Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.22202 del 04/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15873/2019 R.G. proposto da:

TIM S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. B.R., con domicilio eletto in Roma, via Antonio Pollaiolo, n. 5, presso lo studio dell’Avv. Yuri Picciotti;

– ricorrente –

contro

C.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppina Ludovico, con domicilio eletto in Roma, via Paolo Emilio, n. 57, presso lo studio dell’Avv. Marco Serra;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, n. 685/2018 depositata il 10 aprile 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la decisione di primo grado che aveva condannato Telecom Italia S.p.a. (ora TIM S.p.a.) al pagamento, in favore di C.M., della somma di Euro 35.000 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da questo subito in conseguenza del distacco della utenza telefonica.

Ha infatti ritenuto che, da un lato, fosse rimasta indimostrata la grave morosità dell’utente addotta dalla società a giustificazione della sospensione dell’utenza e che, dall’altro, l’importo liquidato dal primo giudice in via equitativa non potesse essere considerato “un dato avulso dalla realtà documentale, corrispondendo di fatto alla quasi somma degli importi sborsati e documentati dal C.M., così risultando ancorato ad un dato reale e di difficile esatta quantificazione”.

2. Avverso tale sentenza TIM S.p.a. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste l’intimato, depositando controricorso. Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Va preliminarmente disattesa l’eccezione, opposta dal controricorrente, di “nullità del ricorso per nullità della procura ed incongruenza tra la procura ed il ricorso stesso”.

L’incongruenza cui si fa riferimento riguarda soltanto la nomina del domiciliatario.

Risulta evidente, dall’esame dell’atto, che essa in realtà deriva dalla modifica, a penna, della indicazione in proposito originariamente contenuta, a stampa, nella procura: indicazione inizialmente corrispondente a quella presente nell’intestazione del ricorso.

Tale mancata corrispondenza, però, non solo non può determinare alcuna incertezza sul domiciliatario, né vizio invalidante della elezione di domicilio (per la quale occorre aver riguardo a quella che è contenuta nell’atto contenente anche la procura, l’unico nella specie sottoscritto dalla parte oltre che dall’avvocato), ma meno ancora – ed è ciò che più conta in questa sede – può inficiare in alcun modo la procura conferita per il giudizio di legittimità, costituente atto “ontologicamente diverso” dalla (peraltro solo eventuale) elezione di domicilio (v. Cass. 28/06/1989, n. 3146; 04/12/2003, n. 18518), ancorché inserito nel medesimo contesto dichiarativo e, nella specie, in sé perfettamente rispondente ai requisiti di specificità richiesti dall’art. 365 c.p.c..

2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 1460 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonché “omesso esame di un fatto decisivo della controversia”, per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto non assolto, da parte di Telecom, l’onere della prova circa la legittimità della sospensione della propria prestazione, omettendo di considerare che il tribunale, con statuizione non fatta oggetto di gravame e quindi ormai passata in giudicato, aveva accolto la domanda riconvenzionale della stessa società al pagamento di alcune fatture, fondata sugli stessi fatti costitutivi dell’eccezione di inadempimento.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, artt. 1226 e 2056 c.c., artt. 115,116 e 198 c.p.c., nonché “omesso esame di un fatto decisivo della controversia”, per avere la corte d’appello confermato la liquidazione equitativa del danno dedotto da controparte, in mancanza dei relativi presupposti.

Osserva che “la produzione tardiva dei documenti attestanti il presunto danno dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la parte non versava nell’impossibilità o estrema difficoltà di provare il danno nel suo preciso ammontare”.

4. Il primo motivo è inammissibile stante la mescolanza e sovrapposizione di doglianze eterogenee non mirate ad univoco e chiaro obiettivo censorio; ciò in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 4 che impone l’indicazione, a pena di inammissibilità, de “i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano”.

Tale requisito, come chiarito dalle Sezioni Unite, comporta “l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo di impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c.” (Cass. Sez. U. 24/07/2013, n. 17931).

Tale esigenza rimane evidentemente disattesa allorché, come nella specie, nell’ambito di un indistinto e unitario argomentare, si sovrappongano censure relative alla ricognizione del fatto e censure di diritto, sostanziali e processuali, secondo una tecnica redazionale che di fatto impedisce alla Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate (cfr. Cass. 10/02/2017, n. 3554).

Si tratta – giova rammentare – di esigenza intrinsecamente correlata alla natura del giudizio di cassazione come impugnazione a critica vincolata, fondata su censure espressamente previste (e dunque tipizzate) dall’art. 360 c.p.c., nn. 1 a 5 che, come tali, non possono non essere specifiche.

La specificità del motivo non può, infatti, ritenersi soddisfatta con il mero formale richiamo ad una delle ipotesi tipizzate (ché anzi la sua erronea indicazione in ricorso non è d’ostacolo all’ammissibilità del motivo ove la sua illustrazione consenta comunque di ricondurlo ad uno dei vizi cassatori, ancorché diverso: v. in tal senso Cass. Sez. U. n. 17931 del 2013), ma impone piuttosto “univocità argomentativa” non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (v. Cass. 23/09/2011, n. 19443; 20/09/2013, n. 21611; 23/10/2018, n. 26874).

