LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANNA Felice – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –
Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 3954-2216 proposto da:
P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE GIANICOLENSE N. 233, presso lo studio dell’avvocato FILOMENA CERRONI, rappresentato e difeso dall’avvocato WILLIAM LIMUTI;
– ricorrente –
Nonché da:
M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARLETTA 29, presso lo studio dell’avvocato MARINA ZELA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA GIANATTI;
– ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2462/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/06/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/11/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;
udito l’Avvocato Loredana Tulino, con delega scritta dall’avv. William Limuti, che si riporta agli atti depositati.
FATTI DI CAUSA
Il sig. P.M. ha proposto ricorso, sulla scorta di sei motivi, per la cassazione della sentenza della corte d’appello di Milano che, confermando sul punto la sentenza del tribunale di Sondrio, ha riconosciuto l’esclusiva proprietà della sig.ra M.A. su una cantina sita in Comune di *****, identificata catastalmente al foglio *****, rigettando la domanda di usucapione al riguardo proposta dal sig. P. in via riconvenzionale e, conseguentemente, condannano costui al rilascio del bene ed al risarcimento del danno da illecita occupazione; la corte ambrosiana ha liquidato tale danno in Euro 80,00 mensili, a tal misura riducendo, in riforma sul punto della sentenza di primo grado, l’importo di Euro 360,00 liquidato dal tribunale valtellinese.
La corte d’appello ha ritenuto che il P. esercitasse sulla cantina in questione non un possesso ma una mera detenzione, sorretta, a partire dal 2000, da un contratto di comodato da lui concluso con la sig.ra M. (cui la cantina era pervenuta per successione alla madre, sig.ra N.P.) e, prima del 2000, da un contratto di sub locazione concluso dal di lui padre, P.P., con la sig.ra Mo.Er., a propria volta conduttrice, in forza di contratto dalla stessa concluso con la suddetta sig.ra N.. della cantina e del contiguo fondo adibito a bar.
La sig.ra M.A. ha presentato controricorso con ricorso incidentale dolendosi della riduzione, operata dalla corte di appello, dell’importo liquidatole in primo grado a titolo di indennità occupazione.
La causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 19 novembre 2020, per la quale non sono state depositate memorie e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 il sig. P. denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 447 bis c.p.c., con riguardo alla mancata conversione del rito e alla mancata lettura del dispositivo della sentenza in udienza; l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e la conseguente violazione dell’art. 156 c.p.c., comma 2, ossia la nullità della sentenza per mancata lettura del dispositivo.
Ad avviso del ricorrente il Tribunale di Sondrio, prima, e la Corte d’appello di Milano, poi, avrebbero errato nel qualificare l’azione esercitata dalla sig.ra M. come azione di rivendicazione; l’oggetto della domanda dell’attrice era, invece, la restituzione del bene a seguito della cessazione del rapporto di comodato intercorrente tra le parti, con conseguente soggezione della controversia al rito locatizio e non al rito ordinario. La sentenza di primo grado, si argomenta nel mezzo di impugnazione, sarebbe affetta da nullità, perché adottata nelle forme del rito ordinario e la sentenza d’appello sarebbe a propria volta errata, per non avere accolto l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado sollevata nell’appello dell’odierno ricorrente e, ancora, viziata per mancanza del requisito formale, a dire del ricorrente indispensabile ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, della lettura del dispositivo in udienza.
Il motivo è infondato.
Va preliminarmente osservato che, in relazione alla natura processuale del vizio denunciato (violazione dell’art. 447 bis c.p.c.), non trova qui applicazione il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito (cfr., tra le tante, Cass. 25259/17). Questa Corte deve quindi, per pronunciarsi sul motivo di gravame, procedere essa stessa alla qualificazione della domanda della sig.ra M.. Tanto premesso, si osserva che le conclusioni da costei rassegnate in primo grado contengono la richiesta di accertamento e declaratoria della proprietà del fondo de quo in capo all’attrice; donde la correttezza della qualificazione operata dai giudici di primo e secondo grado e l’infondatezza del motivo di ricorso.
Con il secondo motivo di ricorso, il sig. P. deduce la violazione dell’art. 1803 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nonché ex art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in merito alla valutazione delle prove della sussistenza di un contratto di comodato inter partes. Si deduce, ancora, la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per difetto e contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie in merito all’esistenza di un accordo di comodato tra la signora M. e il signor P..
