Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.22594 del 10/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TORRICE Amelia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6628-2015 proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PADOVA 82, presso lo studio dell’avvocato BRUNO AGUGLIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI VENTURA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso il cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

nonché da:

RICORSO SUCCESSIVO SENZA N. R.G.:

GR.CL., X.N.; V.J. e V.R. nella qualità di eredi di S.M.; P.T., e E.E., nella qualità di eredi di E.R., tutti domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato NICOLA ZAMPIERI;

– ricorrenti successivi –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso il cui Ufficio domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente al ricorso successivo –

nonché contro LICEO SCIENTIFICO STATALE FRANCE PRESEREN DI *****, e LICEO SCIENTIFICO STATALE GUGLIELMO OBERDAN DI *****;

– intimati –

avverso la sentenza n. 601/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 02/01/2015 R.G.N. 1129/2013+1;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/02/2021 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’.

RILEVATO

CHE:

1. la Corte d’Appello di Venezia, giudice del rinvio a seguito della sentenza di questa Corte n. 22929/2012, ha riformato le sentenze del Tribunale di Trieste ed ha rigettato le domande, già accolte in prime cure, proposte dai ricorrenti, tutti appartenenti al personale amministrativo, tecnico ed ausiliario della scuola (ATA), per il riconoscimento del diritto al riconoscimento a fini giuridici ed economici, dell’intera anzianità di servizio maturata presso l’ente locale di provenienza, L. n. 124 del 1999, ex art. 8, comma 2, e per la condanna del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca al pagamento delle differenze retributive con decorrenza dal gennaio 2000;

2. la Corte territoriale, riassunti i fatti di causa, ha rilevato, quanto alla posizione del ricorrente G. (difeso da avvocati diversi da quelli degli altri ricorrenti) come la sentenza rescindente avesse escluso il rilievo in sé dell’anzianità di servizio pregressa, se non in quanto tale da comportare un peggioramento retributivo sostanziale nel passaggio dall’uno all’altro datore di lavoro pubblico, rilevando altresì come solo in sede di rinvio il ricorrente avesse allegato il verificarsi di tale effetto peggiorativo, ma senza specificare nulla di concreto rispetto ad esso;

quanto agli altri ricorrenti, la Corte d’Appello rilevava come la sentenza rescindente, con la quale era stata cassata la sentenza della Corte d’Appello di Trieste che aveva rigettato le domande, aveva demandato al giudice del rinvio di accertare se al momento del passaggio dall’ente locale allo Stato si fosse verificata una riduzione sostanziale del trattamento retributivo ed aveva precisato che il confronto doveva essere globale, cioè non limitato ad uno specifico istituto, e che non potevano assumere rilievo eventuali disparità di trattamento con i lavoratori già in servizio presso il cessionario;

3. la Corte veneziana, escludeva che fosse stata fornita prova adeguata delle differenze retributive tra il periodo antecedente e quello successivo al passaggio, a ciò non essendo sufficienti i dati del CUD e del Mod. 98.2 della Provincia, in quanto tali da attestare la retribuzione annua, ma non l’erogazione continuativa delle singole voci pregresse;

7. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso il G. sulla base di due motivi, assistiti da memoria e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe sulla base di undici motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., ai quali il MIUR ha opposto difese con controricorso.

CONSIDERATO

CHE:

1. si deve premettere che il ricorso proposto da G.G. è da considerare principale, mentre quello successivo proposto dagli altri ricorrenti, per quanto indirizzato anch’esso alla cassazione della sentenza impugnata è da considerare ricorso incidentale;

