Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.22963 del 17/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 928/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato presso i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Fallimento ***** s.r.l. in liquidazione in persona del curatore fallimentare, rappresentata e difesa anche disgiuntamente dall’avv. Andrea Missoni e dall’avv. Giuseppe Niccolini ed elettivamente domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Teodosio Macrobio, 3, per procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia n. 31/10/13 depositata il 3.5.2013.

Udita la relazione svolta alla udienza camerale del 14.4.2021 dal Consigliere Rosaria Maria Castorina.

OSSERVA L’Agenzia delle Entrate, con tre avvisi di accertamento, rettificava le dichiarazioni IVA della *****, esercente servizi di supporto alle attività di assistenza agli anziani di tre Aziende Pubbliche operanti nel Friuli Venezia Giulia per gli anni di imposta 2006, 2007 e 2008. L’ufficio riteneva che le prestazioni fatturate come esenti ai fini IVA non rientrassero nella previsione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, comma 1, n. 27-ter, e fossero da considerare imponibili, atteso che la contribuente non rientrava tra i soggetti “organismi di diritto pubblico, (…) istituzioni sanitarie riconosciute che erogano assistenza pubblica o da enti aventi finalità di assistenza sociale e ONLUS”.

La contribuente impugnava gli avvisi e la CTP di Udine, previa riunione, accoglieva il ricorso sul presupposto che ai fini dell’esenzione l’elencazione dei soggetti beneficiari non era tassativa. L’Ufficio appellava la sentenza e la CTR del Friuli Venezia Giulia, con sentenza n. 31/10/13 depositata il 3.5.2013, rigettava l’appello ritenendo che la contribuente rientrasse nella categoria degli enti aventi finalità di assistenza sociale di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, che disciplinava l’esenzione.

Avverso la sentenza d’appello l’Ufficio ha proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi.

La curatela del fallimento della contribuente, frattanto dichiarato, si è costituita con controricorso, illustrato con memoria.

Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, art. 132, n. 1, lett. g) e art. 133, lett. a) della Direttiva 2006/112/CE; art. 2249 c.c., comma 2 e art. 2697 c.c..

Lamenta l’erroneità dell’affermazione in base alla quale, ai fini dell’esenzione dall’IVA D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 10, comma 1, n. 27-ter, la prestazione di servizi agli anziani rese da enti aventi finalità di assistenza sociale include anche le società commerciali.

2. Con il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 207 del 2001, art. 5, comma 1 e art. 6, commi 1 e 3; L.R. FVG n. 19 del 2003, art. 3, comma 3; LR FVG n. 6 del 2006, art. 12; art. 2249 c.c., comma 2 e artt. 2697 e 1372 c.c.; art. 133, lett. e, A) Direttiva 2006/112/CE; D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 27 ter in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta che la CTR aveva errato nel ritenere in concreto la ***** soggetto avente istituzionalmente come fine l’assistenza sociale.

Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta. Esse non sono fondate.

2.1.L’ufficio afferma l’estraneità della contribuente alle categorie soggettive (organismi di diritto pubblico; istituzioni sanitarie riconosciute che erogano assistenza pubblica, previste dalla L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 41; enti aventi finalità di assistenza sociale ed ONLUS) alle cui prestazioni assistenziali il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, estende l’esenzione dall’IVA.

2.2 L’art. 4, comma 5, della Direttiva U.E. del 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, nella versione applicabile ratione temporis afferma che: “Gli Stati, le regioni, le province, i comuni e gli altri organismi di diritto pubblico non sono considerati soggetti passivi per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità, anche quando, in relazione a tali attività od operazioni, percepiscono diritti, canoni, contributi o retribuzioni. Se però tali enti esercitano attività od operazioni di questo genere, essi devono essere considerati soggetti passivi per dette attività od operazioni quando il loro non assoggettamento provocherebbe distorsioni di concorrenza di una certa importanza. In ogni caso, gli enti succitati sono sempre considerati come soggetti passivi per quanto riguarda le attività elencate nell’allegato D quando esse non sono trascurabili. Gli Stati membri possono considerare come attività della pubblica amministrazione le attività dei suddetti enti le quali siano esenti a norma degli artt. 13 o 28”.