Parte ricorrente sottolinea come nessun teste di parte M., eccezion fatta per la figlia G.E., abbia confermato la sussistenza di un accordo di comodato tra la sig.ra M. e il sig. P. riguardo l’utilizzo della cantina oggetto di causa. L’unico teste che ha riferito di tale accordo, si argomenta nel mezzo di impugnazione, è la suddetta sig.ra G., figlia dell’attrice odierna contro ricorrente, la cui attendibilità ex art. 252 c.p.c. avrebbe dovuto essere valutata con maggior rigore dal tribunale, prima, e dalla corte d’appello, poi, sia in considerazione degli stretti rapporti di parentela con la sig.ra M. che la rendono “chiaramente di parte” (p. 19 ricorso), sia in considerazione della natura de relato della sua testimonianza, avendo costei affermato in apertura della deposizione (“E’, vero, me lo disse mia madre”). In mancanza di una cognizione diretta dei fatti di causa e essendo la deposizione difforme dalle altre risultanze istruttorie (sette testi escussi), la corte d’appello, secondo il sig. P., non avrebbe dovuto accordare alcun rilievo alla testimonianza G..
Nel motivo di ricorso si deduce, inoltre, che la corte ambrosiana avrebbe travisato l’atto di appello del sig. P. leggendovi una ammissione, in effetti insussistente, della proprietà della cantina in capo alla sig.ra M. alla data (21.1.2000) della dichiarazione di successione di costei alla propria madre.
Il ricorrente nega altresì la rilevanza – ai fini della prova del contratto di comodato dedotto dalla sig.ra M. per escludere che egli esercitasse sulla cantina un possesso irti dominus – degli assegni bancari da lui emessi in favore di costei, sostenendo che tali assegni costituivano un’indennità che esso P. aveva versato alla sig.ra M. per poter posizionare un impianto di condizionamento al di sopra di una tettoia di proprietà di quest’ultima.
Ancora, il ricorrente nega che la cantina formasse oggetto del contratto di locazione dei locali adibiti a bar stipulato tra la sig.ra N.P. (dante causa della M.) e la sig.ra Mo.Er. e, quindi, potesse essere stata da quest’ultima sub locata al padre del ricorrente medesimo. Ad avviso del ricorrente la circostanza che la dante causa della sig.ra M. non avesse venduto, insieme al bar, anche la cantina confermerebbe la di lei consapevolezza del fatto che tale cantina già negli anni 90 era stata usucapita dal sig. P..
Con il terzo motivo di ricorso, il sig. P. deduce la violazione dell’art. 1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, nonché ex art. 360 c.p.c., n. 5 per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in merito alla valutazione delle prove circa la sussistenza dell’intervenuta usucapione della cantina. Si denuncia, ancora, la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per difetto e contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie, in merito all’esistenza dell’intervenuta usucapione e alla mancata valutazione da parte del giudice di primo grado del raggiungimento della prova che il signor P. avesse esercitato il possesso ultraventennale valido ai fini dell’usucapione.
Il ricorrente richiama le deposizioni testimoniali di ben sei testi escussi, il possesso esclusivo delle chiavi di accesso alla cantina e le opere ordinarie e straordinarie, compreso l’impianto elettrico e le opere di impermeabilizzazione – da lui compiute sulla cantina senza mai consultarsi, a suo dire, con la sig.ra M. – quali elementi idonei a provare il possesso ultraventennale valido ai fini dell’usucapione.
Nel motivo di impugnazione si osserva, inoltre, che fino alla raccomandata del 13/02/2009 la sig.ra M. non aveva mai contestato il possesso della cantina da parte del sig. P., e che dunque tale possesso, essendo cominciato negli anni ’70, era stato pacifico, pubblico e indisturbato da oltre trenta anni.
Con il quarto motivo di ricorso, il sig. P. deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per difetto e contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie e la violazione degli artt. 1158,1167 e 1163 c.c. circa l’intervenuta interversione del possesso e il raggiungimento della prova sull’esercizio del possesso uti dominus.
Ancora una volta il ricorrente contesta la qualifica data dalla corte d’appello della relazione con la cantina come detenzione anziché come possesso. Si fa riferimento alle opere di manutenzione straordinaria poste in essere sulla cantina quale prova della volontà del sig. P. di godere e usare il bene come proprio, non avendo egli mai interpellato la sig.ra M.A. sui lavori da effettuare. Si richiamano le deposizioni testimoniali che hanno confermato la necessità di rivolgersi al sig. P. per accedere alla cantina, essendo egli l’unico soggetto in possesso delle chiavi. Si argomenta come tutto ciò renderebbe evidente il mutamento della detenzione in possesso, estrinsecandosi la modifica della relazione di fatto con la cosa negli elementi sopra citati. Infine, si afferma che spetta a chi contesta il possesso provare l’esistenza di atti di tolleranza o di titoli che valgano a escluderlo, non essendo nulla di tutto ciò dimostrato dalla signora M..
