Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.22699 del 11/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 32395-2019 proposto da:

B.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENRICO MIZZI, 19, presso lo studio dell’avvocato NICOLA CORTEGGIANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNA D’AGOSTINO;

– ricorrente –

contro

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER 36, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO GOZZI, rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTA RUSTIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 266/2019 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 24/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 20/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE EDUARDO.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 14 novembre 2018, n. 428 il Tribunale di Pordenone, disciplinando le conseguenze economiche della già pronunciata cessazione degli effetti civili del matrimonio intercorso tra M.S. ed B.E., pose a carico del primo l’obbligo di versare alla seconda un assegno divorzile di Euro 2.000,00 mensili a decorrere dal passaggio in giudicato (ottobre 2016) della precedente sentenza non definitiva che aveva sancito il loro divorzio.

2. La Corte d’appello di Trieste, con sentenza del 24 aprile 2019, n. 266, premettendo di dover fare applicazione dei principi sanciti da Cass., SU, n. 18287 del 2018, ha accolto il gravame del M. contro quella decisione ed ha negato alla B. il riconoscimento dell’invocato assegno.

2.1. In estrema sintesi, quella corte ha opinato che “…. Durata non eccessiva del matrimonio, assenza di figli, contributo fornito al menage non particolarmente significativo, opzioni endomatrimoniali comunque condivise e non penalizzanti, prospettive lavorative concrete, contribuiscono a delineare un quadro complessivo che esclude la sussistenza dei presupposti legittimanti la corresponsione di un assegno”.

3. Per la cassazione di questa sentenza ricorre la B. affidandosi ad un motivo, ulteriormente illustrato da memoria ex art. 380-bis c.p.c.. Resiste, con controricorso, il M..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La formulata doglianza, rubricata “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5: violazione e/o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ed omesso esame circa i fatti (squilibrio economico – adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente – riconducibilità dello squilibrio alle scelte endomatrimoniali) decisivi per il giudizio”, censura le argomentazioni utilizzate dalla corte distrettuale per negare l’assegno divorzile alla B., diversamente da quanto stabilito dal giudice di prime cure.

2. Un siffatto motivo impone preliminarmente di ricordare che, per quasi trent’anni, la giurisprudenza ha interpretato la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, ritenendo che l’assegno divorzile dovesse consentire all’avente diritto di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva in costanza di matrimonio.

2.1. Sulla scia delle critiche di vasti settori dottrinari, che ravvisavano in tale indirizzo interpretativo il rischio di garantire ingiustificate rendite di posizione, questa Corte, con la sentenza n. 11504 del 2017 (e quella, in senso sostanzialmente conforme, n. 23602 del 2017), ebbe a ribaltare l’orientamento in questione, negando il riconoscimento dell’assegno di divorzio tutte le volte che il richiedente dovesse considerarsi economicamente autosufficiente.

2.2. Il descritto revirement suscitò un acceso dibattito, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, che è sfociato nell’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite di questa Corte, la cui recente sentenza dell’1 1 luglio 2018, n. 18287, può essere condensata nelle seguenti asserzioni: a) abbandono dei vecchi automatismi che avevano dato vita ai due orientamenti contrapposti: da un lato il tenore di vita (cfr. Cass., SU, n. 11490 del 1990), dall’altro il criterio dell’autosufficienza (cfr. Cass. n. 11504 del 2017); b) abbandono della concezione bifasica del procedimento di determinazione dell’assegno divorzile, fondata sulla distinzione tra criteri attributivi e criteri determinativi; c) abbandono della concezione che riconosce la natura meramente assistenziale dell’assegno di divorzio a favore di quella che gli attribuisce natura composita (assistenziale e perequativa/compensativa); d) equiordinazione dei criteri previsti dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6; e) abbandono di una concezione assolutistica ed astratta del criterio “adeguatezza/inadeguatezza dei mezzi” a favore di una visione che propende per la causa concreta e lo contestualizza nella specifica vicenda coniugale; f) necessità della valutazione dell’intera storia coniugale e di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni dell’avente diritto all’assegno (età, salute, etc.) e della durata del matrimonio; g) importanza del profilo perequativo-compensativo dell’assegno e necessità di un accertamento rigoroso del nesso di causalità tra scelte endofamiliari e situazione dell’avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo coniugale.