L’art. 13, parte A, lett. g) della predetta Direttiva U.E., n. 77/388/CEE, dispone inoltre, per quanto qui interessa, che: “Fatte salve le altre disposizioni comunitarie, gli Stati membri esonerano, alle condizioni da essi stabilite per assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni previste in appresso e per prevenire ogni possibile frode, evasione ed abuso: (…) g) le prestazioni di servizi e le cessioni di beni strettamente connesse con l’assistenza sociale e la sicurezza sociale, comprese quelle fornite dalle case di riposo, effettuate da organismi di diritto pubblico o da altri organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dello Stato membro interessato”.

La giurisprudenza comunitaria (con riferimento alla Direttiva U.E. del 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE) ha chiarito che la delimitazione normativa delle categorie di soggetti che possono beneficiare dell’esenzione IVA non può essere interpretata facendo ricorso alle definizioni enunciate nella Direttiva U.E. n. 2004/18/CE, dettata in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, per evidenti divergenze della ratio che giustifica i due diversi provvedimenti (Corte Giustizia, 29 ottobre 2015, Saudnor, C-174/14. Conformi le ulteriori pronunce, ivi citate, della Corte di Giustizia).

In materia di IVA, l’individuazione normativa dei soggetti “pubblici” non mira, infatti a definire l’ambito di applicazione dell’imposta, ma opera, al contrario, una deroga alla norma generale su cui si basa il sistema comune di tale imposta che comprende tutte le prestazioni di servizi fornite a titolo oneroso, incluse quelle effettuate dagli enti di diritto pubblico. Pertanto, in quanto deroga alla norma generale dell’assoggettamento all’IVA di qualsiasi attività di natura economica, l’area soggettiva dei beneficiari delle esenzioni va interpretata restrittivamente e, in assenza di diverse indicazioni nel testo della direttiva che regola la relativa imposizione, facendo riferimento all’economia ed alla finalità specifiche di tale provvedimento, in relazione al sistema comune di IVA da esso predisposto.

Il concetto di “organismi di diritto pubblico” di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, in materia di esenzione dall’IVA, non coincide, dunque, con quello di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 3, comma 26, che disciplina invece i contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, attesa la ratio addirittura opposta delle due disposizioni, la prima derogativa dell’imposizione fiscale e da interpretarsi restrittivamente, la seconda ampliativa delle maggiori garanzie, costituzionali e comunitarie, che debbono presiedere alla contrattazione pubblica.

L’interpretazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, comma 1, n. 27-ter, deve essere dunque condotta con riferimento ai parametri ricavabili dalle direttive comunitarie in materia di IVA, nella consapevolezza della necessaria interpretazione restrittiva delle deroghe al principio generale dell’imponibilità delle prestazioni.

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. 25/03/2015, n. 5947) che, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della Sesta Direttiva in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari, è soggetto passivo dell’IVA chiunque eserciti in modo indipendente un’attività economica, a prescindere dagli scopi o dai risultati di quest’ultima; mentre il successivo comma 5 esclude dal campo applicativo dell’IVA solo lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri organismi di diritto pubblico, e solo per le operazioni che esercitano quali pubbliche autorità. E’ quindi la connotazione di pubblica autorità dell’attività svolta che contribuisce a determinare lo stesso ambito soggettivo dei beneficiari dell’esenzione, in quanto essa può riscontrarsi solo nell’esercizio diretto della stessa autorità da parte del soggetto pubblico, dei suoi organi o delle sue emanazioni, cioè dei soggetti che ne siano espressione. Occorre, pertanto, ai fini della legittimità dell’esenzione dall’IVA, che il soggetto pubblico svolga l’attività in veste di pubblica autorità e nell’ambito del regime giuridico pubblicistico che lo caratterizza (in questo senso cfr. Corte di Giustizia, 12/09/2000,C-408197, punto 34; 14 dicembre 2000, C-446/98, punto 15; 12 settembre 2000, C-276/97, punto 39), non anche in base al medesimo regime cui sono sottoposti gli operatori economici privati (Corte di Giustizia, 12 settembre 2000, C-276/97, cit. Sulla limitazione dell’esenzione alle attività che i soggetti pubblici svolgano in quanto pubbliche autorità v. altresì Cass., 07/03/2012, n. 3513. Conformi Cass. 20/02/2015, n. 3418, del 20/02/2015).