Il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente, in quanto, pur denunciando promiscuamente vizi di violazione di legge e vizi di motivazione, non individuano, quanto ai dedotti vizi di violazione di legge, alcuna esplicita od implicita affermazione in diritto della sentenza gravata che si ponga in contrasto con le disposizioni di cui viene lamentata la violazione; né individuano, come prescritto dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, fatti storici decisivi, oggetto di discussione tra le parti, il cui esame sia stato omesso dal giudice di merito. Tutti tali motivi si risolvono, in definitiva, in una critica delle conclusioni a cui è approdato il libero convincimento del giudice di merito e in una sollecitazione a questa Suprema Corte di procedere ad riesame delle risultanze istruttorie che non è ammissibile nel giudizio di legittimità.
Con il quinto motivo di ricorso, il sig. P. deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per difetto e contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie in relazione alla quantificazione dell’importo a titolo di occupazione senza titolo della cantina. Parte ricorrente afferma che la corte d’appello, pur dichiarando fondato il quinto motivo di gravame relativo alla quantificazione dell’indennità di occupazione senza titolo della cantina, ritenuta eccessiva in relazione al tipo di bene e al suo utilizzo, finisce per raddoppiare l’importo dovuto, stabilendo che esso non è più pari a Euro 500,00 per anno o frazione di anno (come si era detto nell’ordinanza del giugno 2012), ossia Euro 50,00 mensili, ma è pari a Euro 960,00 in quanto si prevede una somma di Euro 80,00 mensili. La corte d’appello cade, a detta del ricorrente, in evidente contraddizione, poiché, in accoglimento del motivo di gravame, giunge a liquidare un danno largamente maggiore rispetto a quello già determinato.
Il motivo è pur esso inammissibile, in quanto formulato in difformità dal paradigma fissato dal vigente testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Infatti, come questa Corte ha chiarito con la sentenza n. 23940/17, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.
Con il sesto motivo di ricorso, il sig. P. deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per difetto e contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze istruttorie in merito alla condanna alle spese di lite. Parte ricorrente contesta che, pur avendo la corte d’appello accolto due motivi del gravame formulato, lo condanni integralmente al pagamento delle spese di lite, invece di disporre la compensazione delle stesse per soccombenza reciproca. Il motivo, pur esso formulato in difformità dal paradigma fissato dall’art. 360 c.p.c., n. 5, deve ritenersi ammissibile perché, ancorché rubricato con riferimento a tale ultima disposizione, veicola, in effetti, una denuncia di violazione di legge, e precisamente, di violazione dell’art. 91 c.p.c.. Esso va tuttavia giudicato infondato, alla stregua dell’insegnamento di Cass. 245022/17, secondo cui, in tema di spese processuali il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi.
Il ricorso principale va pertanto rigettato.
Con l’unico motivo di ricorso incidentale, la sig.ra M. deduce la violazione c/o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e degli artt. 115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4, 5. Secondo la ricorrente la corte territoriale avrebbe violato tali disposizioni riducendo immotivatamente la liquidazione dell’indennità di occupazione della cantina operata dal giudice di primo grado in Euro 360,00 mensili e portando tale liquidazione ad 80,00 mensili sul solo rilievo cha liquidazione del primo giudice sarebbe stata “eccessiva, in relazione alla tipologia del bene e al suo utilizzo” (p. 6 della sentenza).
Parte resistente osserva che la circostanza che la sig.ra M. percepisse una somma di Euro 500/400 annuali dal sig. P. non avrebbe nulla a che fare con la liquidazione del danno da occupazione senza titolo della cantina, essendo il detto importo annuale un mero contributo spese. Al contrario, ai fini della quantificazione del danno, la corte avrebbe dovuto aver riguardo al valore locativo del bene usurpato, ossia all’utilità economica che la proprietaria avrebbe percepito concedendo la cantina in locazione o alienandola. Sulla base delle quotazioni immobiliari dell’Agenzia del Territorio, risulterebbe che l’indennità da illecita occupazione pari a Euro 360,00 mensili è corretta e congrua, tenendo conto della collocazione topografica dell’immobile e dell’ottimo stato conservativo.
Il motivo va disatteso. La corte territoriale ha ancorato la propria liquidazione equitativa all’importo corrisposto per l’uso della cantina dalla menzionata sig.ra Mo., già conduttrice dei locali del bar, alla madre della sig.ra M.; si tratta di un criterio non irragionevole per pervenire alla liquidazione equitativa del danno da occupazione senza titolo; né, d’altra parte, ha pregio la pretesa della ricorrente incidentale di ottenere la liquidazione del danno de quo sulla base della meccanica applicazione di astratte quotazioni dei valori immobiliari offerte dall’Agenzia del Territorio, del tutte avulse da una concreta verifica del pregiudizio concretamente subito dalla proprietaria.
Anche il ricorso incidentale va pertanto disatteso.
Le spese del presente giudizio si compensano in ragione del rigetto di entrambi i ricorsi, sia principale che incidentale.
Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, del raddoppio del contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, se dovuto.
PQM
La Corte rigetta i ricorsi principale e incidentale.
Dichiara compensate le spese del giudizio di cassazione.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale e incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, del comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2021
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