Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.23315 del 23/08/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26727/2019 R.G. proposto da:

P.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Arturo Bava, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

D.K.;

– intimata –

e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PER I MINORENNI DI FIRENZE;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale per i minorenni di Firenze depositato il 5 giugno 2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 maggio 2021 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 5 giugno 2019, il Tribunale per i minorenni di Firenze ha rigettato il ricorso, proposto ai sensi della L. 15 gennaio 1994, n. 64, art. 7 dal Pubblico Ministero su richiesta di P.B., volto ad ottenere il ritorno in ***** del figlio minore P.K.P., nato il ***** da una relazione extraconiugale con D.K. e condotto in Italia agli inizi del mese di *****, unitamente al nucleo familiare della madre, contro la volontà del padre.

Premesso che prima del trasferimento in Italia K. aveva avuto la sua residenza abituale in *****, dove aveva sempre vissuto con la madre (ad eccezione del primo anno di vita, in cui i genitori avevano convissuto), incontrando il padre soltanto il sabato o la domenica, e ritenuto quindi che la dimensione familiare del minore si identificasse con il contesto materno, composto anche da un fratello, dalla nonna materna e dal marito della madre, nonché da un figlio di quest’ultimo, il Tribunale ha rilevato che, secondo le dichiarazioni rese dalla D., il trasferimento, avvenuto con il consenso del richiedente, era stato imposto da necessità economiche, avendo il marito perso il lavoro in ***** ed avendone trovato un altro in Italia, non svolgendo la donna attività lavorativa, e non potendo il minore contare sul sostegno economico del padre. Ha aggiunto che in sede di ascolto K. aveva confermato di essere sempre vissuto con la madre, di avere visto il padre soltanto nel fine settimana, di non avere mai dormito presso di lui e di trovarsi bene in Italia, dove avrebbe voluto continuare a vivere, osservando che il minore non aveva manifestato alcun risentimento né distacco emotivo nei confronti del richiedente, ed escludendo che egli avesse potuto subire pressioni o condizionamenti ad opera della madre.

Ciò posto, il Tribunale ha ritenuto integrata la condizione ostativa di cui all’art. 13, comma 2 Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, rilevando che K. si era dimostrato sufficientemente maturo, sereno e ben integrato nel nuovo contesto sociale e scolastico, e dando atto della impraticabilità del rientro della madre in *****: ha osservato in proposito che il trasferimento non era stato determinato da una ripicca nei confronti del padre del minore o dalla volontà d’interrompere i rapporti tra questo ultimo ed il figlio, in quanto non risultava che la donna avesse mai ostacolato l’esercizio del diritto di visita né che intendesse farlo in futuro, essendosi anzi lamentata della scarsa presenza dell’uomo nella vita del minore. Ha ritenuto indubbio che un distacco forzato dalla madre e dai fratelli con i quali aveva sempre convissuto avrebbe esposto il minore al pericolo di un serio pregiudizio di natura psicologica, privandolo della figura di riferimento introiettata, degli affetti consolidati e della nuova rete di relazioni, nonché allontanandolo dal Paese in cui aveva manifestato la volontà di rimanere. Ha concluso pertanto che il rimpatrio risultava contrario all’interesse del minore, avente carattere prioritario ai sensi dell’art. 13, comma 1, lett. b), della Convenzione dell’Aja, osservando comunque che l’avvenuto trasferimento non costituiva impedimento all’esercizio del diritto di visita, regolabile secondo modalità e tempi rispondenti alla nuova situazione di fatto determinatasi.

2. Avverso il predetto decreto il P. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 11, comma 3, secondo paragrafo (recte: par. 3, comma 2), del regolamento CE n. 2201/2003, rilevando che nel procedimento dinanzi al Tribunale per i minorenni non sono stati rispettati né il termine previsto dalla predetta disposizione né quello previsto dalla L. n. 64 del 1994, art. 7, comma 3, in quanto la prima udienza, dopo essere stata fissata ad oltre sei settimane di distanza dalla presentazione della richiesta, è stata rinviata di centoventuno giorni, senza l’indicazione delle circostanze eccezionali che avrebbero impedito di decidere tempestivamente.