2. iniziando quindi dalla posizione del ricorrente G., si rileva che con il primo motivo egli denuncia la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, richiamando le sentenze della Corte C.E.D.U. con cui era stata accertata la violazione di tale norma da parte dello Stato Italiano, perpetratasi attraverso l’introduzione della norma di cui alla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 con la quale, attraverso una pretesa interpretazione autentica, si era impedita la fruizione di un equo processo e la salvaguardia dei diritti già spettanti al patrimonio individuale, sottolineando altresì come, una volta acclarata la violazione del sistema delle Convenzione, sulla base delle sentenze della Corte C.E.D.U., fosse ormai acclarata l’incostituzionalità della norma citata per violazione del combinato disposto degli artt. 10 e 117 Cost., stante anche il recepimento della Convenzione nel corpo dell’ordinamento U.E. per effetto degli artt. 47 e 52 della Carta di Nizza;

con il secondo motivo è invece addotta la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 124 del 1999, art. 8 sostenendo che la norma imporrebbe inequivocabilmente il riconoscimento dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza;

i motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente per la loro connessione, non meritano accoglimento;

la sentenza rescindente ha dapprima ritenuto, anche sulla base dei precedenti sul punto della Corte Costituzionale, che la L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218 costituisse norma di effettiva interpretazione autentica della L. n. 124 del 1999, art. 8 e quindi concorresse, in una con la norma interpretata, a disciplinare la fattispecie del trasmigrare del personale dagli Enti Locali allo Stato;

essa ha quindi incidentalmente menzionato la c.d. prima sentenza Agrati della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in cui il sopravvenire della disposizione di interpretazione autentica era stata intesa come violativa del diritto ad un processo equo ed alla stabilità delle aspettative acquisite, ma, sul presupposto appunto che la predetta norma avesse effettiva funzione di interpretazione autentica ha considerato, nel prosieguo del ragionamento, soltanto la pronuncia di Corte di Giustizia 6 settembre 2011, Scattolon, valutando alla luce di essa la normativa interna e ritenendo che quest’ultima fosse da ritenere legittima e da applicarsi nei limiti in cui non derivassero differenze retributive sostanziali ai danni del lavoratore trasferito, per il cui accertamento rimetteva al giudizio di rinvio affinché accogliesse o respingesse la domanda in relazione al risultato di tale accertamento;

da ciò deriva l’inammissibilità del primo motivo, in quanto con esso si adduce un contrasto con la Convenzione E.D.U. e con le valutazioni delle pronunce della C.E.D.U. sui casi Agrati, che è in realtà già stato considerato e non ritenuto dirimente dalle valutazioni della sentenza rescindente finalizzate a delineare il principio di diritto in cui essa è confluita e cui qui ci si riporta;

non diversamente, la sentenza rescindente ha considerato l’art. 1, comma 218 cit. quale norma interpretativa dell’art. 8 cit. e, richiamando i principi della sentenza Scattolon, ha indicato come rilevante soltanto il determinarsi di differenze retributive sostanziali per effetto del trasferimento e non quanto inerente agli sviluppi di carriera, in sé soli considerati sicché la pretesa ancora una volta collide con il principio dettato dalla Corte di Cassazione;

d’altra parte, i motivi neppure prendono posizione sulla ratio decidendi assunta dalla Corte territoriale, secondo la quale non vi sarebbero state neppure concrete allegazioni rispetto al determinarsi di una perdita retributiva;

in definitiva i motivi di ricorso si pongono in contrasto con i principi e con la decisione che ha disposto il rinvio e sono altresì privi di coerenza impugnatoria rispetto alla pronuncia della Corte territoriale che a quei principi si è attenuta;

il ricorso per cassazione del G. va dunque dichiarato inammissibile;

3. si deve quindi analizzare il ricorso proposto dagli altri lavoratori, con autonomo atto da qualificare, come detto, quale ricorso incidentale per il sopravvenire di esso rispetto ad altro ricorso, qualificato come principale;

