LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRINO Umberto – Presidente –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 8238-2018 proposto da:
TELECOM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio degli avvocati ARTURO MARESCA, ROBERTO ROMEI, FRANCO RAIMONDO BOCCIA, che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 9, presso lo studio dell’avvocato ENRICO LUBERTO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2843/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/09/2017 R.G.N. 2081/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI.
RILEVATO
CHE:
1. con sentenza 15 settembre 2017, la Corte d’appello di Roma rigettava l’appello di Telecom Italia s.p.a. avverso la sentenza di primo grado di reiezione della sua opposizione avverso il decreto del Tribunale di Roma di ingiunzione della società al pagamento della somma di Euro 6.845,37 oltre accessori, in favore di D.A., a titolo risarcitorio pari alle retribuzioni maturate dal 1 maggio al 31 luglio 2012, per il mancato ripristino da parte della società del rapporto di lavoro, nonostante l’accertamento di illegittimità del trasferimento di ramo d’azienda, cui addetto, da Telecom Italia s.p.a. a I.T.S. (poi SIRM) s.p.a. dichiarato dal Tribunale di Roma con sentenza n. 3872/2012;
2. a motivo della decisione, la Corte territoriale ribadiva l’idoneità della sentenza, ancorché di accertamento e non definitiva, a costituire prova scritta del credito azionato in via monitoria;
3. essa condivideva anche la qualificazione del Tribunale della natura risarcitoria (e non retributiva) della domanda del lavoratore, per tale dovendosi intendere la sua richiesta di pagamento delle retribuzioni per il periodo nel quale ne era rimasto privo, siccome parametro di equivalenza del danno sofferto;
4. infine, escludeva pure la detraibilità, a titolo di aliunde perceptum, dell’indennità di disoccupazione (od altra analoga erogata dall’Inps, come quella di mobilità) siccome non acquisita in via definitiva dal lavoratore, per la sua ripetibilità nel venirne meno dei presupposti, come in ipotesi di ripristino giudiziale del rapporto di lavoro;
5. con atto notificato il 13 marzo 2018, la società datrice ricorreva per cassazione con unico motivo, cui il lavoratore resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c. (con la quale assumeva genericamente la conciliazione della controversia, senza peraltro offrirne documentazione con il relativo verbale).
CONSIDERATO
CHE:
1. la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1206,1207,1217,1223 c.c., per la detraibilità dell’aliunde perceptum, ancorché costituito dall’indennità di disoccupazione, per l’irrilevanza della natura retributiva ovvero assistenziale dell’emolumento, siccome integrante un vantaggio economicamente valutabile ricevuto dal lavoratore per effetto della cessazione dell’unico rapporto di lavoro (unico motivo);
2. esso è infondato;
3. occorre, infatti, dare continuità, così rettificando la motivazione della sentenza impugnata, al più recente e consolidato orientamento di legittimità (Cass. 3 luglio 2019, n. 17784 e 17876; Cass. 7 agosto 2019, n. 11158; Cass. 11 novembre 2019, n. 29092; Cass. 14 maggio 2020, n. 8951);
3.1. in base ad esso, dal credito retributivo, spettante al lavoratore, per aver validamente offerto all’originario datore la propria prestazione ingiustificatamente rifiutata, non è detraibile la retribuzione percepita dal datore (già cessionario) in via corrispettiva per l’attività lavorativa di fatto prestata in suo favore, sul presupposto della duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l’altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), a fronte di una prestazione apparentemente unica; ed infatti, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d’azienda, ha instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n’e’ un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto;
3.2. e ciò per effetto del venir meno dell’unicità del rapporto, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore “continui” di fatto a lavorare; posto che l’unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.;
3.3. accertatane pertanto l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale), determinandosi il trasferimento del medesimo rapporto solo quando si perfezioni una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente;
3.4. al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316); posto che, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva; e che, mediante l’intimazione del lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la rifiuti senza giustificazione), deve ritenersi che il debitore del facere infungibile abbia posto in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione, equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari; sicché da quel momento l’attività lavorativa subordinata resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore, bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo: così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo della retribuzione cui il cedente è obbligato;
4. pertanto il ricorso deve essere rigettato, con la compensazione delle spese del giudizio, per gravi ragioni rappresentate dal mutamento di giurisprudenza su questione dirimente, successivo all’introduzione del ricorso e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara le spese del giudizio compensate tra le parti. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2021
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