LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21574-2015 proposto da:
M.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POMPEO MAGNO N. 2/B, presso lo studio dell’avvocato FABIO LEPRI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIO PINNA;
– ricorrente –
contro
REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCULLO n. 24, presso L’UFFICIO LEGALE DI RAPPRESENTANZA DELLA REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA, rappresentata e difesa, da ultimo, dagli avvocati ALESSANDRA CAMBA, E SONIA SAU;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 128/2015 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 04/06/2015 R.G.N. 74/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/03/2021 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;
il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Dott. FRESA Mario, visto il D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176, ha depositato conclusioni scritte.
FATTI DI CAUSA
1. Il Tribunale di Cagliari aveva rigettato la domanda, proposta da M.N. nei confronti della Regione Autonoma della Sardegna, volta alla condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni, nella misura corrispondente alle retribuzioni maturate dal 1 settembre 1994 al 17 ottobre 2010, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria e ai contributi non pagati.
2. Il M. aveva dedotto di avere subito danni a causa del provvedimento di decadenza dall’impiego (avente decorrenza dal 30 agosto 1994), annullato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2572 del 10 maggio 2010.
3. La decisione del giudice di primo grado è stata confermata dalla Corte di Appello di Cagliari con la sentenza indicata in epigrafe.
4. La Corte territoriale ha affermato che, ai sensi del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 e, successivamente, dalla L.R. n. 31 del 1998, art. 44 l’attività di lavoro autonomo (ideazione di campagne pubblicitarie) prestata dal M. nel periodo di forzoso allontanamento dal servizio (1.9.94 – 17.10.2010) era incompatibile, in assoluto, con il rapporto di lavoro dipendente con la Regione e che siffatta incompatibilità non poteva essere sanata dalla circostanza, nemmeno sufficientemente provata, che il M., prima del provvedimento di decadenza, avesse svolto l’attività autonoma di pubblicitario. La Corte territoriale, inoltre, ha ritenuto irrilevante la circostanza che l’amministrazione avesse avuto conoscenza dello svolgimento di un lavoro non compatibile. Tanto, sul rilievo che il regime di incompatibilità è previsto dalla legge a tutela di interessi pubblici e non appartiene alla disponibilità delle parti.
5. Ha osservato che il M., nel periodo compreso tra la decadenza e la reintegrazione, aveva potuto svolgere l’attività di lavoro autonomo solo perché in quel periodo non era più dipendente regionale e, in quanto tale, non era soggetto al regime della incompatibilità di cui alla L.R., art. 44 incompatibilità che era venuta meno, ai sensi dell’art. 45 richiamata L.R., a seguito del mutamento del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale e della autorizzazione concessa dall’Amministrazione.
6. Ha aggiunto che, ove il M., in violazione della disciplina di fonte legale, avesse svolto attività di lavoro autonomo nel periodo compreso dall’inizio del servizio alle dipendenze della Regione fino alla decadenza dal servizio “in nessun caso, da questa circostanza, sarebbe potuto derivare alcun beneficio al M., stante il divieto di trarre effetti favorevoli dall’illegittimo esercizio di un’attività”. Da questa affermazione, la Corte territoriale ha tratto la conseguenza che il lavoratore non avrebbe potuto giovarsene per escludere la riconducibilità dei proventi del lavoro autonomo nell’alveo dell’aliunde perceptum.
7. Avverso questa sentenza M.N. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, illustrati da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso la Regione Autonoma della Sardegna, la quale, successivamente al pensionamento dell’originario difensore, si è costituita con gli Avvocati Sonia Sau e Alessandra Camba.
8. Il P.M., ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, ha presentato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Sintesi dei motivi.
Il ricorrente denuncia:
9. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18,D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 e della L.R. Sardegna n. 31 del 1998, artt. 44 e 45 (primo motivo) e del principio dell’esatta commisurazione del danno patrimoniale di cui agli artt. 1223,1224,1225, e 1227 c.c. (quarto motivo);
10. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto controverso costituito dalla circostanza che, nel periodo intercorso tra la decadenza e la reintegrazione, esso ricorrente non aveva conseguito un reddito costante (quinto motivo);
11. ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza e del procedimento per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,345 e 437 c.p.c. (secondo e terzo motivo).