4. con il primo motivo del ricorso incidentale i ricorrenti denunciano, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 384 e 437 c.p.c., ed addebitano alla Corte territoriale di essersi sottratta al “duplice dictum” della sentenza rescindente, con la quale era stato demandato al giudice del rinvio di accertare se la L. n. 266 del 2005 fosse stata applicata in modo da salvaguardare il trattamento economico complessivo maturato nel 1999 ed era stato precisato anche che, in caso di violazione del divieto di reformatio in peius, la Corte d’appello avrebbe dovuto applicare, ai fini dell’inquadramento, la L. n. 124 del 1999, art. 8;

i ricorrenti evidenziano che la sentenza della Corte di Giustizia era intervenuta quando già la causa era pendente e, pertanto, il giudice avrebbe dovuto anche d’ufficio accertare se ci fosse stato un peggioramento retributivo non consentito dalla direttiva;

5. la violazione dell’art. 437 c.p.c. è denunciata, sotto altro profilo, con la seconda censura con la quale si sostiene che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era stata allegata la riduzione del trattamento retributivo rispetto a quello goduto nell’anno 1999 ed era stata domandata anche la conservazione di tutti i diritti economici e giuridici maturati;

la ricorrente ribadisce, inoltre, che il divieto di nova in appello non può operare in presenza di uno ius superveniens incidente sulla posizione delle parti e sulle loro pretese;

6. il terzo motivo è rubricato come inerente la violazione e falsa applicazione della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, come interpretato in seguito alla sentenza Scattolon, della Direttiva 77/187, della L. n. 124 del 1999, art. 8 e del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 34 per non essersi fatta applicazione di tali norme che imponevano di inserire i ricorrenti nella classe di stipendio spettante sulla base del trattamento economico complessivo percepito nel 1999 e di annullare gli inquadramenti eseguiti sulla base dell’accordo del 20.7.2000 non più applicabile perché dichiarato nullo da Cass. 4045/2012;

7. la violazione della L. n. 266 del 2005 e dell’art. 28 CCNL di Comparto del 6.7.1995, sono denunciate con il quarto motivo con il quale si sostiene che la mancata considerazione del premio incentivante e dell’indennità di rischio ha determinato la violazione delle norme richiamate negli altri motivi ed ha impedito la conservazione del trattamento economico complessivo goduto in precedenza;

8. la quinta censura torna a denunciare la violazione della L. n. 266 del 2005, art. 1 unitamente alla violazione dell’art. 437 c.p.c., del principio di non contestazione dell’art. 115 c.p.c. perché il Ministero non aveva mai specificamente contestato i conteggi che evidenziavano il peggioramento retributivo derivato dall’omessa valutazione, in sede di inquadramento, del compenso incentivante e dell’indennità di rischio;

al riguardo, infatti, il resistente si era limitato a sostenere che al momento del passaggio erano state considerate tutte le voci contrattuali previste dall’accordo ARAN dell’anno 2000;

9. con il sesto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia e violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione ai motivi 3, 4 e 5 dell’atto di riassunzione, con i quali era stata domandata la disapplicazione della L. n. 266 del 2005 per violazione degli artt. 47 e 52 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea;

10. la settima censura addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e dell’art. 1 del protocollo 1 alla stessa allegato nonché degli artt. 47 e 52, n. 3, della Carta di Nizza del 7.12.2000 perché la Corte territoriale avrebbe dovuto disapplicare la norma di interpretazione autentica, alla luce delle plurime pronunce rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, da ultimo con la sentenza del 9 settembre 2014 Caligiuri ed altri contro Italia;

11. considerazioni analoghe vengono svolte con l’ottavo motivo che denuncia la violazione dell’art. 6, n. 2, del Trattato sull’Unione Europea nonché dei principi della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, del diritto ad un Tribunale indipendente, recepiti come principi generali del diritto dell’Unione;

12. con il nono motivo, intitolato “violazione dei principi di tutela giurisdizionale effettiva e di equivalenza, dell’art. 19, comma 1 T.U.E., dell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali, dell’art. 13 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, del principio di collaborazione”, i ricorrenti assumono che il giudice del rinvio, nel rigettare la domanda di inquadramento sulla base del trattamento economico complessivo, perché formulata solo nella comparsa di costituzione in appello, aveva impedito di far valere diritti garantiti dalla normativa comunitaria, che andava applicata, a prescindere dalle deduzioni del ricorso originario, non essendo all’epoca prevedibile lo ius superveniens ed aggiungendosi in chiusura un’istanza di rimessione alla Corte di Giustizia U.E;

