Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.23180 del 20/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25248-2018 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

LA TERNA RETE ELETTRICA NAZIONALE SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA SCROFA 57, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE RUSSO CORVACE, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LAURA TRIMARCHI e MARCO EMMA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 860/2018 della COMM. TRIB. REG. LAZIO, depositata il 13/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 31/05/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. ALBERTO CARDINO che ha chiesto il rigetto del ricorso.

RITENUTO

Che:

1. Con atto dell’11 febbraio 2011, la società TERNA s.p.a. – Rete elettrica nazionale – stipulava contratto di affitto di un compendio immobiliare sito nel comune di Brindisi riqualificato dall’agenzia delle entrate ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come contratto di concessione del diritto di superficie per la costruzione di un impianto fotovoltaico.

Avverso l’avviso di liquidazione proponeva ricorso la società predetta.

La CTP di Roma accoglieva il ricorso. Proposto appello dall’Agenzia delle Entrate, la CTR del Lazio lo respingeva, interpretando l’atto negoziale come contratto di affitto del compendio, alla luce della clausole negoziali comprensive del diritto di recesso della società Terna, della necessità del consenso dell’ente per l’eventuale cessione del contratto, della previsione del pagamento di un canone mensile e della previsione della risoluzione in ipotesi di inadempimento contrattuale, nonché dell’obbligo di manutenzione a carico della società Rei rinnovabili, tutte Compatibili con la natura obbligatoria del contratto di affitto stipulato; mentre l’acquisizione dello ius aedificandi e l’acquisizione degli impianti alla cessazione del rapporto non risulterebbe idonea, a detta dei giudici regionali, ad individuare in modo univoco la natura di concessione del diritto di superficie.

Avverso la sentenza n. 860/2018, depositata il 13 febbraio 2018, della CTR del Lazio, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo.

La società Terna resiste in giudizio con controricorso e memorie difensive.

Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO

che:

2. In via preliminare, deve escludersi la preclusione del dedotto giudicato in quanto non si evince dalle decisioni allegate se i contratti qualificati come convenzioni di affitto dalla CTR siano i medesimi valutati dalla sentenza impugnata ovvero abbiano il medesimo contenuto di quello oggetto di causa.

Con un unico articolato motivo, si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, nonché degli artt. 952,953,1322,1571,1576,1587,1590 e 1615 c.c.; per avere il decidente escluso la sussistenza del contratto di concessione del diritto di superficie pur avendo evidenziato che il contratto concluso produceva gli effetti propri di detto negozio.

In particolare, afferma l’Agenzia delle Entrate che il contratto di affitto si caratterizza in quanto consente il godimento di un bene mobile o immobile dietro corrispettivo senza consentire la trasformazione radicale del bene locato ad opera del conduttore, il quale deve utilizzare il bene secondo la destinazione economica attribuita dal proprietario del bene. Al contrario, nella specie, il contratto consente la trasformazione del bene e la realizzazione di impianti fotovoltaici, che normalmente si realizza attraverso la concessione dello jus aedificandi, caratterizzato, come in questo caso, dalla traslazione della proprietà dei manufatti realizzati sul suolo altrui con accessione della proprietà della costruzione al terreno ex art. 953 c.c.; mentre nel contratto di affitto sussiste l’obbligo di rimuovere le addizioni eseguite dal conduttore salva la possibilità per il proprietario locatore di trattenerli accordando al conduttore un indennizzo.

3. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente precisato che la questione di incostituzionalità sollevata con ordinanza n. 23549 del 02.07.2019 in merito all’art. 20 TUR, non incide sulla fattispecie in esame, per la quale non è in contestazione il collegamento con altri elementi extratestuali e degli atti collegati dall’opera di qualificazione negoziale (oggetto del giudizio di costituzionalità) ma esclusivamente l’indagine sulla corretta interpretazione di atto negoziale.