12. Imputa alla sentenza impugnata di avere errato nell’affermare, in assoluto e senza valutazione concreta, l’incompatibilità dell’attività di lavoro autonomo (ideazione di programmi pubblicitari) con il rapporto di pubblico impiego e di avere, altrettanto erroneamente, ritenuto detraibile dal quantum del risarcimento i redditi percepiti dallo svolgimento di attività lavorativa autonoma svolta da esso ricorrente nel periodo di mancato svolgimento del rapporto di lavoro con la Regione (primo motivo).
13. Asserisce che, se non fosse stato dichiarato decaduto, avrebbe avuto diritto a i percepire mese per mese dalla Regione gli emolumenti stipendiali e che, pertanto, non si sarebbero verificati “quei documentati periodi di assoluta mancanza del reddito (anno 1995) o, ancora, quei parimenti documentati periodi (anni 1997- 2003 e anno 2008) di diminuita capacità reddituale rispetto al trattamento economico che avrebbe percepito, ove non fosse stato illegittimamente allontanato dal lavoro”; sostiene, inoltre, che il computo dell’aliunde perceptum avrebbe dovuto essere effettuato calcolando i redditi percepiti mese per mese o, al più anno per anno, e tenendo conto, in via cumulativa, di tutti i rediti percepiti tra il 1.9.1994 ed il 17.10.2020 (quarto motivo).
14. Imputa alla sentenza impugnata di non avere esaminato il fatto, controverso, che, nel periodo compreso tra la decadenza e la reintegrazione, esso ricorrente non aveva conseguito un reddito costante e richiama le prospettazioni difensive sviluppate nel quarto motivo (quinto motivo).
15. Il ricorrente assume, poi, di avere formulato la domanda risarcitoria in termini tali da ricomprendere anche la domanda di pagamento della differenza, riferita al ogni singolo anno dal 1994 al 2010, tra gli emolumenti che avrebbe percepito dalla Regione e i proventi dell’attività di lavoro autonomo svolta nel medesimo arco temporale (secondo motivo) e che, anche a non volere considerare l’ampiezza della domanda risarcitoria proposta nel ricorso di primo grado e la ricomprensione in questa della richiesta di quantificazione anno per anno dal 1994 al 2010, anziché cumulativamente per questo intero arco temporale, in ogni caso la modificazione quantitativa della domanda risarcitoria doveva essere ritenuta ammissibile, in quanto nel corso del giudizio di primo grado la Regione aveva prodotto il prospetto relativo alle somme erogate ad esso ricorrente (terzo motivo).
Esame dei motivi.
16. I motivi, da scrutinare congiuntamente, in quanto attengono alla commisurazione del danno conseguente alla accertata illegittimità della estromissione del ricorrente dal rapporto di servizio, sono infondati.
17. Va premesso che il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni è caratterizzato dall’obbligo di esclusività, che trova il suo fondamento costituzionale nell’art. 98 Cost., che, nel prevedere che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall’esercizio di altre attività.
18. La materia della incompatibilità stata, ed è disciplinata, innanzitutto, dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 e ss. richiamato dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 58 e succ. modd. (poi, D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53).
19. L’art. 60 è chiaro ed inequivoco, nel dato testuale, nell’individuare le ipotesi di incompatibilità assoluta; esso dispone, infatti, che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente.”
20. La disposizione risulta sostanzialmente riprodotta nella L.R. 13 novembre 1998, n. 31, art. 44 che stabilisce al comma 1 che “Il dipendente non può esercitare attività commerciali, industriali o professionali ovvero assumere impieghi alle dipendenze di soggetti pubblici o privati” e, al comma 2 che “Il dipendente può essere autorizzato ad espletare incarichi temporanei a favore di soggetti pubblici o ad assumere cariche in società non aventi fine di lucro”. L’art. 45 medesima legge esclude l’applicabilità del divieto previsto nell’art. 44, comma 1 ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore alla metà di quella a tempo pieno e dispone che detti dipendenti hanno l’obbligo di comunicare all’Amministrazione o all’ente di appartenenza le attività di lavoro autonomo o subordinato che intendono svolgere, onde ottenerne l’autorizzazione e a comunicare entro quindici giorni l’eventuale variazione dell’attività lavorativa.