13. la decima critica assume che la sentenza gravata avrebbe violato l’art. 117 Cost., l’art. 1 del protocollo 1 allegato alla CEDU e l’art. 46 CEDU e sollecita il Collegio e rimettere nuovamente alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218;

14. infine l’undicesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c. perché l’onere di provare il rispetto del divieto di reformatio in peius grava sul Ministero che non l’aveva assolto, non avendo dimostrato di avere garantito al dipendente la conservazione del trattamento economico acquisito;

15. preliminarmente rileva il Collegio che non può essere accolta l’istanza, formulata nell’intestazione della memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., di discussione orale e di fissazione dell’udienza pubblica;

15.1. il procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice, disciplinato (all’esito delle modifiche apportate al codice di rito dal D.L. n. 168 del 2016, convertito nella L. n. 197 del 2016) dall’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c., non va confuso con quello previsto dall’art. 376, art. 375, comma 1, e art. 380 bis, per i casi di inammissibilità o di manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso, perché il legislatore ha affiancato alla procedura camerale, finalizzata ad accertare la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 375, comma 1, nn. 1 e 5, la pronuncia con ordinanza in camera di consiglio, alla quale la sezione semplice può fare ricorso “in ogni altro caso, salvo che la trattazione in pubblica udienza sia resa opportuna dalla particolare rilevanza della questione di diritto sulla quale deve pronunciare, ovvero che il ricorso sia stato rimesso dall’apposita sezione di cui all’art. 376 in esito alla camera di consiglio che non ha definito il giudizio” (art. 375 c.p.c., u.c.);

15.2. nessuna delle condizioni ostative ricorre nella fattispecie nella quale si prospettano questioni già esaminate dal Collegio e che possono essere decise sulla base di principi ormai consolidati nella giurisprudenza di questa Corte;

16. ciò posto, la Corte ritiene che il ricorso non possa trovare accoglimento;

17. occorre premettere che, in caso di ricorso proposto avverso la sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione la portata del decisum della pronuncia rescindente, la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa ed al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte (Cass. n. 3955/2018);

18. nel caso di specie questa Corte, con la sentenza n. 22929/2012, non ha affatto demandato al giudice del rinvio di verificare se l’inquadramento disposto dal MIUR in base all’accordo sindacale del 20 luglio 2000 fosse o meno conforme alla sopravvenuta L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 218, né ha affermato che, in caso di accertata reformatio in peius, doveva essere integralmente riconosciuta l’anzianità posseduta, perché ha chiesto solo al giudice del merito di “verificare la sussistenza o meno di un peggioramento retributivo sostanziale all’atto del trasferimento” ed i criteri fissati ai fini della comparazione sono solo quelli indicati al punto 13 della pronuncia, ove si precisa che il confronto deve essere globale, riferito al momento del passaggio, e che non rilevano eventuali disparità di trattamento con i dipendenti già in servizio presso il cessionario, sicché ogni questione sul ricalcolo dell’anzianità è in realtà mal posta;

18.1. peraltro, la sentenza rescindente non ha posto alcun altro limite all’esame demandato al giudice del rinvio e, in particolare, non ha indicato quali fossero le componenti del trattamento economico fondamentale e accessorio da apprezzare ai fini della comparazione “globale”;

19. ciò detto osserva il Collegio che la Corte territoriale ha ritenuto che in concreto non risultasse esservi prova di un peggioramento retributivo, escludendo di potersi argomentare sulla base di singole voci non munite di carattere continuativo in senso proprio;

20. le contrarie allegazioni sulle quali i ricorrenti fanno leva per sostenere la tesi del peggioramento retributivo sostanziale, non sono idonee allo scopo, e ciò a prescindere dalla loro verifica in fatto;

