LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. CASANDONTE Annamaria – rel. Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 4343-2019 proposto da:
L.M., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Mazzini, 112, presso lo studio dell’avvocato Antonio Colucci, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Andrea Cechini;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA SALUTE, *****, ope legis domiciliato in Roma via dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
COMMISSIONE CENTRALE ESERCENTI PROFESSIONI SANITARIE, PROCURATORE PRESSO TRIB GENOVA, PROCURATORE GEN PRESSO CA GENOVA, PREFETTO DI GENOVA, ORD PROV. MEDICI e CHIR. PROV. GENOVA;
– intimati –
avverso il provvedimento n. 26/2018 della Comm.Centr.Eserc.Professioni Sanitarie Di Roma, depositata il 15/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2020 dal Consigliere Dott. Annamaria Casadonte.
RILEVATO
Che:
– il Dott. M.L. è stato condannato con sentenza n. 3800 del Tribunale di Genova del 13 ottobre 2011 alla pena di anni 3 di reclusione e Euro 1200 di multa per i reati di cui all’art. 340 c.p. e art. 640 c.p., comma 2, con interdizione dai pubblici uffici per anni 5, reati commessi in ***** fino al ***** e consistiti nella ripetuta interruzione del Servizio di guardia medica, e cionostante attestando falsamente la presenza in servizio e percependone i relativi compensi; i fatti erano stati accertati nel periodo dal marzo al giugno 2009;
– con altra sentenza n. 266 del 2012 del Tribunale di Genova egli è stato condannato alla pena di anni tre di reclusione ed alla multa di Euro 1250,00 per reati accertati rispettivamente nell’aprile 2009 e commesso il 29 maggio e consistiti nell’aver eseguito abusivamente interventi di chirurgia mastoplastica in assenza della prevista specializzazione e nell’avere attestato falsamente la presenza in servizio di guardia medica mentre in realtà si trovava in abitazione private, percependo comunque il compenso per l’effettuazione del turno di guardia medica;
– avverso la sentenza del Tribunale di Genova n. 3800/2001 egli proponeva gravame e la Corte d’appello di Genova con la sentenza n. 2941 del 2014, emessa il 30 settembre 2014, confermava la sentenza impugnata;
– con successiva sentenza n. 34.773 emessa dalla Corte di cassazione il 17 giugno 2016 veniva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Dott. L. contro la sentenza d’appello n. 2941 e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali;
– a seguito della irrevocabilità della sentenza di condanna per i reati commessi sino al *****, la Commissione provinciale per iscritti all’albo dei medici chirurghi riavviava il procedimento disciplinare instaurato nei suoi confronti e sospeso in attesa della sentenza definitiva da parte dell’autorità giudiziaria;
-detto procedimento si concludeva con la decisione in data 29/11/2016 che ne affermava la colpevolezza per la ritenuta violazione degli artt. 2 e 68 del codice deontologico ed irrogava la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo a norma del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 40;
– avverso la deliberazione della Commissione provinciale il medico ha proposto ricorso alla Commissione centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie deducendo la duplicazione della contestazione avente ad oggetto i medesimi fatti (ne bis in idem) in quanto i fatti oggetto del procedimento penale per il quale è stato avviato il procedimento disciplinare conclusosi con la sanzione qui contestata sono i medesimi già oggetto di altro procedimento penale e di altro procedimento disciplinare; inoltre, egli contestava il difetto di motivazione in ordine alla sanzione più grave inflitta e, ancora, eccepiva l’eccessiva gravità della sanzione disciplinare inflitta;
– la Commissione centrale confermava la delibera della Commissione provinciale escludendo la sussistenza della prospettata duplicazione; ravvisava, inoltre, l’adeguatezza della motivazione del provvedimento disciplinare così come la congruità della sanzione in relazione alla gravità del comportamento tenuto;
– la cassazione della decisione n. 26 del 2018 della Commissione centrale è chiesta dal medico con ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso il Ministero della salute;
– non hanno svolto attività difensiva gli altri intimati; considerato che:
– con il primo motivo si deduce, la violazione del D.Lgs.C.P.S. n. 233 del 1946, art. 17 in relazione all’illegittima composizione dell’organo giudicante nella seduta del 15 marzo 2018, con conseguente nullità derivante dalla costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 c.p.c.;
– assume il ricorrente che la decisione era stata assunta dalla Commissione composta senza la partecipazione del componente del Consiglio Superiore di Sanità ed in numero pari di componenti in violazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 65, che prevede implicitamente che la decisione debba essere assunta dal collegio formato da un numero dispari di commissari;
– la censura è infondata con riguardo ad entrambi i profili;
– la composizione della Commissione Centrale è disciplinata dal D.Lgs.C.P.S. n. 233 del 1946, art. 17, che, per quanto di interesse, prevede al comma 1 che “Presso l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica è costituita, per i professionisti di cui al presente decreto, una Commissione centrale, nominata con decreto del Capo dello Stato, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia, presieduta da un consigliere di Stato e costituita da un membro del Consiglio superiore di sanità e da un funzionario dell’Amministrazione civile dell’interno di grado non inferiore al 6”;
– il D.Lgs. n. 233 del 1946, art. 17, comma 7 dispone che per la validità di ogni seduta occorre la presenza di non meno di cinque membri della Commissione, compreso il presidente; almeno tre dei membri devono appartenere alla stessa categoria alla quale appartiene il sanitario di cui è in esame la pratica.