2.2.1. In definitiva, appare evidente la ratio ispiratrice della decisione, individuabile nell’abbandono della tesi individualista fatta propria da Cass. n. 11504 del 2017 per la vigorosa riaffermazione del principio di solidarietà postconiugale, agganciato ai parametri costituzionali ex artt. 2 e 29 Cost..

2.3. Muovendo da tali presupposti, dunque, le Sezioni Unite hanno sancito che, al fine di stabilire se, ed eventualmente in quale entità, debba essere riconoscersi l’invocato assegno divorzile, il giudice: a) procede, anche a mezzo dell’esercizio dei poteri ufficiosi, alla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali delle parti; b) qualora risulti l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, o, comunque, l’impossibilità di procurarseli per ragioni obiettive, deve accertarne rigorosamente le cause, alla stregua dei parametri indicati dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, prima parte, e, in particolare, se quella sperequazione sia, o meno, la conseguenza del contributo fornito dal richiedente medesimo alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali, in relazione all’età dello stesso ed alla durata del matrimonio; c) quantifica l’assegno rapportandolo non al pregresso tenore di vita familiare, né al parametro della autosufficienza economica, ma in misura tale da garantire all’avente diritto un livello reddituale adeguato al contributo sopra richiamato.

2.4. Va considerato, poi, che: i) la congruità della motivazione adottata dal giudice di appello deve essere verificata con esclusivo riguardo alle questioni sottoposte al suo esame, e dallo stesso risolte per decidere la controversia, risultando ad essa del tutto estranea la decisione eventualmente diversa del giudice di primo grado, la quale è destinata a rimanere interamente travolta ed assorbita da quella emessa, in sua sostituzione, dal giudice del gravame, che, dunque, può limitarsi ad una valutazione diretta del materiale probatorio messo a disposizione dalle parti, nell’ambito delle questioni sollevate con i motivi di impugnazione, senza essere tenuto ad una puntuale confutazione dei singoli punti della decisione impugnata (cfr. Cass. n. 15038 del 2018, in motivazione; Cass., n. 28487 del 2005; Cass. n. 9670 del 2003; Cass. n. 2078 del 1998); iz) questa Corte, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 28915 del 2020; Cass. n. 25444 del 2020; Cass. n. 4343 del 2020; Cass. n. 27686 del 2018), ha chiarito che: ii-a) il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 può rivestire la forma della violazione di legge (intesa come errata negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, ovvero attribuzione alla stessa di un significato inappropriato) e della falsa applicazione di norme di diritto, intesa come sussunzione della fattispecie concreta in una disposizione non pertinente (perché, ove propriamente individuata ed interpretata, riferita ad altro) ovvero deduzione da una norma di conseguenze giuridiche che, in relazione alla fattispecie concreta, contraddicono la sua (pur corretta) interpretazione (Dott.- Cass. n. 8782 del 2005); ii-b) non integra invece violazione, né falsa applicazione di norme di diritto, la denuncia di una erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, poiché essa si colloca al di fuori dell’ambito interpretative ed applicativo della norma di legge; ii-c) il discrimine tra violazione di legge in senso proprio (per erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) ed erronea applicazione della legge (in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, diversamente dalla prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Cass., Sez. U., n. 10313 del 2006; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010); ii-d) le doglianze attinenti non già all’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalle norme di legge, bensì all’erronea ricognizione della fattispecie concreta alla luce delle risultanze di causa, ineriscono tipicamente alla valutazione del giudice di merito (cfr. Cass. n. 13238 del 2017; Cass. n. 26110 del 2015).

