LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13509-2017 proposto da:
G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO, 101, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BAURO, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO RUSSO;
– ricorrenti –
contro
P.A.P., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4, presso lo studio dell’avvocato FEDERICA SCAFARELLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GUGLIELMO D’ANNA;
GI.AN., rappresentato e difeso dall’avv. Giunta Francesco, in virtù di mandato in calce al controricorso;
– controricorrenti –
I.P., I.F.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 217/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 15/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/03/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE TEDESCO.
FATTI DI CAUSA
La presente causa riguarda la controversia Era gli eredi legittimi di Gi.An., deceduto l'*****.
Uno degli eredi, G.A., è sottoposto a processo penale per violazione di sigilli e furto di certificati di deposito dalla casa del defunto. E’ assolto perché il giudice penale ha negato il furto, riconoscendo quindi che egli fosse nel possesso dei beni legittimamente, a seguito di consegna da parte del defunto.
Alcuni dei coeredi hanno chiamato in giudizio dinanzi al Tribunale di Barcellona Pozza di Gotto (ME) G.A., accampando pretese in relazione ai suddetti titoli. La domanda è stata dichiarata inammissibile, avendo il primo giudice riconosciuto che essa, in quanto volta a fare accertare l’illegittimo possesso dei titoli da parte del convenuto, riguardava fatti coperti dal giudicato penale di assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste. Il Tribunale, inoltre, ha riconosciuto la validità del negozio sotteso al possesso dei titoli da parte del convenuto, qualificato donazione indiretta non soggetta al requisito di forma della donazione diretta.
La Corte d’appello di Messina, adita dagli originari attori soccombenti, ha riconosciuto che il giudicato penale di assoluzione non impediva ai coeredi di far valere la nullità del negozio, in base al quale il convenuto aveva conseguito il possesso dei certificati, per difetto della forma richiesta per la donazione. Il negozio, infatti, costituiva donazione diretta e non donazione indiretta, come invece riconosciuto dal primo giudice.
Per la cassazione della sentenza G.A. ha proposto ricorso affidato a tre motivi. Con il primo motivo, proposto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 652 e 654 c.p.p. Egli si duole perché la Corte d’appello non ha tratto le debite implicazioni dall’assoluzione dai reati ascrittigli, posto che il giudice penale aveva implicitamente rigettato la domanda di restituzione e risarcimento proposta dalle parti civili, poi attori nel presente giudizio. Il secondo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 769 c.c. e segg. con riguardo al mancato riconoscimento della donazione indiretta, e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 Si sostiene che il possesso dei certificati, trattandosi di titoli al portatore, era giustificato dalla consegna operata dal de cuius, accertata in sede penale. La Corte d’appello, inoltre, ha omesso di considerare che i certificati gli furono dati dal defunto in modo da consentirgli di pagare debiti propri e non debiti del donante, come erroneamente ritenuto dal Tribunale.
Con il terzo motivo si chiede la cassazione della sentenza sul punto della condanna alle spese, palesandosi la medesima condanna ingiusta in considerazione della fondatezza dei precedenti motivi di ricorso.
P.A.P., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso. Ha resistito con distinto controricorso Gi.An.. I.P., I.F., P.A.M. sono rimasti intimati. Gi.An. ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo è infondato. L’art. 652 c.p.p. vigente dispone che “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste (…) nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato L.) che (…) si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile (…)”.
In relazione a tale norma si precisa che l’assoluzione dell’incolpato nel giudizio penale con la formula “il fatto non sussiste” non esonera il giudice civile davanti al quale sia stata proposta l’azione per il risarcimento dei danni, dal riesame dei fatti emersi nel procedimento penale ai fini propri del giudizio civile” quando il titolo della responsabilità civile sia diverso da quello della responsabilità penale (Cass. n. 1678/1999: n. 9508/2007; n. 24862/2010).
A sua volta l’art. 654 c.p.p. dispone che “nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”.
Costituisce principio acquisito quello secondo cui, anche in caso di intervenuta costituzione di parte civile, l’efficacia vincolante della sentenza penale nel processo civile, a norma dell’art. 654 c.p.p., riguarda esclusivamente l’accertamento (positivo o negativo) in ordine ai fatti oggetto di quel giudizio: “l’efficacia di giudicato, nel giudizio civile, della sentenza penale irrevocabile, di assoluzione o di condanna, emessa a seguito di dibattimento, è limitata alla controversia su un diritto il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali – condotta, evento e nesso di causalità – oggetto del giudizio penale, con esclusione della colpevolezza e delle questioni concernenti la qualificazione giuridica dei rapporti controversi, il cui esame è autonomamente demandato al giudice civile” (Cass. n. 10709/1998; n. 10019/1999; n. 11283/1999; n. 8716/2002).
