tributaria (sotto il profilo che non risultava formalmente chiusa la partita IVA) non poteva incidere sul diritto al rimborso e non richiedeva una risposta espressa da parte del giudice di appello, considerata la sua irrilevanza ed incompatibilità con la tesi principale ed assorbente accolta dal giudice di appello per cui la decadenza era inapplicabile, mentre si applicava solo il termine decennale di prescrizione per azionare il diritto al rimborso.

9. E’ comunque opportuno aggiungere che la diversa prospettazione dell’Ufficio, formulata nel giudizio di appello con riguardo ad una pretesa decadenza della contribuente dal diritto al rimborso per mancata impugnazione nel termine di 60 giorni della comunicazione relativa alla impossibilità di procedere al rimborso poiché dall’anagrafe tributaria non risultava la cessazione dell’attività, si scontra con la immediata risposta della contribuente in ordine alla mancata notifica della comunicazione del 19.12.2005 sia alla società (che peraltro aveva chiuso la liquidazione al 31.12.1998 ed il 1.2.1999 aveva registrato presso il registro delle imprese la chiusura della liquidazione volontaria, pur omettendo la registrazione alla anagrafe tributaria), che al suo liquidatore poiché la notificazione era avvenuta mediante ricerca della società nella ex sede sociale dove nessuno era stato rinvenuto e conseguente deposito all’albo comunale e cioè con una modalità che rendeva quanto meno nulla la notifica (alla luce del principio consolidato per cui “In tema di notificazione degli atti processuali ad una società, il vano esperimento delle forme previste dall’art. 145 c.p.c., commi 1 e 2, consente l’utilizzazione di quelle previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purché la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale: v., per tutte, Cass. Sez. 1 -, Sentenza n. 2232 del 30/01/2017 Rv. 643510 – 01), anche perché nella comunicazione era indicato il nome del liquidatore che non era stato ricercato; cosicché anche la tesi della decadenza per mancata impugnazione della comunicazione del 19.12.2005 nel termine di 60 giorni dalla sua notificazione era insostenibile.

10. Consegue da quanto sopra esposto il rigetto del ricorso.

11. Fermo restando il regolamento delle spese del giudizio di merito già disposto dalla Commissione Tributaria Regionale, consegue altresì la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione in favore della società contribuente. Non sussistono i presupposti per la applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, in ordine al raddoppio del contributo unificato, con riguardo al ricorso n. 7853/2913 cui pure la normativa sarebbe applicabile ratione temporis, poiché si tratta di ricorrente che è esentato dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna la Agenzia delle Entrate a rimborsare alla Srl Nuova Armamento Sud di Navigazione in liquidazione le spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.600,00, oltre 200 Euro a titolo di rimborso spese, 15% per spese forfettarie, IVA e CPA.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2021

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