20.1. un peggioramento “sostanziale”, impedito dalla tutela che la direttiva Eurounitaria riconosce ai lavoratori coinvolti nel trasferimento d’impresa, è ravvisabile solo qualora, all’esito della comparazione globale, emerga una diminuzione “certa” del compenso che sarebbe stato corrisposto qualora il rapporto fosse proseguito con il cedente nelle medesime condizioni lavorative, sicché non possono essere apprezzati gli importi, che se pure occasionalmente versati prima del passaggio, non costituivano il “normale” corrispettivo della prestazione, perché, in quanto legati a variabili inerenti alle modalità qualitative e quantitative di quest’ultima, non erano entrati nel patrimonio del lavoratore, che sugli stessi non avrebbe potuto fare sicuro affidamento neppure qualora la vicenda modificativa non fosse stata realizzata;

20.2. il principio di irriducibilità della retribuzione, che questa Corte ha precisato nei termini sopra indicati (cfr. fra le tante Cass. n. 29247/2017; Cass. n. 4317/2012; Cass. n. 20310/2008), non si atteggia diversamente nei casi di modificazione soggettiva del rapporto perché, se la direttiva 77/187 “non può essere validamente invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive o di altre condizioni lavorative in occasione di un trasferimento di impresa” (punto 77 sentenza Scattolon), non possono essere opposti al cessionario limiti ulteriori rispetto a quelli che valevano, prima della cessione, per il datore di lavoro cedente;

20.3. ciò detto rileva il Collegio che nel ricorso e nella memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c. i ricorrenti, per sostenere la tesi di un peggioramento sostanziale, verificatosi nonostante il riconoscimento dell’assegno personale, fanno leva su voci del trattamento accessorio e su istituti contrattuali che, a prescindere dall’accertamento in fatto e dalla rilevanza nella fattispecie, non possono essere apprezzati, o perché si prospetta un’interpretazione erronea della contrattazione collettiva per il personale del comparto degli enti locali, o in quanto si tratta di voci prive dei requisiti di fissità e di continuità, che devono ricorrere ai fini del rispetto del divieto di reformatio in peius;

20.4. deve essere qui ribadito il principio di diritto già affermato da Cass. nn. 3663, 6345, 7470 del 2019 secondo cui i premi ed i compensi incentivanti previsti dagli artt. 17 e 18 del CCNL 1 aprile 1999 per il personale del comparto regioni ed enti locali non possono avere rilevanza ai fini del cd. maturato economico, perché si tratta di voci del trattamento accessorio correlate ad effettivi incrementi di produttività e di miglioramento dei servizi, ossia di emolumenti non certi nell’an e nel quantum;

20.5. quanto all’indennità di rischio, occorre evidenziare che la tabella b allegata al D.P.R. n. 347 del 1983, richiamato dall’art. 31 del CCNL 6.7.1995 e superato solo dall’art. 37 del CCNL 14.9.2000, individua specificamente le attività comportanti l’attribuzione dell’indennità in ragione dell’esposizione a fattori nocivi, attività fra le quali non rientrano le mansioni espletate dal personale ATA all’interno degli istituti scolastici, come desumibili dalla declaratoria dei relativi profili professionali;

20.6. parimenti nessun rilievo può essere attribuito all’asserita mancata considerazione del LED – Livello Economico Differenziato – perché anche in tal caso i ricorrenti fanno leva su un’interpretazione non corretta della contrattazione collettiva per il personale del comparto enti locali che, a partire dall’adozione del nuovo sistema di classificazione del personale avvenuta con il CCNL 31.3.1999 (quindi in epoca antecedente il passaggio nei ruoli dello Sato), hanno previsto (art. 7, comma 2 CCNL 1999) l’assorbimento nel trattamento economico fondamentale delle “voci retributive stipendio tabellare e livello economico differenziato di cui all’art. 28, comma 1, del CCNL del 6.7.1995” che, quindi, hanno perso autonomia e sono state ricomprese a tutti gli effetti nel trattamento valutato dall’amministrazione al momento del passaggio;