Con specifico riferimento alla fattispecie – paragonabile a quella qui sub iudice della società commerciale detenuta al 100% da un Comune ed incaricata di determinati compiti pubblici incombenti al medesimo ente territoriale, la Corte di Giustizia ha ribadito recentemente (Corte di Giustizia, 22/02/2018, Nagysze’n. s, C182/17) che la legittimità comunitaria del non assoggettamento all’IVA richiede la necessaria ricorrenza congiunta di due condizioni, vale a dire l’esercizio di attività da parte di un ente pubblico e l’esercizio di attività in veste di pubblica autorità. La prima, ossia quella relativa alla qualità di ente pubblico, è stata esclusa dalla Corte quando la società commerciale non disponga, per l’esecuzione dei compiti pubblici che le sono affidati dall’ente pubblico che ne è titolare, di alcuna prerogativa di pubblica autorità. La seconda, per la quale sono esentate dall’IVA solo le attività svolte da un ente di diritto pubblico che agisca in qualità di autorità pubblica, è stata a sua volta esclusa dalla Corte quando l’attività svolta è disciplinata da disposizioni di diritto privato ed il soggetto che la esercita non dispone, per l’esecuzione dei compiti pubblici, di alcuna delle prerogative proprie dei poteri pubblici dell’ente che glieli ha affidati.

Nella specie la società contribuente costituiva, ai fini dell’imposizione IVA una persona giuridica terza rispetto all’ente pubblico che ne ha la partecipazione totale, ha natura di società commerciale, opera in regime di diritto privato e non è titolare di prerogative pubbliche.

Va conseguentemente escluso che, ai fini dell’esenzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, la contribuente rientrasse tra gli “organismi di diritto pubblico”.

2.3 Resta da chiarire se essa possa considerarsi “ente avente finalità di assistenza sociale” in quanto l’art. 13, parte A, lett. g) della citata Direttiva U.E. del 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, si riferisce ad “altri organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dello Stato membro interessato” ed il relativo riconoscimento sarebbe stato effettuato dal legislatore nazionale proprio con il D.P.R. n. 633 del 1972, predetto art. 10, comma 1, n. 27-ter, al quale occorrerebbe fare riferimento per individuare quali siano gli enti con finalità di assistenza sociale riconosciuti.

L’orientamento di questa Corte è consolidato nel ribadire che la natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza deve essere accertata in sede giudiziale, in concreto, indipendentemente dall’esito delle procedure amministrative eventualmente esperite e facendo ricorso ai criteri indicati dal D.P.C.M. 16 febbraio 1990 (cfr. Cass. S.U. n. 1151/2012, n. 30176/2011, n. 28537/2008).

In sintonia con tale orientamento, la giurisprudenza amministrativa ritiene che le delibere della Regione che stabiliscono la natura privata o pubblica di una IPAB hanno valore meramente ricognitivo e vanno qualificate come atto di accertamento rispetto ad una posizione che va verificata nei suoi elementi obiettivi (T.A.R. Milano sez. 3, n. 1180/1999, T.A.R. Venezia, (Veneto), sez. 3, n. 1282/2013).

