LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TORRICE Amelia – Presidente –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –
Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5657-2015 proposto da:
M.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE n. 114, presso lo studio dell’avvocato LUIGI PARENTI, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE INTERNAZIONALE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4157/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/09/2014 R.G.N. 7526/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/03/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.
RILEVATO
CHE:
1. la Corte d’Appello di Roma ha respinto l’appello di M.E. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto l’opposizione proposta dal Ministero degli Affari Esteri avverso il Decreto Monitorio n. 38999 del 2008, con il quale era stato ingiunto al Ministero il pagamento della complessiva somma di Euro 48.703,89 pretesa a titolo di tredicesima mensilità per il periodo gennaio 1999/dicembre 2007;
2. la Corte territoriale ha premesso che l’appellante, contrattista a tempo indeterminato presso l’Istituto Italiano di Cultura a Belgrado, aveva esercitato la facoltà di opzione prevista dal D.Lgs. n. 103 del 2000, art. 2, comma 5, e pertanto, a partire dalla sottoscrizione del contratto individuale del 30 novembre 2001, il rapporto era stato regolato dalla legge italiana anziché da quella serba;
3. il giudice d’appello ha ritenuto fondata l’eccezione di prescrizione quinquennale, proposta dal Ministero sul rilievo che non erano stati compiuti atti interruttivi in data antecedente la notifica del decreto, avvenuta il 15 gennaio 2009, e dalla fondatezza dell’eccezione ha tratto come ulteriore conseguenza che l’unico contratto rilevante ai fini di causa era quello sottoscritto il 30.11.2001, con il quale, all’art. 4, comma 3, era stato espressamente previsto che “la retribuzione annua base, da corrispondersi in dodicesimi mensili posticipati, è comprensiva della tredicesima mensilità, che è stata calcolata nella retribuzione stessa”;
4. ha escluso la nullità della clausola ed ha richiamato la disciplina dettata dal D.P.R. n. 18 del 1967, dal CCNL per il personale del comparto Ministeri, dall’Accordo del 12 aprile 2001 pervenendo alla conclusione che ben potevano le parti concordare un trattamento economico onnicomprensivo;
5. infine la Corte territoriale ha evidenziato che la domanda dell’appellante non poteva essere fondata sul D.L.C.P.S. n. 263 del 1946, art. 7 sia perché la norma è divenuta inapplicabile al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, sia in quanto la stessa non osta all’erogazione della tredicesima mediante anticipazioni mensili;
6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.E. sulla base di un unico motivo, illustrato da memoria, al quale ha opposto difese il Ministero degli Affari Esteri con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
1. con l’unico motivo di ricorso M.E. denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; omessa e contraddittoria motivazione ed omesso esame circa l’inesistente inclusione della tredicesima nella retribuzione del nuovo contratto del 30/11/2001 regolato dalla legge italiana; inesistente tredicesima nella retribuzione di Euro 34.939,00 proposta dal MAE con decorrenza 30/11/2001; inesistente tredicesima nella retribuzione di USA 43.934,00 pari ad Euro 49.336,00 riconosciuta giudizialmente con il nuovo contratto a legge italiana;
1.1. il ricorrente premette che la tredicesima mensilità non era mai stata riconosciuta in epoca antecedente l’esercizio dell’opzione, perché non prevista dall’ordinamento serbo, mentre doveva esserlo dopo l’assoggettamento del rapporto alla legge italiana, che la prevede, seppure consentendone il pagamento in rate mensili;
1.2. richiama pregresse vicende giudiziarie, tutte inerenti la quantificazione del trattamento retributivo, e sostiene che l’importo complessivo indicato nel contratto individuale, così come quello riconosciuto giudizialmente, non poteva comprendere anche la tredicesima mensilità, perché determinato in misura pari a quella in precedenza fissata, allorquando il rapporto era ancora disciplinato dalla legge serba che, pacificamente, non prevedeva il diritto a percepire la mensilità aggiuntiva;
1.3. addebita alla Corte territoriale di non avere esaminato la documentazione prodotta e di non avere indicato le ragioni per le quali la tredicesima dovesse essere ritenuta inclusa nella retribuzione annuale prevista nel contratto;
2. è fondata l’eccezione di inammissibilità, sollevata dalla difesa del Ministero controricorrente, innanzitutto perché il ricorso è tutto incentrato su atti e documenti, non richiamati nella sentenza gravata, rispetto ai quali non risulta assolto l’onere di specifica indicazione imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6;
2.1. nel giudizio di cassazione, a critica vincolata ed essenzialmente basato su atti scritti, essendo ormai solo eventuale la possibilità di illustrazione orale delle difese, i requisiti di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c. perseguono la finalità di consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, e, pertanto, qualora la censura si fondi su atti o documenti è necessario che di quegli atti il ricorrente riporti il contenuto, mediante la trascrizione delle parti rilevanti, precisando, inoltre, in quale sede e con quali modalità gli stessi siano stati acquisiti al processo;
2.2. i richiamati principi sono stati ribaditi dalle Sezioni Unite in recente decisione con la quale si è affermato che “in tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. S.U. n. 34469/2019);
3. a detta assorbente ragione si deve aggiungere che gli argomenti sviluppati nel ricorso, che non toccano la ricostruzione del quadro normativo operata dalla Corte territoriale, finiscono per addebitare al giudice d’appello un’errata esegesi della clausola del contratto individuale che prevedeva espressamente l’inclusione della tredicesima mensilità nella retribuzione annua concordata;
3.1 è noto che l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. n. 11254/2018);
3.2. ciò perché l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto e, quindi, in sede di legittimità il ricorrente che denunci la violazione dei canoni legali di ermeneutica deve, non solo fare esplicito riferimento alle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia dagli stessi discostato (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27136/2017);
3.3. il ricorso si limita ad addebitare alla Corte territoriale di non avere apprezzato, a fini interpretativi, le pregresse vicende del rapporto ed in ciò ravvisa un omesso esame di fatto controverso decisivo ai fini del giudizio, inammissibilmente denunciato senza assolvere agli oneri indicati da Cass. S.U. n. 8053/2014, senza indicare le ragioni della decisività dell’omissione e senza precisare rispetto a quale canone ermeneutico il “fatto” non apprezzato assumerebbe rilevanza;
4. infine non si ravvisa il denunciato vizio motivazionale perché, all’esito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità, quale violazione di legge costituzionalmente rilevante, attiene solo all’esistenza della motivazione in sé, prescinde dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. S.U. n. 8053/2014 che richiama Cass. S.U. n. 5888/1992);
4.1. esula, invece, dal vizio di violazione di legge la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones fatti, implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito;
5. in via conclusiva il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo;
6. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2021