LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23017/2020 R.G. proposto da:
O.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Vittorio Manfio, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 389/20, depositata il 6 febbraio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 6 febbraio 2020, la Corte d’appello di Venezia ha dichiarato inammissibile, in quanto tardivo, il gravame interposto da O.L., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa il 6 luglio 2018 dal Tribunale di Venezia, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e, in subordine, della protezione sussidiaria o di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposta dall’appellante.
Premesso che l’ordinanza impugnata era stata comunicata al difensore dell’ O. il 17 luglio 2018, la Corte ha rigettato l’istanza di rimessione in termini proposta dall’appellante in ragione dello stato di detenzione in cui si trovava a quella data ed alla conseguente impossibilità di comunicare con il proprio difensore: pur rilevando che l’ O., arrestato il 10 luglio 2018 e sottoposto a custodia cautelare in carcere, era stato scarcerato soltanto il 27 giugno 2019, ha escluso che tale situazione gli impedisse qualsiasi contatto con il proprio difensore, osservando che l’ordinamento gli consentiva di conferire con quest’ultimo e quindi di proporre tempestivamente l’impugnazione.
2. Avverso la predetta sentenza l’ O. ha proposto ricorso per cassazione, per un solo motivo. Il Ministero dell’interno ha resistito mediante il deposito di un atto di costituzione, ai fini della partecipazione alla discussione orale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità della costituzione in giudizio del Ministero dell’interno, avvenuta mediante il deposito di un atto finalizzato esclusivamente alla partecipazione alla discussione orale, anziché mediante controricorso: nel procedimento in camera di consiglio dinanzi alla Corte di cassazione, il concorso delle parti alla fase decisoria deve infatti realizzarsi in forma scritta, attraverso il deposito di memorie, il quale postula che l’intimato si costituisca mediante controricorso tempestivamente notificato e depositato (cfr. Cass., Sez. I, 25/10/2018, n. 27124; Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24422; Cass., Sez. III, 20/10/2017, n. 24835).
2. Con l’unico motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., comma 2, anche in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che, nonostante lo stato di detenzione, egli potesse ugualmente conferire con il proprio difensore, senza considerare che quest’ultimo era diverso da quello nominato nel procedimento penale. Premesso che a seguito della comunicazione dell’ordinanza di primo grado il difensore nominato nel procedimento civile non aveva potuto conferire con lui, essendo all’oscuro del suo arresto e non essendo in grado di reperirlo allo unico recapito conosciuto, sostiene che tale situazione era configurabile come causa di forza maggiore, che aveva impedito qualsiasi contatto fino al momento della scarcerazione, a seguito della quale soltanto egli era stato in grado di prendere contatto con il difensore e di avere conoscenza del rigetto della domanda, nonché di conferire il mandato per la proposizione dell’appello.
2.1. Il motivo è infondato.
Correttamente, infatti, la sentenza impugnata ha escluso che lo stato di detenzione in cui il ricorrente si trovava alla data di comunicazione dell’ordinanza di primo grado, e nel quale è rimasto fino alla scadenza del termine per la proposizione dell’appello ed anche in epoca successiva, fosse configurabile come causa non imputabile al ricorrente idonea a giustificarne la rimessione in termini ai fini della proposizione dell’impugnazione, in quanto tale da impedirgli di prendere contatto con il proprio difensore, e quindi di avere conoscenza del provvedimento e di conferire tempestivamente il mandato per l’impugnazione.
La causa non imputabile che giustifica, ai sensi dell’art. 153 c.p.c., comma 2, la rimessione in termini della parte che sia incorsa in una decadenza, deve infatti consistere, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, in un fattore oggettivo, indipendente dalla volontà della parte stessa, che, in quanto tale da determinare non già un’impossibilità relativa e tanto meno una mera difficoltà, ma un impedimento di carattere assoluto all’esercizio di una facoltà processuale nel termine all’uopo prescritto, si ponga in rapporto di causalità con la predetta decadenza (cfr. Cass., Sez. Un., 18/12/2018, n. 32725; Cass., Sez. I, 3/12/2020, n. 27726; 23/11/2018, n. 30512).
Tali caratteristiche non sono evidentemente ravvisabili nello stato di detenzione, il quale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del ricorrente, non comporta l’interruzione di ogni contatto con l’esterno, e non impedisce quindi all’interessato l’esercizio delle facoltà processuali che gli spettano, ovviamente a mezzo del suo difensore: se è vero, infatti, che l’art. 18, comma 2, della L. 26 luglio 1975, n. 354, il quale riconosce ai detenuti ed agl’internati il diritto di conferire con il loro difensore, si riferisce esclusivamente a quello che li assiste nel procedimento penale cui sono sottoposti (come dimostra il richiamo della disciplina dettata dall’art. 104 c.p.p. per lo svolgimento dei colloqui nel corso della custodia cautelare), è anche vero, però, che il comma 1 della medesima disposizione prevede in via generale e senza alcuna limitazione il diritto di avere colloqui e d’intrattenere corrispondenza con i propri congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici; in quest’ottica, funzionale al mantenimento dei rapporti con la propria famiglia ed alla conservazione di contatti con l’esterno, sia pure con le restrizioni imposte dall’esecuzione della pena detentiva o dalle esigenze cautelari connesse al procedimento penale in corso, il quinto ed il comma 6 dell’art. 18 impongono anzi all’Amministrazione penitenziaria di mettere a disposizione dei detenuti e degl’internati che ne siano sprovvisti il necessario per la corrispondenza, consentendo altresì di autorizzare comunicazioni telefoniche con i familiari e, in casi particolari, con i terzi, con le modalità e le cautele previste dal regolamento. Nulla impedisce pertanto all’avvocato che difenda il detenuto nell’ambito di un procedimento civile nel quale lo stesso riveste la qualità di parte di contattarlo, sia per iscritto che per telefono, al fine di informarlo di eventuali provvedimenti dei quali abbia ricevuto la notificazione o la comunicazione, e di avere un colloquio con lui per concordare la condotta processuale da assumere in riferimento agli stessi, ivi compreso l’esercizio della facoltà d’impugnarli.
Nessun rilievo può assumere, nella specie, la circostanza che il difensore del ricorrente non fosse a conoscenza dell’arresto di quest’ultimo e non abbia avuto notizie di lui fino al momento della scarcerazione, avvenuta quasi un anno dopo, non essendo stato in grado di contattarlo telefonicamente al numero di cui era in possesso: considerato infatti che il ricorrente era a conoscenza della pendenza del giudizio, per averlo egli stesso promosso, nulla gli avrebbe impedito di mettersi in contatto con il suo difensore per dargli notizia del proprio stato di detenzione e per essere a sua volta informato delle vicende del procedimento in corso, in modo tale da poter venire quanto prima a conoscenza dell’esito del giudizio di primo grado e da poter assumere tempestivamente le conseguenti determinazioni: l’art. 29 della L. n. 354 cit. prevede d’altronde che i detenuti e gl’internati devono essere posti in grado d’informare immediatamente i congiunti e le altre persone da essi eventualmente indicate del loro ingresso in un istituto penitenziario o dell’avvenuto trasferimento. In quest’ottica, l’impossibilità di rintracciare il proprio assistito potrebbe eventualmente costituire motivo di esonero dell’avvocato dalla responsabilità per il mancato esercizio del diritto d’impugnazione nel termine previsto dalla legge, ma non integra certamente un impedimento assoluto all’esercizio di tale diritto, idoneo a giustificare la rimessione in termini della parte, alla cui volontà non può ritenersi del tutto estranea l’interruzione dei contatti con il proprio difensore.
3. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 12 maggio 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2021