La L. n. 328 del 2000, art. 10, ha delegato il Governo ad adottare una nuova disciplina delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) di cui alla L. 17 luglio 1890, n. 6972, al fine di definire l’inserimento delle IPAB che operano in campo socio assistenziale nella programmazione regionale del sistema integrato di interventi e servizi sociali; di prevedere, nell’ambito del riordino della disciplina, la trasformazione della forma giuridica delle IPAB al fine di garantire l’obiettivo di un’efficace ed efficiente gestione, assicurando autonomia statutaria, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica compatibile con il mantenimento della personalità giuridica pubblica; di prevedere la possibilità della trasformazione delle IPAB in associazioni o in fondazioni di diritto privato; di prevedere, in particolare, l’applicazione di un regime giuridico del personale di tipo privatistico e di forme contrattuali coerenti con l’autonomia degli enti.

Questa Corte con ord. 10 maggio 2019, n. 12491 ha affermato che, in tema di Iva, ai fini dell’esenzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10,1 comma, n. 27 ter, concernente le prestazioni sociosanitarie, di assistenza domiciliare o ambulatoriale, non è previsto il formale riconoscimento della finalità assistenziale dell’ente erogante, poiché il relativo accertamento può essere rimesso al giudice del caso concreto; né osta all’operatività dell’esenzione la natura societaria dell’ente, giacché, alla luce della giurisprudenza unionale, la nozione di “organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo stato membro” non esclude enti privati che perseguano fini di lucro (Cass. 34612/2019).

La Corte ha affermato che “da un lato il D.P.R. n. 633 del 1972, stesso art. 10, comma 1, n. 27-ter, non detta alcun criterio ulteriore che valga a selezionare tra gli “enti aventi finalità di assistenza sociale” quelli che sarebbero riconosciuti come tali ai fini dell’esenzione dall’IVA; dall’altro la giurisprudenza comunitaria (sia pur con riferimento all’art. 13, parte A, lett. b) della predetta Direttiva U.E. n. 77/388/CEE) ha affermato che nessuna disposizione della sesta direttiva richiede che il riconoscimento venga concesso in seguito ad un procedimento formale, né che esso sia espressamente previsto da disposizioni nazionali in materia fiscale (Corte Giustizia, 6 novembre 2003, Dornier, C-45/01), potendo pertanto il relativo accertamento essere rimesso al giudice del caso concreto. Nello stesso senso, peraltro, si è espressa anche questa Corte (Cass., 03/09/2001, n. 11353), sia pur con riferimento all’esenzione prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, comma 1, n. 21, per le prestazioni proprie delle case di riposo per anziani, chiarendo che non costituisce ostacolo alla operatività della norma di esenzione il mancato rilascio delle prescritte autorizzazioni amministrative, atteso che la prestazione del servizio in questione rileva, ai fini fiscali, per il suo carattere oggettivo e perciò prescinde dal previo consenso dell’ente locale all’esercizio della relativa r.g.n. 15884/2012 11 attività”.

Quanto alla incompatibilità tra la natura di società di capitali della contribuente, caratterizzata dal fine ontologico di lucro, e la sua qualificazione, ai fini dell’esenzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, come “ente avente finalità di assistenza sociale”, la Corte ha rilevato che, secondo la giurisprudenza comunitaria, l’art. 13, parte A, n. 1, lett. g) e h), della sesta direttiva 77/388, relativo all’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto delle prestazioni connesse all’assistenza sociale e alla sicurezza sociale e delle prestazioni connesse alla protezione dell’infanzia e della gioventù, deve essere interpretato nel senso che la nozione di “organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo Stato membro interessato” non esclude enti privati che perseguono fini di lucro (Corte Giustizia, 26 maggio 2005, Kingscrest., C-498/03).