1.1. Il motivo è infondato.

In tema di sottrazione internazionale di minori, questa Corte ha infatti affermato ripetutamente che la L. n. 64 del 1994, con cui è stata resa esecutiva nel nostro ordinamento la Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, nel disporre all’art. 7, comma 3, che “il tribunale decide con decreto entro trenta giorni dalla data di ricezione della richiesta” presentata per il tramite dell’autorità centrale a norma degli artt. 8 e 21 della Convenzione, stabilisce un termine meramente ordinatorio, sottratto quindi alla disciplina dettata dall’art. 153 c.p.c., non sussistendo alcuna disposizione che preveda la nullità della pronuncia eventualmente emessa (o comunque che sanzioni con la decadenza il provvedimento adottato) dopo la scadenza del predetto termine (cfr. Cass., Sez. I, 31/03/2014, n. 7479; 2/02/2005, n. 2093; 6/03/2003, n. 3334). Tale principio deve ritenersi applicabile anche al termine previsto dal regolamento CE n. 2201/2003, il quale, nel dettare una disciplina integrativa di quella prevista dalla Convenzione, e destinata a prevalere sulla stessa, ove le norme regolamentari e quelle convenzionali disciplinino la medesima materia (cfr. Cass., Sez. I, 14/07/2010, n. 16549), dispone, all’art. 11, par. 3, comma 2, che “l’autorità giurisdizionale, salvo nel caso in cui circostanze eccezionali non lo consentano, emana il provvedimento al più tardi sei settimane dopo aver ricevuto la domanda”: tale disposizione, oltre a non prevedere neanch’essa alcuna sanzione per l’ipotesi d’inosservanza del termine, fa infatti salvo quanto previsto dal comma 1, il quale, nel disporre che “un’autorità giurisdizionale alla quale è stata presentata la domanda per il ritorno del minore di cui al paragrafo 1 procede al rapido trattamento della domanda stessa”, impone l’utilizzazione delle “procedure più rapide previste nella legislazione nazionale”, rappresentate nella specie dal procedimento introdotto dalla legge di attuazione della Convenzione.

2. Con il terzo motivo, il cui esame risulta logicamente e giuridicamente prioritario rispetto a quello del secondo, in quanto riflettente un vizio del procedimento, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 2, della Convenzione dell’Aja e dell’art. 3 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77, osservando che in sede di ascolto del minore, non imposto dalla legge né giustificato da ragioni di opportunità, non è stato rispettato il diritto dello stesso ad essere informato in ordine alle conseguenze che avrebbero potuto avere le sue dichiarazioni.

2.1. Il motivo è infondato.

L’audizione dei minori, già prevista dall’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata con L. 27 maggio 1991, n. 176, costituisce infatti un adempimento necessario in tutte le procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle aventi ad oggetto il loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con L. 20 marzo 2003, n. 77, dell’art. 315-bis c.c., introdotto dalla L. 10 dicembre 2012, n. 219, art. 1 e degli artt. 336-bis e 337-octies c.c. introdotti dal D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154. Nel procedimento disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, la necessità di tale adempimento emerge peraltro evidente dall’art. 13, comma 2, il quale impone di prendere in considerazione, tra l’altro, l’eventuale opposizione del minore al rientro, purché lo stesso abbia raggiunto un’età ed un grado di maturità tali da far apparire opportuno che si tenga conto del suo parere: in termini ancor più chiari, l’art. 11, par. 2, del regolamento CE n. 2201/2003 prevede che, nell’applicare gli artt. 12 e 13 della Convenzione dell’Aja, occorre assicurare che il minore possa essere ascoltato durante il procedimento, se ciò non appaia inopportuno in ragione della sua età o del suo grado di maturità (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. I, 24/02/2020, n. 4792; 4/06/2019, n. 15254; 17/04/2019, n. 10784). In quest’ottica, occorre non solo riconoscere l’obbligatorietà dell’audizione del minore, ove quest’ultimo abbia raggiunto l’età (dodici anni) oltre la quale la legge l’impone inderogabilmente, ma anche escludere che, al di sotto della predetta età, l’ascolto sia rimesso alla discrezionalità insindacabile del giudice, dovendosi ritenere applicabile anche alla materia in esame il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento ai procedimenti riguardanti la responsabilità genitoriale, secondo cui l’esclusione di tale adempimento è subordinata ad una specifica e circostanziata motivazione, nella quale il giudice dia conto dell’incapacità di discernimento del minore o delle ragioni per cui ritiene l’ascolto manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore (cfr. Cass., Sez. I, 25/01/2021, n. 1474; 24/05/ 2018, n. 12957; 29/09/2015, n. 19327).