20.7. infine va rammentato che nell’impiego pubblico contrattualizzato l’attribuzione del buono pasto ha carattere assistenziale, è legata ad una particolare articolazione dell’orario di lavoro e non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro (cfr. Cass. n. 31137/2019);

20.8. ne discende che i motivi incentrati sull’errore commesso dal giudice del rinvio nel disconoscere l’esistenza di un peggioramento sostanziale, che i ricorrenti assumono essere stato in realtà provato attraverso la produzione documentale, non possono trovare accoglimento;

21. quanto agli ulteriori motivi, le ragioni di rigetto o di inammissibilità delle censure vanno tratte dalla motivazione di Cass. 13 luglio 2020, n. 14892, da aversi per richiamata anche ex art. 118 disp. att. c.p.c., che ha respinto analogo ricorso e con la quale, in sintesi, si è evidenziato che:

a) la verifica della conformità di una norma di legge alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non costituisce oggetto di domanda ex art. 112 c.p.c., sicché rispetto alla stessa non è configurabile il vizio di omessa pronuncia;

b) l’art. 6, paragrafo 3, TUE non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, perché un problema di rispetto dei principi generali dell’Unione Europea si può porre solo nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione stessa, con la conseguenza che, una volta applicata la direttiva 1977/187/CEE nei termini indicati dalla sentenza CGUE 6.9.2011, Scattolon, ogni contrasto risulta superato;

c) l’obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza di rimettere la causa alla Corte di Giustizia, ai sensi dell’art. 267, comma 3 TFUE, viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa Europea, perché sulla questione stessa la Corte si è già pronunciata o anche in ragione dell’evidenza dell’interpretazione (punto 38 della cit. Cass. n. 14892/2020 e la giurisprudenza ivi richiamata);

d) le sentenze della Corte EDU successive a quella del 7 giugno 2011, Agrati, non hanno innovato il quadro della vicenda già apprezzato da questa Corte, che ha costantemente ritenuto (cfr. fra le tante Cass. n. 7859/2019, Cass. n. 4437/2019, Cass. n. 3016/2018) non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa di interpretazione autentica, rilevando che il giudice delle leggi, affermata la propria competenza a compiere la valutazione, ha già ritenuto sussistenti imperativi motivi di interesse generale che, secondo la stessa Corte di Strasburgo, permettono al legislatore di intervenire sul processo in corso;

e) una volta corretta la motivazione della sentenza gravata, non è ravvisabile la denunciata violazione dei principi richiamati nell’undicesimo motivo;

f) è inammissibile la censura di violazione dell’art. 2697 c.c. perché la Corte territoriale non ha deciso la controversia sulla base di un’erronea attribuzione dell’onere della prova ed il rigetto della domanda, una volta corretta la motivazione, discende dall’applicazione di principi di diritto, che portano ad escludere il lamentato peggioramento retributivo sostanziale;

22. la memoria depositata ex art. 381 bis 1 c.p.c., con la quale i ricorrenti, nel contestare l’iter argomentativo sopra sintetizzato insistono nel sollecitare in primis l’esercizio del potere di disapplicazione e, in via subordinata, una nuova rimessione degli atti alla Corte Costituzionale, svolge considerazioni che, seppure maggiormente sviluppate rispetto all’atto introduttivo del giudizio di legittimità, non inseriscono elementi di novità né giustificano un ripensamento degli orientamenti già espressi da questa Corte;

22.1. quanto alla necessità di disapplicare la legge di interpretazione autentica, in ragione della violazione degli artt. 47 e 52 della CDFUE, i ricorrenti muovono da una lettura non corretta del punto 84 della sentenza 6.9.2011 in causa c-108/10, perché la questione dell’ipotizzata violazione dell’art. 47 è stata ritenuta assorbita in ragione del principio, affermato esplicitamente in altre pronunce della Corte di Giustizia, secondo cui ai sensi dell’art. 51 della Carta, il collegamento con il diritto dell’Unione dell’atto di diritto interno contestato richiede, non solo che la misura nazionale ricada in un settore nel quale l’Unione è competente, ma anche che la stessa incida direttamente sulla normativa Eurounitaria e si ponga in contrasto con gli obiettivi che questa persegue;