21. E’ evidente che la preminenza dell’interesse. pubblico ha determinato un assetto segnato dalla equiparazione di attualità e potenzialità del conflitto: l’ordinamento ha inteso prevenire, con il regime delle incompatibilità, il concretarsi del contrasto, inibendo le condizioni favorevoli al suo insorgere. Si tratta di valutazione astratta con giudizio prognostico ex ante, indipendentemente dall’esistenza di riflessi negativi sul rendimento e sull’osservanza dei doveri d’ufficio (Cass. 31277/2019; Cass. 7343/2010; Cons. St. n. 24/1999).
22. Dei principi innanzi enunciati, ai quali il Collegio intende dare continuità, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione alla fattispecie dedotta in giudizio.
23. Essa, infatti, nell’indiscusso avvenuto espletamento da parte del M. di attività di lavoro autonomo durante il periodo di illegittimo allontanamento del lavoro, ha affermato che le cause di incompatibilità, previste dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 60 sanzionate anche dalla L.R. n. 31 del 1998, art. 44 sono indisponibili ed hanno carattere assoluto con conseguente irrilevanza della conoscenza da parte dell’Amministrazione dell’avvenuto svolgimento di siffatta attività prima dell’adozione del provvedimento di decadenza.
24. La sentenza impugnata è corretta anche nella parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che, trattandosi di attività non espletabile nella vigenza del rapporto di lavoro, i proventi ricavati ai fini della quantificazione del danno domandato, dovevano essere qualificati come aliunde perceputum.
25. Al riguardo, va osservato che questa Corte ha ripetutamente affermato che quest’ultimo ricomprende i proventi derivanti dai lavori prestati dal dipendente per effetto delle energie e del tempo liberatisi a seguito della cessazione del rapporto di lavoro che sia dichiarata illegittima.
26. Sono infondate le censure (secondo e terzo motivo) che addebitano alla sentenza il vizio di omessa pronuncia sulla domanda correlata alle modalità di computo del risarcimento del danno patrimoniale (computo mese per mese o anno per anno dell’aliunde perceptum).
27. Ebbene, al di là della configurabilità o meno di siffatto vizio (Cass. Sez. Un. 2731/2017; Cass. n. 25223/2020, Cass. n. 5730/2020, Cass. n. 26764/2019, Cass. n. 8561/2006, Cass. n. 3380/2005), la questione posta può ben essere decisa con il rigetto di tale domanda, in applicazione dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi (Cass. Sez. Un. 2731/2017; Cass. n. 23876/2018, Cass. n. 16171/2017, Cass. n. 21968/2015, Cass. n. 21257/2014, Cass. n. 28663/2013).
28. Il danno patrimoniale e’, infatti, unico e complessivo e correttamente tale è stato, implicitamente ritenuto dalla Corte territoriale, che ha affermato la congruità della misura liquidata dal giudice di primo grado, osservando che il danno era stato commisurato al reddito che il M. avrebbe percepito, ove il rapporto di lavoro fosse proseguito, e ai proventi ricavati nell’esercizio dell’attività di lavoro autonomo (aliunde perceptum da detrarre) svolta nel tempo intercorso tra il provvedimento di decadenza e la reintegrazione nel posto di lavoro.
29. Le censure formulate nel quarto e nel quinto motivo di ricorso, che addebitano in sostanza alla sentenza impugnata l’erronea quantificazione del danno, in parte riproponendo le prospettazioni difensive sviluppate nel secondo e nel terzo motivo, sono inammissibili perché, sotto l’apparente denuncia del vizio di violazione di legge, in realtà sollecitano la rivalutazione degli accertamenti concernenti la quantificazione del danno e dei proventi percepiti, inammissibile in sede di legittimità (Cass. Sez. Un. 8054/2014; Cass. Sez. Un. 24148/2013).
30. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
31. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
32. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. Sez. Un. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
PQM
LA CORTE Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per rimborso generali forfetarie, oltre IVA e CPA.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2021