Quanto poi al diritto, riconosciuto al minore dall’art. 3, lett. c), della Convenzione di Strasburgo, di essere informato delle eventuali conseguenze che la sua opinione comporterebbe nella pratica e delle eventuali conseguenze di qualunque decisione (e ribadito più sinteticamente dall’art. 336-bis c.c., comma 3, secondo cui il minore dev’essere informato “della natura del procedimento e degli effetti dell’ascolto”), è appena il caso di rilevare che, in quanto corrispondente alle finalità stesse dell’audizione, quale adempimento volto a consentire al minore di esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano, nonché elemento di primaria importanza nella valutazione del suo interesse (cfr. Cass., Sez. I, 7/05/2019, n. 12018; 26/03/ 2015, n. 6129), la somministrazione di tale informativa non può risolversi nella mera apposizione di una formula di stile al relativo verbale, dovendo emergere nella sua effettività dallo svolgimento del colloquio con il giudice, sicché il relativo difetto non può essere fatto valere, come nella specie, senza riportare a corredo della censura il contenuto del verbale.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell’art. 12 della Convenzione dell’Aja del 25 ottobre 1980, sostenendo che il Tribunale per i minorenni avrebbe dovuto disporre l’immediato rimpatrio del minore, la cui situazione in Italia non poteva assumere alcun rilievo, essendo stato provato l’illecito trasferimento e non essendo ancora trascorso un anno.

3.1. Il motivo è infondato.

E’ pur vero, infatti, che, ai sensi dell’art. 12, comma 1, della citata Convenzione, “qualora un minore sia stato illecitamente trasferito o trattenuto ai sensi dell’art. 3, e sia trascorso un periodo inferiore ad un anno, a decorrere dal trasferimento o dal mancato ritorno del minore, fino alla presentazione dell’istanza presso l’Autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato contraente dove si trova il minore, l’autorità adita ordina il suo ritorno immediato”. L’obbligo imposto da tale disposizione incontra tuttavia un limite nella disciplina dettata dall’art. 13, il quale prevede, al comma 1, che “l’Autorità giudiziaria o amministrativa dello Stato richiesto non è tenuta ad ordinare il ritorno del minore qualora la persona, istituzione o ente che si oppone al ritorno, dimostri: a) che la persona, l’istituzione o l’ente cui era affidato il minore non esercitava effettivamente il diritto di affidamento al momento del trasferimento o del mancato rientro, o aveva consentito, anche successivamente, al trasferimento o al mancato ritorno; o b) che sussiste un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, ai pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile”, aggiungendo, al comma 2, che “l’Autorità giudiziaria o amministrativa può altresì rifiutarsi di ordinare il ritorno del minore qualora essa accerti che il minore si oppone al ritorno, e che ha raggiunto un’età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tener conto del suo parere”.

Nella specie, essendo pacifico che al momento della proposizione della domanda non era ancora trascorso un anno dal trasferimento del minore in Italia, il Tribunale per i minorenni ha richiamato per un verso l’art. 13, comma 1, lett. b) rilevando che il minore aveva manifestato una forte opposizione al rientro in *****, e per altro verso il comma 2, osservando che un distacco forzato dalla madre, dai fratelli e dalla nuova rete di relazioni instaurate in Italia avrebbe esposto il minore ad un serio pregiudizio di natura psicologica. Nell’attribuire rilievo alla volontà manifestata dal minore, il decreto impugnato ha posto opportunamente in risalto la maturità dello stesso e la tranquillità con cui aveva affrontato l’audizione personale, nonché la sua serenità di espressione e l’assenza di risentimento o di distacco emotivo nei confronti del padre, escludendo che le dichiarazioni da lui rese potessero costituire il frutto di pressioni o di un condizionamento esercitato dalla madre. Nel ritenere pregiudizievole il ritorno in *****, il Tribunale per i minorenni ha invece evidenziato la solidità non solo dei legami affettivi esistenti tra il minore, la madre ed il figlio dalla stessa avuto con un altro uomo, ma anche di quelli instauratisi con i figli del marito, nati da una precedente relazione con un’altra donna e conviventi con il padre, a seguito della morte della madre; ha dato inoltre atto dell’ottimo livello d’integrazione sia scolastica che sociale raggiunto dal minore, descrivendone sia pure sommariamente le attività, segnalandone il gradimento per il luogo in cui vive ed il desiderio di continuare a risiedervi, e concludendo pertanto per la contrarietà del rimpatrio all’interesse superiore del minore.