2. Nel caso in esame, è pacifico che il giudice penale ha assolto l’attuale ricorrente, con la formula perché il fatto non sussiste, avendo accertato che i certificati di deposito, già appartenuti al de cuizis, erano nel possesso dell’imputato non in seguito alla loro illecita sottrazione avvenuta dopo la morte, ma a seguito di consegna già operata in vita dal titolare.
Gli eredi, nel giudizio civile, hanno chiesto la restituzione dei certificati, facendo valere la nullità del titolo in forza del quale era avvenuta la consegna. E’ evidente, quindi, che domanda non era avanzata dagli eredi in relazione al titolo di responsabilità fatto valere in sede penale, ma per un diverso titolo, costituito dalla nullità del negozio in base al quale è avvenuta la traditio da parte del defunto.
A un attento esame, tale rilievo porta, per ciò solo, a disconoscere l’efficacia di giudicato della sentenza penale eli assoluzione non solo ai sensi dell’art. 652 c.p.p., ma anche in relazione all’art. 654 c.p.c., non essendoci identità fra i fatti accertati e rilevanti ai fini della decisione penale e quelli dai quali dipende il riconoscimento del diritto in sede civile. In sede penale il fatto accertato è che non ci fu sottrazione illecita, ma investitura nel possesso da parte del titolare. In sede civile, ferma l’investitura del possesso dei certificati da parte del defunto, gli eredi hanno fatto valere la nullità del titolo in base al quale l’investitura era avvenuta, proponendo un’azione che già spettava al de cuius e trasmessasi mortis causa.
E’ appena il caso di aggiungere, giusti i principi sopra richiamati, che fatti materiali, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., sono gli accadimenti concreti della realtà materiale, depurati da ogni apprezzamento, valutazione e qualificazione giuridica. Sotto questo profilo si deve ancora una volta ribadire che l’accertamento, operato in sede penale con sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, che i certificati di deposito, già appartenenti a persona defunta, erano nel possesso dell’imputato non in seguito a una illecita sottrazione avvenuta dopo la morte del titolare, ma in seguito di consegna avvenuta prima della morte, non preclude agli eredi di pretenderne la restituzione accampando la nullità del titolo in forza del quale era avvenuta la traditio.
2. Il secondo motivo è infondato. Ex art. 2003 c.c. “il trasferimento del titolo al portatore si opera con la consegna del titolo. Il possessore del titolo al portatore è legittimato all’esercizio del diritto in esso menzionato in base alla presentazione del titolo”.
La traditio del titolo al portatore legittima il possessore del titolo stesso all’esercizio del diritto in esso menzionato; ma, nei diretti rapporti interni fra il tradens e l’accipiens, l’appartenenza della titolarità del diritto è condizionata alla validità del rapporto sottostante tra essi intercorso. (Cass. n. 527/1973). Da ciò deriva che per identificare la causa del trasferimento bisogna risalire al negozio in base al quale è avvenuta la consegna. Se il trasferimento avviene donationis causa, nel rapporto base si realizza la figura della donazione diretta e non della donazione indiretta. Infatti, la donazione indiretta, concepita come mezzo per conseguire, attraverso l’utilizzazione di un negozio con causa tipica, un risultato pratico da questo divergente, non è configurabile rispetto ai titoli di credito astratti, suscettibili di realizzare in modo diretto qualsiasi scopo voluto dalle parti (Cass. n. 527/1973). Pertanto, esclusa la figura della donazione indiretta, si realizza nel rapporto base, quella della donazione diretta, con il conseguente assoggettamento del negozio alla disciplina propria della donazione, venendo anzitutto in considerazione la necessità del requisito della forma.
In materia le Sezioni Unite di questa Corte hanno recentemente stabilito il seguente principio: “In tema di atti di liberalità, il trasferimento, attraverso un ordine di bancogiro del disponente, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta, soggetta alla forma dell’atto pubblico, salvo che sia di modico valore, poiché realizzato non tramite un’operazione triangolare di intermediazione giuridica, ma mediante un’intermediazione gestoria dell’ente creditizio. Infatti, l’operazione bancaria tra il donante ed il donatario costituisce mero adempimento di un distinto accordo negoziale fra loro concluso e ad essa rimasto esterno, il quale solo realizza il passaggio immediato di valori da un patrimonio all’altro, e tale circostanza esclude la configurabilità di un contratto in favore di terzo, considerato che il patrimonio della banca rappresenta una “zona di transito” tra l’ordinante ed il destinatario, non direttamente coinvolta nel processo attributivo, e che il beneficiario non acquista alcun diritto verso l’istituto di credito in seguito al contratto intercorso fra quest’ultimo e l’ordinante” (Cass. S.U., n. 18725/2017).