2.6. La doglianza in esame si risolve, invece, sostanzialmente, in una critica al complessivo accertamento fattuale operato dal giudice a quo, cui la ricorrente intenderebbe opporre, sotto la formale rubrica di vizio motivazionale e/o di violazione di legge, una diversa valutazione, totalmente obliterando, però, da un lato, che il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – come si è appena detto – non può essere mediato dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie, ma deve essere dedotta, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (t.fr. Cass. n. 16700 del 2020; Cass. SU, n. 23745 del 2020); dall’altro, che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (qui applicabile ratione temporis, risultando impugnata una sentenza resa il 24 aprile 2019), riguarda un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo (non più alla motivazione insufficiente e/o contraddittoria, bensì) all’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito a un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni, argomentazioni o deduzioni difensive (cfr. Cass., SU, n. 16303 del 2018, in motivazione; Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2015), sicché sono inammissibili le censure che, irritualmente, estendano il paradigma normativo a quest’ultimo profilo (cfr., ex aliis, Cass. n. 22397 del 2019; Cass. n. 26305 del 2018; Cass. n. 14802 del 2017).

2.6.1. E’ palese, allora, che laddove, sebbene sotto la formale rubrica della violazione di legge o vizio motivazionale, la B. censura oggi gli esiti della complessiva comparazione effettuata dalla corte distrettuale circa le reciproche condizioni economico/patrimoniali/reddituali della prima e del M., la doglianza è inammissibile, risolvendosi in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui la ricorrente intenderebbe opporre una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie utilizzate dalla corte triestina: ciò non è consentito, però, nel giudizio di legittimità, che non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non previsto, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata (la cui motivazione, nella specie, ha espressamente valutato gli elementi di cui oggi la B. lamenta, affatto infondatamente, l’omesso esame) non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché la più recente Cass. n. 8758 del 2017). In altri termini, non è consentita, in sede di legittimità, una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (cfr., ex multis, Cass. n. 1636 del 2020; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 13954 del 2007; Cass. n. 12052 del 2007; Cass. n. 7972 del 2007; Cass. n. 5274 del 2007; Cass. n. 2577 del 2007; Cass. n. 27197 del 2006; e così via, sino a risalire a Cass. n. 1674 del 1963, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

2.6.2. Il medesimo motivo e’, peraltro, infondato anche facendosi applicazione dei principi tutti sanciti dalla già menzionata statuizione delle Sezioni Unite di questa Corte n. 18287 del 2018.

2.6.3. Infatti, con motivazione coerente con il minimum costituzionale oggi imposto da Cass., SU, n. 8053 del 2014, la corte giuliana, all’esito della propria indagine, ha ritenuto che “…. durata non eccessiva del matrimonio, assenza di figli, contributo fornito al menage non particolarmente significativo, opzioni endomatrimoniali comunque condivise e non penalizzanti, prospettive lavorative concrete, contribuiscono a delineare un quadro complessivo che esclude la sussistenza dei presupposti legittimanti la corresponsione di un assegno”. Così opinando, essa ha chiaramente tenuto conto della natura composita (assistenziale e perequativa/compensativa) dell’assegno divorzile, valutando non solo i mezzi economici della B. (o, comunque, la sua possibilità di procurarseli), ma anche il concreto contributo da lei fornito alla conduzione familiare, alla durata del matrimonio, all’assenza di prole (da cui l’insussistenza di sacrifici delle proprie aspettative professionali e reddituali per dedicarsi al loro accudimento): non vi è chi non veda, pertanto, che tali accertamenti fattuali si rivelano comunque coerenti con i suesposti principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte, laddove il motivo in esame si risolve, invece, sostanzialmente, in un’inammissibile richiesta di rivisitazione di quei giudizi.

3. L’odierno ricorso, dunque, va respinto, restando le spese di questo giudizio di legittimità regolate dal principio di soccombenza, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr’. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

4. Va, disposta, infine, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la B. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 100,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della medesima ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Dispone per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2021

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