22.2. è stato, pertanto, evidenziato che i diritti fondamentali dell’Unione non possono essere applicati ad una normativa nazionale qualora, in relazione alla situazione oggetto del procedimento principale, le disposizioni dell’Unione non pongono alcun obbligo specifico agli Stati membri (Corte di Giustizia 16.7.2020 in causa C – 686/18 punti da 52 a 54 e la giurisprudenza ivi richiamata; negli stessi termini Corte di Giustizia 4.6.2020 in causa C – 32/20 punti da 25 a 27);

22.3. con la sentenza Scattolon la Corte ha chiarito che la direttiva 77/187 ha il solo scopo di evitare che i lavoratori siano collocati per effetto del trasferimento in una posizione sfavorevole rispetto a quella di cui godevano precedentemente e non può essere invocata per ottenere un miglioramento delle condizioni retributive, sicché il collegamento con il diritto dell’Unione, da intendere nei termini precisati nei punti che precedono, opera solo a fronte di disposizioni che si pongano in contrasto con l’obiettivo della direttiva e, quanto alle condizioni di lavoro ed al trattamento retributivo, non è più predicabile qualora, come è stato verificato nella fattispecie, l’irriducibilità sia garantita e l’operatività dei principi della Carta venga invocata per ottenere un effetto finale che esula dalle tutele assicurate dal diritto dell’Unione;

23. analogamente il Collegio, nel ribadire l’orientamento consolidato già espresso, non ritiene che le pronunce della Corte EDU costituiscano una sopravvenienza idonea a giustificare l’attivazione del procedimento incidentale di legittimità costituzionale in relazione ad una norma di legge la cui legittimità è stata scrutinata dalla Corte Costituzionale in più pronunce (Corte Cost. nn. 234 e 400 del 2007; n. 212 del 2008; n. 311 del 2009);

23.1. in altra vicenda che, quanto ai rapporti fra le Corti superiori, presenta profili di affinità a quella oggetto di causa, il Giudice delle leggi ha ribadito che il vincolo derivante dalle sentenze della Corte EDU attiene all’interpretazione della norma convenzionale, ma non si estende alla valutazione espressa sulla sussistenza di motivi imperativi di interesse generale, che solo la Corte Costituzionale può compiere perché essa, a differenza della Corte di Strasburgo “opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è quindi tenuta al bilanciamento, solo ad essa spettante ” (Corte Cost. n. 264/2012; va segnalato che la stessa Corte, nuovamente adita a seguito della sopravvenienza di ulteriore pronuncia della Corte EDU, con la sentenza n. 166/2017 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale della legge di interpretazione autentica dettata dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 777, prospettata questa volta in relazione alla violazione non dell’art. 6 della CEDU, bensì dell’art. 1 del Protocollo addizionale, in una fattispecie nella quale la norma interpretativa aveva inciso, riducendola, sull’entità della pensione già corrisposta agli aventi diritto);

23.2. va, poi, ricordato che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 311/2009, oltre a valutare la conformità della legge di interpretazione autentica in relazione al parametro invocato (art. 117 Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU) ha anche ribadito principi già affermati con la sentenza n. 234/2007, che aveva, da un lato, evidenziato la valenza generale del criterio del maturato economico, introdotto già dalla L. n. 312 del 1980, dall’altro la necessità di un’interpretazione della L. n. 124 del 1999, art. 8 che, senza determinare una reformatio in malam partem di una situazione patrimoniale in precedenza acquisita, tenesse anche conto della disciplina dettata per l’impiego pubblico e dell’invarianza della spesa, imposta dalla stessa L. n. 124 del 1999 ai fini del rispetto dell’art. 81 Cost., invarianza della quale le parti collettive si erano poi fatte carico;