2.1. Questa Corte ha in argomento affermato che, in tema di imposte di registro, ipotecaria e catastale, in applicazione della regola interpretativa di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, che consente all’Ufficio di dare una qualificazione oggettiva dell’atto o degli atti soggetti a registrazione, secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva mente considerata, che In terna d’imposta di registro, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, l’Amministrazione finanziaria, pur non essendo tenuta a conformarsi alla qualificazione attribuita dalle parti al contratto, non può travalicare lo schema negoziale tipico in cui l’atto risulta inquadrabile, salva la prova, da parte sua, sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione ed alterazione degli schemi negoziali classici. (Cass. n. 722 del 15/01/2019).

E’ stato altresì statuito che il criterio fissato dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, impone di privilegiare l’intrinseca natura e gli effetti giuridici, rispetto al titolo e alla forma apparente degli stessi, con la conseguenza che i concetti privatistici relativi all’autonomia negoziale regrediscono, di fronte alle esigenze antielusive poste dalla norma, a semplici elementi della fattispecie tributaria, per ricostruire la quale dovrà, dunque, darsi preminenza alla causa dei negozi giuridici (cfr. Cass. n. 23584/12, n. 6835/13, n. 17965/13, n. 3481/14). Va, però, nel contempo evidenziato che, quando si ponga la questione relativa alla interpretazione dell’atto soggetto a tassazione per evidenziarne l’intrinseca natura, il giudice tributario è tenuto a considerare le deduzioni difensive sul punto, maggiormente, se suffragate da specifica documentazione, motivandone la eventuale non decisività, ma non può certo non tenerne conto, venendo meno, così, all’obbligo motivazionale (Cass. n. 2048/2017).

Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte è da tempo orientata nel senso di escludere che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell’abuso del diritto” – disciplinato oggi dalla L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015 – presuppone una mancanza di “causa economica” che non è viceversa prevista per l’applicazione dell’art. 20 cit., disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio (Cass. n. 7317/2018).

Nel caso de quo il giudice di merito, cui spetta la qualificazione dei negozi giuridici, ha sul punto analizzato le motivazioni dell’Ufficio, escludendone la rilevanza nella fattispecie, e congruamente motivando sulla irrilevanza degli elementi su cui l’Ufficio aveva fondato la diversa valutazione (cfr. Cass. 722/2019; Cass. 6790/2020). Come è noto, la qualificazione del contratto consta di due fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano la esistenza giuridica (tra le tante: Cass. 16 giugno 1997, n. 5387; Cass. 25 gennaio 2001, n. 1054; Cass. 3 novembre 2004, n. 21064, Cass. 12 gennaio 2006, n. 420; n. 29111/2017; n. 9996/2019).

Mentre le operazioni ermeneutiche attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell’attività tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è in termini generali sindacabile in sede di legittimità (salvo che per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.), la seconda, concernente l’inquadramento della comune volontà, come appurata, nello schema legale corrispondente, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (Cass. 12 gennaio 2006, n. 420 cit.; cfr. pure, in tema, le altre sentenze citate in precedenza).

Sennonché, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali.” (Cass. 15/11/2017, n. 27136); “non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poiché quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 28/11/2017, n. 28319).

Nel caso di specie, la formulazione del motivo non è in linea con tali requisiti di ammissibilità, anche in considerazione del fatto che il ricorso contiene la trascrizione degli artt. 6 e 12 prescindendo dal tenore letterale delle altre clausole contrattuali.

Contrariamente a quanto dedotto nel superiore motivo, non sono state violate le norme sulla interpretazione dei contratti. La CTR infatti, sulla base delle clausole valorizzate dall’Ufficio per affermare l’esistenza della concessione di un diritto superficiario ha escluso una qualsiasi volontà di costituire un diritto reale, risultando invece chiaro, da una serie di elementi evincibili dal contenuto della convenzione (termine, proroghe ecc.), che è stato stipulato un atto a contenuto negoziale sulla base di una serie di elementi che costituiscono indice univoco della presenza di un accordo a contenuto negoziale e non della costituzione di un diritto reale di uso, tanto più – afferma il decidente – che, essendo il terreno asservito all’utilità dell’interesse pubblico della rete Elettrica nazionale, non avrebbe potuto concedere un diritto di superficie.