La duplice valutazione in tal modo compiuta, implicando l’attribuzione di una portata concorrente e complementare alle circostanze ostative previste dalle norme richiamate, si pone perfettamente in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento all’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione dell’Aja. In ordine all’opposizione del minore, è stato infatti chiarito che l’audizione dello stesso, ove ritenuto capace di discernimento, in quanto volta ad acquisire elementi di valutazione in ordine alla fondatezza del rischio di rimanere esposto, per il fatto del rimpatrio, a pericoli psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile, non consente di attribuire efficacia ostativa esclusiva alla volontà contraria da lui espressa in ordine al rientro nel Paese di origine, potendo la sua opinione essere valutata dal giudice ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza del pregiudizio psichico, quale causa autonoma e sufficiente di deroga al principio generale del rientro immediato (cfr. Cass., Sez. I, 16/06/2011, n. 13241; 27/07/2007, n. 16753; 18/03/2006, n. 6081). Il riconoscimento di una portata vincolante alla volontà espressa dal minore si porrebbe d’altronde in contrasto con l’oggetto del giudizio sulla domanda di rimpatrio, il quale, come ripetutamente affermato da questa Corte, non consiste nell’individuazione della migliore sistemazione possibile per il minore, sicché la domanda può essere respinta, nel superiore interesse dello stesso, soltanto in presenza di una delle circostanze ostative previste dagli artt. 12, 13 e 20 della Convenzione, tra le quali non è compresa alcuna controindicazione di carattere comparativo che non assurga al rango di vero e proprio rischio, derivante dal rientro, di esposizione a pericoli fisici o psichici o ad una situazione intollerabile (cfr. Cass., Sez. VI, 5/10/2011, n. 20365; Cass., Sez. I, 7/03/2007, n. 5236; 27/04/2004, n. 8000). In quest’ottica, e con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 13, comma 1, lett. b) della Convenzione, è stato peraltro precisato anche che tale disposizione non consente al giudice, cui sia richiesto di emettere un provvedimento di rientro nello Stato di residenza del minore illecitamente trattenuto da un genitore, di valutare inconvenienti connessi al prospettato rimpatrio che non raggiungano il grado del pericolo fisico o psichico o dell’effettiva intollerabilità da parte del minore, essendo questi, e solo questi, gli elementi considerati dalla Convenzione rilevanti ed ostativi al rientro (cfr. Cass., Sez. Un., 23/09/1998, n. 9501; Cass., Sez. I, 8/02/2016, n. 2417; 30/06/2014, n. 14792). La valutazione dei predetti elementi costituisce poi un’indagine di fatto, riservata al giudice di merito e sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. I, 17/02/2021, n. 4222; 8/02/2016, n. 2417), nella specie neppure prospettate dal ricorrente, il quale si è limitato ad insistere sull’applicabilità dell’art. 12 della Convenzione, correttamente esclusa dal decreto impugnato, come si è detto, in virtù dell’accertata sussistenza delle condizioni ostative prescritte dall’art. 13.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 13, comma 1, lett. b), della Convenzione dell’Aja, rilevando che il Tribunale per i minorenni ha preso in considerazione esclusivamente la situazione del minore nel territorio italiano, omettendo di valutare l’adeguatezza delle condizioni di vita e di accudimento di cui lo stesso godrebbe in caso di rientro in *****. Aggiunge che dal procedimento non è emerso alcun pericolo per il minore, essendo stata confermata la serenità del rapporto con il padre e l’inesistenza di contrasti tra i genitori, e non essendo stata fornita alcuna prova degli inconvenienti fisici o psichici cui il minore resterebbe esposto in caso di ritorno.