Rifuggendo da impostazioni formalistiche questa Corte ha da tempo costantemente avvertito che non potrà pervenirsi alla drastica sanzione della inammissibilità del motivo allorquando la pur utilizzata mescolanza di critiche non sia inestricabile e lasci comunque emergere profili di censura che risultino chiaramente e autonomamente enucleabili (Cass., Sez. U. 06/05/2015, n. 9100; cfr. anche Cass., 17/03/2017, n. 7009; 23/10/2018, n. 26790).

Tanto però non è possibile affermare per il motivo in esame nel quale la tendenziale promiscuità degli argomenti esposti è spiegata in funzione, allo stesso tempo, sia di asseriti vizi strutturali della motivazione (“omesso esame di un fatto decisivo della controversia”), sia della pure dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge sostanziale (violazione degli artt. 2697 e 1460 c.c.) e processuale (inosservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c.), il che rende incomprensibile il rilievo, in funzione censoria, attribuito al giudicato interno formatosi sull’accertata morosità dell’utente per il limitato importo di Euro 72,86, e comunque difficilmente enucleabile con certezza il reale contenuto della censura e il suo effettivo obiettivo: se afferente alla erronea ricognizione della fattispecie concreta o alla sua mancata o erronea sussunzione in quella normativa astratta o ancora alla violazione di regole del processo.

5. Ne discende anche l’impossibilità di cogliere un chiaro e coerente sviluppo argomentativo in una almeno delle dette annunciate direzioni censorie.

Rimane, così, in particolare, inspiegato, nel confuso argomentare, il riferimento, quali norme asseritamente violate, agli artt. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., pertinenti (in astratto) solo ove si fosse dedotto che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nell’art. 115 c.p.c., ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, ovvero, quanto all’art. 116 c.p.c. che il giudice ha disatteso il principio della libera valutazione delle prove in assenza di una deroga normativamente prevista, oppure, al contrario, abbia valutato secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime ed ancora o ancora, quanto all’art. 2697 c.c. se si fosse dedotto che il giudice ha risolto l’eventuale incertezza probatoria circa i presupposti dell’exceptio inadimpleti contractus ex art. 1460 c.c. a scapito della parte che non era gravata del relativo onere.

6. Altrettanto mal posta e non coerentemente sviluppata è la doglianza di omesso esame ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rispetto a quella che, in realtà, costituiva un’argomentazione proposta con l’atto di appello (quella cioè della idoneità, a giustificare la sospensione dell’utenza, della pur ridotta morosità accertata in giudizio).

Avrebbe dovuto semmai proporsi vizio di omessa pronuncia, che comunque si sarebbe rivelata doglianza infondata avendo la corte di merito in realtà pronunciato su di essa giudicandola “non pertinente” rispetto alla ratio decidendi adottata dal primo giudice, rappresentata dalla mancata dimostrazione della “grave morosità contestata al C., afferente ad altre utenze delle quali non è stata data alcuna prova dell’appartenenza all’odierno appellato”.

7. Resta sullo sfondo il riferimento, tra le norme violate, all’art. 1460 c.c., ma non è dato cogliere una critica che possa porsi in modo diretto e specifico a raffronto con la esposta ratio decidendi.

8. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Ancora più difficile di quanto s’e’ detto con riferimento al primo risulta trarre da esso una specifica, univoca e conferente critica.

Al di là della evocazione in rubrica di riferimenti normativi eterogenei e per nulla esplicitati, l’illustrazione del motivo si risolve:

a) nella prima parte (pagg. 12 – 21) nella trascrizione di ampi stralci della relazione di c.t.u. acquisita nel giudizio di primo grado, dei successivi chiarimenti e delle critiche ad essa mosse (trascrizione del tutto inutile e incomprensibile non essendo stata detta c.t.u. poi posta a fondamento della decisione di primo grado né di quella d’appello);

b) nella seconda parte (pagg. 21-25) nella trascrizione integrale della sentenza d’appello nella parte dedicata alla quantificazione del danno;

c) infine (pagg. 25-27) nella esposizione di alcune massime giurisprudenziali in tema di presupposti e limiti del potere del giudice di liquidazione equitativa del danno.

Si omette del tutto, però, di indicare in quale parte e per qual motivo la sentenza impugnata si ponga in contrasto con dette norme e principi e prima ancora non si confronta, il motivo, con l’ampia motivazione sul punto offerta dalla corte d’appello che, lungi dal limitarsi ad una apodittica liquidazione equitativa, dà conto dettagliato ed esaustivo dei documenti e degli altri elementi di prova che hanno concorso a convincerla della sussistenza e dell’entità del danno, tanto da risultare quell’importo di fatto corrispondente “alla quasi somma degli importi sborsati e documentati dal C.”.

Altrettanto eccentrico si palesa il riferimento, posto alla fine del motivo, ad una “produzione tardiva dei documenti attestanti il presunto danno”, atteso che, ben diversamente, in sentenza si fa riferimento, specifico ed analitico, a documenti che si dice essere stati prodotti in allegato alla “memoria ex art. 184 c.p.c. depositata dal C. in data 3 aprile 2006”.

9. Il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente all’a rifusione, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali, che liquida in Euro 6.200 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2021

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