Il decidente ha rilevato che milita a favore del diverso inquadramento giuridico l’obbligo del corrispettivo costituito da un canone periodico; la possibilità di considerare il trasferimento degli impianti alla scadenza del contratto in considerazione dell’obsolescenza degli stessi, comprendendo il valore residuo nell’ammontare del canone pattuito.

Non sono state pertanto applicate in modo errato le norme di interpretazione contrattuale, sulla base dei principi di questa Corte secondo cui la differenza, dal punto di vista sostanziale e contenutistico, tra il diritto reale d’uso e il diritto personale di godimento è costituita, dall’ampiezza ed illimitatezza del primo, in conformità al canone della tipicità dei diritti reali, rispetto alla multiforme possibilità di atteggiarsi del secondo che, in ragione del suo carattere obbligatorio, può essere diversamente regolato dalle parti nei suoi aspetti di sostanza e di contenuto (Cass. n. 5034/2008; n. 7811/2006).

Ciò premesso, dunque, quella di stabilire se un determinato atto abbia ad oggetto la costituzione di un diritto di superficie ovvero una locazione (o altro atto a contenuto meramente obbligatorio) rappresenta una questione interpretativa, la cui soluzione richiede una valutazione analitica del complesso delle clausole e delle condizioni contrattuali da svolgersi sulla base dei canoni ermeneutici stabiliti dagli artt. 1362 e ss. c.c. (in tal senso si è espressa anche questa Corte (sentenza 11 febbraio 1998, n. 1392), la quale – nel constatare che “la concessione ad aedificandum, stante l’autonomia contrattuale delle parti, riconosciuta dall’art. 1322 c.c., non sempre e necessariamente si concreta in un diritto reale di superficie, ai sensi dell’art. 952 c.c., potendo in taluni casi assumere i caratteri e i contenuti di un diritto personale efficace nei soli confronti del concedente, trovando la sua fonte e disciplina in un contratto (atipico) con effetti meramente obbligatori, non soggetto a rigori di forma o di pubblicità” e che “la riconduzione della fattispecie concreta a tale configurazione giuridica costituisce indubbiamente una quaestio facti, la cui valutazione è riservata esclusivamente al giudice di merito”. Ad avviso dell’amministrazione finanziaria, il diritto di superficie risulterebbe: 1) – dalla previsione dell’onere per il concessionario delle opere di manutenzione sugli impianti, della custodia e conservazione del terreno, la devoluzione degli impianti al proprietario nell’ipotesi di scioglimento anticipato, il trasferimento della titolarità degli impianti al termine del contratto, clausole tipiche del contratto di superficie e non del contratto di locazione. La previsione delle predette clausole rappresenterebbe la riprova (conformemente a quanto disposto dall’art. 952 c.c., comma 1, laddove stabilisce, quale possibile deroga al principio affermato dall’art. 934 c.c., che “il proprietario può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà”) che è stato costituito, in favore della Società concessionaria, uno jus aedificandi e che la costruzione, autorizzata, delle opere ha determinato l’acquisto della proprietà delle stesse in capo alla Società. Tuttavia, in base ad un consolidato orientamento, al fine di stabilire se una concessione ad aedificandum sia costitutiva di diritti di natura reale o meramente obbligatoria, è decisiva l’interpretazione complessiva – attribuita al giudice del merito, trattandosi di apprezzamenti di fatto – del “titolo”, e cioè del contratto, e, in particolare, della disciplina relativa alla sorte delle opere costruite dal concessionario al momento della cessazione del rapporto concessorio (cfr., ex pluribus, sentt. nn. 2318 del 1959, 3497 del 1972, 3721 del 1974, 4039 del 1977, 5591 del 1978, 5527 del 1983).

La Corte, conclusivamente rigetta il ricorso.

L’assenza di una consolidata giurisprudenza sulle questioni esaminate impone la compensazione delle spese di lite.

PQM

Rigetta il ricorso;

Compensa le spese tra le parti.

Così deciso in Roma, nell’adunanza plenaria della V sezione della Corte di cassazione tenuta da remoto, il 31 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021

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