23.3. la Corte, quindi, nelle pronunce citate, sia pure in relazione ad altri parametri invocati dai giudici rimettenti, ha espresso considerazioni anche in relazione al legittimo affidamento, dalle quali può desumersi la manifesta infondatezza della questione riproposta in questa sede dai ricorrenti;

24. d’altro canto non risponde neppure al vero che al personale ATA interessato dal trasferimento di attività sarebbe stato assicurato un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto alla generalità dei dipendenti pubblici dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31 e dall’art. 2112 c.c. perché, al contrario, anche in relazione ad altri trasferimenti questa Corte ha affermato che le disposizioni normative e contrattuali finalizzate a garantire il mantenimento del trattamento economico e normativo acquisito, non implicano la totale parificazione del lavoratore trasferito ai dipendenti già in servizio presso il datore di lavoro di destinazione, in quanto la prosecuzione giuridica del rapporto se, da un lato, rende operante il divieto di reformatio in peius, dall’altro non fa venir meno la diversità fra le due fasi di svolgimento del rapporto medesimo, diversità che può essere valorizzata dal nuovo datore di lavoro, sempre che il trattamento differenziato non implichi la mortificazione di un diritto già acquisito dal lavoratore;

24.1. muovendo da detta premessa si è evidenziato che l’anzianità di servizio, che di per sé non costituisce un diritto che il lavoratore possa fare valere nei confronti del nuovo datore, deve essere salvaguardata in modo assoluto solo nei casi in cui alla stessa si correlino benefici economici ed il mancato riconoscimento della pregressa anzianità comporterebbe un peggioramento del trattamento retributivo in precedenza goduto dal lavoratore trasferito (Cass. n. 18220/2015; Cass. n. 25021/2014; Cass. n. 22745/2011; Cass. n. 10933/2011; Cass. S.U. n. 22800/2010; Cass. n. 17081/2007);

24.2. l’anzianità pregressa, invece, non può essere fatta valere da quest’ultimo per rivendicare ricostruzioni di carriera sulla base della diversa disciplina applicabile al cessionario (Cass. S.U. n. 22800/2010 e Cass. n. 25021/2014), né può essere opposta al nuovo datore per ottenere un miglioramento della posizione giuridica ed economica, perché l’ordinamento garantisce solo la conservazione dei diritti già entrati nel patrimonio del lavoratore alla data della cessione del contratto, non delle mere aspettative (cfr. fra le più recenti Cass. n. 4389/2020 e quanto agli scatti di anzianità Cass. n. 32070/2019);

24.3. corollario di detto principio è quello, egualmente consolidato da tempo nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in caso di passaggio di personale conseguente al trasferimento di attività concorrono a formare la base di calcolo ai fini della quantificazione dell’assegno personale le voci retributive corrisposte in misura fissa e continuativa, non già gli emolumenti variabili o provvisori sui quali, per il loro carattere di precarietà e di accidentalità il dipendente non può riporre affidamento, o perché connessi a particolari situazioni di lavoro o in quanto derivanti dal raggiungimento di specifici obiettivi e condizionati, nell’ammontare, da stanziamenti per i quali è richiesto il previo giudizio di compatibilità con le esigenze finanziarie dell’amministrazione (cfr. fra le tante Cass. n. 31148/2018; Cass. n. 18196/2017; Cass. n. 3865/2012);

25. il ricorso incidentale, in via conclusiva, deve essere rigettato;

26. le spese seguono la soccombenza, non ravvisandosi, nella pendenza di trattative al fine di definire il contenzioso C.E.D.U. allegate con la memoria finale del G., ragioni idonee a giustificare una diversa statuizione;

26. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale.

Condanna i ricorrenti al pagamento in favore del Ministero delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, quanto al ricorrente principale, in Euro 4.000,00 e quanto ai ricorrenti incidentali in Euro 6.000,00 oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, principale ed incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2021

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