4.1. Il motivo è infondato.

Correttamente, infatti, il decreto impugnato ha omesso di procedere alla comparazione tra la situazione familiare e sociale in cui il minore vive in Italia e quella in cui si troverebbe in caso di rimpatrio, trattandosi di una valutazione del tutto estranea all’ambito del giudizio prescritto dagli artt. 12, 13 e 20 della Convenzione dell’Aja ai fini dell’emissione dell’ordine di rientro nello Stato di residenza abituale: i presupposti di tale provvedimento sono infatti individuati, oltre che nell’illiceità del trasferimento, in quanto avvenuto in violazione del diritto di affidamento o di visita spettante al richiedente ai sensi della legislazione dello Stato di residenza abituale del minore, nell’insussistenza delle condizioni ostative previste dagli artt. 13 e 20, consistenti, come si è detto in precedenza, esclusivamente nel mancato esercizio del diritto di affidamento da parte del richiedente, nel consenso prestato da quest’ultimo al trasferimento, oppure nell’esposizione del minore ad un pericolo fisico o psichico o ad una situazione intollerabile, o ancora nella contrarietà del ritorno ai principi fondamentali dello Stato richiesto relativi alla protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Nel ritenere sussistente la condizione di cui all’art. 13, comma 1, lett. b), il Tribunale per i minorenni ha d’altronde accertato che il rimpatrio del minore ne imporrebbe necessariamente il distacco dalla madre, non essendo allo stato ipotizzabile un rientro di quest’ultima in *****, avuto riguardo alle ragioni di ordine economico e familiare che l’hanno indotta a trasferirsi in Italia: ha osservato in proposito che, fatta eccezione per il primo anno di vita, in cui le parti hanno convissuto, la dimensione familiare del minore si è sempre identificata con il contesto materno, composto dalla madre, da un figlio che la donna ha avuto precedentemente da un altro uomo e dalla nonna materna, cui si sono aggiunti successivamente il marito dell’intimata ed uno dei figli che quest’ultimo ha avuto da una precedente compagna; ha aggiunto che l’intimata, la quale non svolge attività lavorativa e non poteva neppure contare sul sostegno economico del ricorrente ai fini del mantenimento del figlio, è stata indotta a trasferirsi all’estero per seguire il marito, il quale, dopo aver perso il lavoro in *****, aveva trovato occupazione in Italia; ha rilevato infine che il ricorrente, pur avendo continuato ad avere contatti con il figlio dopo la cessazione della convivenza con l’intimata, non ne ha l’affidamento, avendo a tal fine promosso un procedimento dinanzi all’Autorità giudiziaria polacca, ancora pendente all’epoca in cui la donna si è trasferita in Italia, e sospeso a seguito dell’espatrio. Alla stregua di tale accertamento, rimasto incontestato in questa sede, non merita censura il decreto impugnato, nella parte in cui ha ritenuto che la valutazione richiesta ai fini dell’emissione dello ordine di rientro dovesse fondarsi non già sul confronto tra la situazione in cui il minore si trova in Italia e quella in cui vivrebbe in *****, ma sul bilanciamento tra il diritto di visita spettante al genitore ed il pregiudizio cui il minore rimarrebbe esposto in caso di rimpatrio. Non solo, infatti, il predetto confronto risultava impraticabile, non essendo il minore mai vissuto con il padre, se non nel primo anno di vita, e non risultando concretamente ipotizzabile il ritorno in Patria della madre, ma il minore non era ancora affidato neppure congiuntamente al ricorrente, il quale non era dunque legittimato a chiederne il rientro in *****.

Come già precisato da questa Corte, infatti, la Convenzione dell’Aja distingue nettamente, all’art. 5, il diritto di affidamento (che comprende i diritti concernenti la cura della persona del minore, ed in particolare il diritto di decidere riguardo al suo luogo di residenza) dal diritto di visita (che comprende il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza abituale per un periodo limitato di tempo) e prevede per le due situazioni una tutela differenziata, disponendo l’immediato ritorno del minore nello Stato di residenza abituale esclusivamente per l’ipotesi di illecito trasferimento o trattenimento, che ricorre soltanto in caso di violazione del diritto di affidamento o custodia (cfr. Cass., Sez. I, 2/02/2007, n. 14960; 4/04/2006, n. 7864; 18/03/2005, n. 6014). Qualora invece il trasferimento impedisca soltanto l’esercizio del diritto di visita, l’art. 21 della Convenzione consente all’altro genitore soltanto di sollecitare l’Autorità centrale a compiere tutti i passi necessari per rimuovere, per quanto possibile, ogni ostacolo all’esercizio del predetto diritto, ferma restando, ovviamente, la possibilità di rivolgersi al giudice del conflitto familiare per ottenere una rivalutazione delle condizioni dell’affidamento, alla stregua della nuova circostanza del trasferimento della residenza del minore (cfr. Cass., Sez. I, 5/05/2006, n. 10374). E’ pur vero che, nel caso in cui, come nella specie, il genitore affidatario scelga una nuova residenza particolarmente distante, il trasferimento può rendere di fatto particolarmente difficile lo stesso esercizio del diritto di visita: tale inconveniente non può ritenersi tuttavia sufficiente a giustificare l’emissione dell’ordine di rientro, dal momento che lo stesso comporterebbe la necessità del rimpatrio anche del genitore affidatario, incidendo illegittimamente sulla libertà di quest’ultimo di stabilire la propria residenza nella località che ritenga più conveniente (cfr. Cass., Sez. I, 4/04/2007, n. 8481; 14/07/2006, n. 16092).

5. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione degli intimati.

Trattandosi di procedimento esente dal contributo unificato, non trova applicazione il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

rigetta il ricorso.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente ordinanza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella ordinanza.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 agosto 2021

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