Alla luce di tale finalità si deve rammentare che il carattere commerciale di un’attività non esclude, nell’ambito dell’art. 132, paragrafo 1, lett. i), della direttiva IVA, che essa presenti il carattere di un’attività di interesse pubblico (v. sentenze del 3 aprile 2003, Hoffmann, C-144/00, Racc. pag. 1-2921, punto 38, nonché del 26 maggio 2005, Kingscrest Associates e Montecello, C-498/03, Racc. pag. 1-4427, punto 31).Ne’, peraltro, nel D.P.R. n. 633 del 19722, art. 10, comma 1, n. 27 – ter, il legislatore nazionale si è avvalso della facoltà, consentita dall’art. 13, paragrafo 2, della sesta direttiva 77/388, di subordinare, caso per caso, la concessione, ad enti diversi da quelli di diritto pubblico, dell’esenzione previste al paragrafo 1, lett. h), alla condizione che gli enti di cui trattasi non debbano avere per fine la ricerca del profitto.

Nei limiti in cui l’art. 132, paragrafo 1, lett. i), la direttiva IVA non precisa le condizioni o le modalità secondo le quali tali finalità simili possono essere riconosciute; spetta in via di principio al diritto nazionale di ogni Stato membro fissare le norme in base alle quali un siffatto riconoscimento può essere accordato ad organismi di tal genere. Gli Stati membri dispongono al riguardo di un potere discrezionale (v., in tal senso, citate sentenze Kingscrest Associates e Montecello, punti 49 e 51, nonché Zimmermann, C-174/11 punto 26).

Spetta inoltre ai giudici nazionali valutare se gli Stati membri, imponendo simili condizioni, abbiano rispettato i limiti del loro potere discrezionale osservando i principi del diritto dell’Unione, in particolare il principio di parità di trattamento il quale, in materia di IVA, si traduce nel principio di neutralità fiscale (v., in tal senso, citate sentenze Kingscrest Associates e Montecello, punto 52, nonché L.u.P., punto 48).

Il limite alla discrezionalità degli stati è quello di non alterare la concorrenza commerciali ossia la parità di trattamento tra società commerciali.

La CTR ha fatto corretta applicazione della giurisprudenza di questa Corte e di quella Euro comunitaria laddove ha ritenuto che non sussistesse incompatibilità tra la natura di società di capitali della contribuente, caratterizzata dal fine ontologico di lucro, e la sua qualificazione, ai fini dell’esenzione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 27-ter, come “ente avente finalità di assistenza sociale”.

Il Giudice di appello ha richiamato la giurisprudenza comunitaria precisando come l’art. 13, parte A, n. 1, lett. g) e h), della sesta direttiva 77/388, relativo all’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto delle prestazioni connesse all’assistenza sociale e alla sicurezza sociale e delle prestazioni connesse alla protezione dell’infanzia e della gioventù, dev’essere interpretato nel senso che la nozione di “organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo Stato membro interessato” non esclude enti privati che perseguono fini di lucro (Corte Giustizia, 26 maggio 2005, Kingscrest., C-498/03).

La CTR ha osservato che fosse necessario valutare, nel caso concreto se la contribuente avesse le caratteristiche di Ente con “carattere sociale” prevalente, comunque non caratterizzato dalla sistematica ricerca del profitto.

A tal fine ha rilevato come la ***** s.r.l. fosse società: costituita da Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP) in forza del D.Lgs. n. 207 del 2001, art. 6, comma 3; che svolgeva la propria attività (di interesse pubblico) esclusivamente nei confronti delle ASP da cui era stata costituta; che in forza di patti parasociali era obbligata a reinvestire eventuali utili di gestione a vantaggio dell’utenza dei servizi prestati (art. 4 del Patti Parasociali stipulati il 01 dicembre 2006).

In particolare “Quest’ultima caratteristica priva, di fatto la società ricorrente dello scopo di lucro”.

La CTR ha quindi concluso che la società rientrava nella categoria degli “enti aventi finalità di assistenza sociale” di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 27 ter non avendo in oggetto la ricerca sistematica di profitto né lo scopo di lucro.

2.4. Va conseguentemente affermato il seguente principio di diritto: Spetta al legislatore nazionale stabilire i criteri utili ad individuare gli enti con finalità di assistenza sociale la cui conseguente attività rientri nella esclusione da Iva ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, 27 ter.