In ordine ai certificati di deposito al portatore, questa Corte ha precisato che, in applicazione delle disposizioni generali dettate dal codice civile, la legittimazione ad esercitare il diritto alla prestazione in esso indicata (art. 1992 c.c.) e’, come per ogni titolo di credito al portatore, in capo al suo possessore e deriva dalla presentazione dello stesso (art. 2003 c.c.), Il trasferimento, pertanto, si perfeziona con la consegna del titolo e produce l’effetto di costituire, in capo all’accipiens, la legittimazione a riscuotere le somme relative. Ne consegue che non incombe sul possessore la prova circa il processo acquisitivo del titolo, spettando alla controparte dimostrare l’esistenza di una valida ragione giustificante la propria pretesa restitutoria (Cass. n. 19329/2013; n. 18435/2003; conf., con riferimento al libretto al portatore, Cass. n. 22328/2007).
Come per qualsiasi titolo di credito, anche nei certificati di deposito al portatore, si dovrà distinguere il rapporto fra il possessore e la banca emittente, la quale non potrà opporre al primo il difetto di forma della donazione, perché l’eccezione riguarda un rapporto diverso da quello cartolare e non risulta dal contesto del titolo (art. 1993 c.c.) ed il rapporto fra il tradens ed il possessore, nel quale il difetto di forma può essere fatto valere mediante azione di restituzione della somma che il possessore ha riscosso dalla banca. E’ superfluo aggiungere che l’azione si trasmette mortis causa agli eredi del tradens.
Si deve fare salva l’ipotesi che, in relazione alla modicità del valore, il titolo non possa formare oggetto di donazione manuale La Corte d’appello ha motivatamente escluso tale ipotesi e la relativa statuizione non ha costituito oggetto di censura. Non ha costituito oggetto di censura neanche la statuizione con la quale la stessa Corte d’appello ha escluso che ricorressero nella specie “i caratteri della liberalità d’uso”.
Per completezza di esame si rileva che le relative nozioni sono usate correttamente dalla Corte d’appello: cfr. Cass. n. 15344/2018 quanto alla liberalità d’uso e Cass. n. 3858/2000 quanto alle donazioni di modico valore.
3. Il ricorrente, con il secondo motivo in esame, si duole inoltre perché la Corte d’appello non avrebbe compreso che i certificati non furono consegnati dal defunto per pagare debiti del donante, ma per coprire debiti propri del donatario.
Siffatto intento del donante non solo conferma la causa liberale del trasferimento, ma non contraddice minimamente l’esigenza, rilevata dalla Corte d’appello, del requisito formale.
Si ha donazione indiretta, infatti, quando l’intento di liberalità è raggiunto attraverso l’utilizzazione strumentale di un negozio diverso da quello previsto dall’art. 769 c.c., che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio, l’effetto indiretto dell’arricchimento senza corrispettivo animo donandi, del destinatario della liberalità (Cass. n. 13337/2006; n. 5410/1989; n. 3147/1980; n. 3526/1976).
In applicazione di tale regola al caso di specie è facile rilevare che la liberalità, seppure giustificata dalla finalità di consentire al donatario di pagare debiti suoi personali, era pur sempre realizzata direttamente tramite la traditio dei certificati, non in via indiretta mediante l’utilizzazione di un negozio oneroso diverso e avente una propria causa.
In definitiva, tirando le fila del discorso, la decisione impugnata, nella parte in cui i giudici d’appello hanno riconosciuto che la traditio dei certificati di deposito, in quanto avvenuta donandi causa, richiedeva la forma della donazione, è in tutto e per tutto coerente con i principi di cui sopra.
4. Il terzo motivo è inammissibile. Con esso non si rivolge alcuna censura contro la liquidazione delle spese, denunciandosene piuttosto l’ingiustizia in conseguenza dell’auspicato accoglimento del ricorso, ipotesi che non si è invece verificata.
5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con addebito delle spese del presente giudizio.
Ci sono le condizioni per dare atto D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto”.
PQM
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida, sia quanto ai controricorrenti difesi dall’avv. Guglielmo D’Anna, sia quanto a Gi.An., nell’identico importo di Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro, 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di cassazione, il 3 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2021