– dal tenore letterale dell’art. 17 cit. non si evince, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, che ai fini della validità delle decisioni adottate dalla Commissione sia necessario il componente del Consiglio Superiore di sanità, dovendo invece ritenersi imprescindibile la presenza del presidente e degli altri membri come indicata nel comma 7 dell’art. 17 cit.;
-né il riferimento al punto 6.6. della sentenza del Consiglio di Staton. 769/2018 fornisce un argomento a favore della imprescindibilità della presenza del componente del Consiglio superiore di Sanità ai fini della validità delle sedute della Commissione Centrale, limitandosi a ribadire che detto componente debba essere individuato fra coloro che non sono soggetti al potere disciplinare del Ministero della Salute al fine di assicurare le necessarie garanzie di imparzialità ed indipendenza nell’esercizio delle funzioni di componente della Commissione centrale evidenziate dalla sentenza n. 215 del 2016 della Corte costituzionale;
– parimenti infondato è il profilo di censura relativo al numero pari anziché dispari del collegio giudicante;
– il testo del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 65 prevede “Le decisioni della Commissione sono adottate a maggioranza; in caso di parità prevale il voto del presidente, che vota per ultimo, dopo aver raccolto i voti dei componenti”;
– dal tenore letterale della citata previsione si deduce la possibilità di una situazione di parità che viene risolta attribuendo prevalenza al voto del presidente;
– ebbene tale possibilità costituisce un chiaro argomento a favore della tesi della legittimità della composizione di sei membri giudicanti, con cui è stata adottata la decisione qui impugnata che appare conforme sia alla previsione dell’art. 17, comma 7 che a quella del comma 9 D.Lgs. n. 233 del 1946, che prevede il numero minimo di 18 per l’adunanza plenaria, sia al D.P.R. n. 221 del 1950, art. 65 che altrimenti non avrebbe senso là dove contempla la possibilità di una posizione di parità al suo interno, posizione non ipotizzabile in un collegio giudicante composto da un numero dispari di componenti;
– con il secondo motivo si deduce la violazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 38 e art. 649 c.p.p. in relazione al principio generale del ne bis in idem con conseguente improcedibilità dell’azione disciplinare in relazione all’esercizio della medesima nel diverso procedimento aperto in data 3 e 4 febbraio 2016;
– la denuncia è fondata nei sensi di seguito precisati;
– va preliminarmente richiamato il principio affermato da questa Corte secondo cui in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti, in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti ò dell’uomo in relazione al principio del ne bis in idem, – secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale (cfr. Cass. 2927/2017);
– è stato pure affermato da questa Corte che il principio del ne bis in idem (secondo cui una volta esercitato validamente il potere disciplinare in relazione a determinati fatti, non si può esercitarlo una seconda volta per gli stessi fatti) non trova applicazione ove il nuovo esercizio del potere suddetto riguardi fatti che, sebbene della stessa indole di quelli che abbiano già formato oggetto di un precedente procedimento, siano tuttavia diversi per le particolari circostanze di tempo e di luogo che li distinguono e, come tali, siano stati contestati nella loro specificità (cfr. Cass. sez. L. 3889/1989; id. 3871/86; id. 2519/1985);
– ciò posto, nel caso di specie a fronte della dedotta duplicazione del procedimento disciplinare sul medesimo fatto, la decisione assunta dalla Commissione centrale si fonda sul generico richiamo a un diverso procedimento penale vertente su fatti verificatisi in momenti diversi rispetto a quelli ivi contestati, e chiaramente evincibili per tabulas dall’esame degli atti dei giudizi penali acquisiti in ambedue i procedimenti disciplinari;
– la decisione così motivata si pone in contrato con la necessità di spiegare chiaramente il rispetto dell’invocato principio, definendo i fatti oggetto del primo procedimento disciplinare concluso con la decisione n. 29 del 2018 della Commissione Centrale e quelli oggetto del secondo procedimento disciplinare concluso con la decisione n. 26 del 2018 sempre della Commissione Centrale e riguardante la ripetuta condotta di interruzione dei turni di servizio di Guardia medica sottraendosi allo stesso ed al contempo falsamente attestando la presenza e percependo i relativi compensi, nel periodo dall’11/10/2008 fino al 28/6/2009;
– in tale ultimo intervallo temporale è astrattamente ricompresa anche l’accertata sottrazione al turno di Guardia medica commesso dal Dott. L. nella notte fra il *****, asseritamente oggetto del primo procedimento disciplinare; poiché, come rilevato dallo stesso ricorrente il fatto in questione è esplicitamente richiamato nella premessa della decisione impugnata, reputa il collegio che l’esercizio del potere disciplinare comporta l’esatta definizione del perimetro dei fatti oggetto di sanzione per legittimamente escludere la violazione del principio del ne bis in idem, non potendo, viceversa, ritenersi esauriente il richiamo generico all’evidenza documentale degli atti del procedimento;
– nel caso di specie, vanno, quindi esplicitamente ricostruiti i fatti oggetto dei distinti procedimenti disciplinari, al fine di escludere che con il secondo si rivaluti un fatto già oggetto di precedente procedimento disciplinare, tenendo altresì presente che l’avvenuto esercizio dell’azione disciplinare, ancorché il relativo procedimento si sia chiuso senza l’adozione di alcuna sanzione, preclude la riproponibilità della medesima azione (ormai consumata) anche ai fini dell’adozione di misure più gravi di quelle prospettate in precedenza (cfr. Cass. 565/1992);
– il motivo va, dunque, accolto e la decisione impugnata cassata con rinvio alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie, in diversa composizione (principio chiaramente affermato in Cass.1618/2020), che rivaluterà l’impugnazione del Dott. L. alla luce dei sopra richiamati principi di diritto e provvederà altresì alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo nei sensi di cui in motivazione, rigetta il primo motivo, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021