Il relativo accertamento può essere rimesso al giudice del caso concreto; né osta all’operatività dell’esenzione la natura societaria dell’ente, giacché, alla luce della giurisprudenza unionale, la nozione di “organismi riconosciuti come aventi carattere sociale dallo stato membro” non esclude le società commerciali. Il limite alla discrezionalità degli Stati è quello di non alterare la concorrenza commerciali ossia la parità di trattamento tra società commerciali.

3. Con il terzo motivo l’Ufficio deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18,21,24 e 57 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Lamenta che la CTR non aveva rilevato che la deduzione circa l’esistenza di patti parasociali, secondo i quali i soci non potevano distribuire gli utili conseguiti, era stata formulata irritualmente e il relativo documento prodotto tardivamente.

La censura non è fondata.

I documenti sono stati prodotti nel giudizio di primo grado seppure tardivamente, e quindi in violazione del termine di giorni venti prima dell’udienza ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 32. Tuttavia, nel giudizio di appello il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2 consente la produzione di nuovi documenti, senza i limiti di cui all’art. 345 c.p.c., pure se tali documenti devono essere prodotti sempre venti giorni prima dell’udienza, stante il richiamo dell’art. 61 alle norme del procedimento di primo grado, e, quindi, anche all’art. 32.

Questa Corte ha affermato, in tema di contenzioso tributario, che il documento irritualmente prodotto in primo grado può essere nuovamente prodotto in secondo grado nel rispetto delle modalità di produzione previste dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32 ed in forma analoga nell’art. 87 disp. att. c.p.c.; tuttavia, ove il documento sia inserito nel fascicolo di parte di primo grado e questo sia depositato all’atto della costituzione unitamente al fascicolo di secondo grado, si deve ritenere raggiunta – ancorché le modalità della produzione non corrispondano a quelle previste dalla legge – la finalità di mettere il documento a disposizione della controparte, in modo da consentirle l’esercizio del diritto di difesa, onde l’inosservanza delle modalità di produzione documentale deve ritenersi sanata (Cass. Civ., 15 ottobre 2010, n. 21309; Cass. Civ., 30 novembre 2011, n. 24398); tanto in virtù del fatto che nel processo tributario i fascicoli sono inseriti in modo definitivo nel fascicolo d’ufficio sino al passaggio in giudicato della sentenza, sicché la documentazione ivi inserita entra automaticamente e “ritualmente” nel giudizio di impugnazione (Cass. 5429/2018).

4. Con il quarto motivo deduce omesso esame di punti di fatto decisivi, discussi tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 Lamenta che la CTR non aveva esaminato la questione in base alla quale, contrariamente a quanto affermato nei patti parasociali, era prevista la possibilità di distribuire gli utili.

La censura è inammissibile.

I patti parasociali non sono stati trascritti dalla ricorrente, sicché la censura difetta di autosufficienza.

In ogni caso, la CTR ha accertato che in forza dei patti parasociali la società era obbligata a reinvestire eventuali utili di gestione a vantaggio dell’utenza dei servizi prestati, evidenziando che i soci della società erano gli stessi organismi pubblici (ASP) vincolati per legge e Statuto a finalizzare la propria attività istituzionale all’interesse pubblico e alla fornitura di servizi alle persone e ciò anche tramite la costituzione, prevista dal legislatore Italiano, di società di capitali aventi lo scopo di fornire servizi strumentali alla realizzazione del fine pubblico.

La CTR ha, inoltre, evidenziato che i soci costituenti (soggetti pubblici) hanno vincolato, anche sotto il profilo negoziale e con l’inserimento dei patti parasociali, l’attività della società e la destinazione di eventuali utili alla realizzazione dell’interesse pubblico.

Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

In considerazione della novità della questione trattata in relazione alla quale questa Corte si è pronunciata solo di recente le spese del giudizio devono essere compensate.

Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2012, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

Rigetta il ricorso.

Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 agosto 2021

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