LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –
Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20757-2019 proposto da:
D.B., rappresentato e difeso dall’avvocato Edy Guerrini, del foro di Ravenna e domiciliato in Roma, piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione ovvero all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– intimato –
avverso la sentenza n. 2311/2018 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 17/09/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:
– avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna, che rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, D.B. interponeva opposizione, che veniva respinta dal Tribunale di Bologna con ordinanza del 17.01.2017;
– in virtù di appello proposto dal medesimo D.B., la Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 2311/2018, rigettava l’impugnazione con attribuzione delle spese del grado secondo la soccombenza;
– la decisione di secondo grado evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, esprimendo preliminarmente una valutazione di non credibilità del richiedente asilo e osservando che comunque l’espatrio trovava fondamento in una vicenda di carattere privato (presunti contrasti con i religiosi della moschea frontista, della contrastata gestione del bar tenuto aperto – a detta del ricorrente anche durante il weekend);
– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il D. affidato a tre motivi;
– il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.
Atteso che:
– il ricorrente lamenta l’omessa valutazione di fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 perché il giudice distrettuale tenuto non credibile la versione dei fatti esposta dal D., essendosi limitato a riprodurre pressoché integralmente le motivazioni del Tribunale nell’ordinanza di rigetto, senza formularne di nuove. Inoltre la corte di appello avrebbe omesso di motivare anche sul punto della ritenuta “non credibilità” di quanto affermato dal richiedente.
La censura non puo trovare (Ndr: testo originale non comprensibile).
In ordine al primo profilo risulta inammissibile in quanto, la Corte di appello di Bologna ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria per le ragioni già ampiamente espresse dal primo giudice che – come ammesso dallo stesso ricorrente – la Corte ha integralmente richiamato.
Orbene, secondo costante giurisprudenza di questa Corte, “La sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata “per relationem” ove contenga espliciti riferimenti alla pronuncia di primo grado, facendone proprie le argomentazioni in punto di diritto, e fornisca, pur sinteticamente, una risposta alle censure formulate, nell’atto di appello e nelle conclusioni, dalla parte soccombente, risultando così appagante e corretto il percorso argomentativo desumibile attraverso l’integrazione della parte motiva delle due sentenze” (Cass. 23 agosto 2018 n. 21037).
In riferimento poi alla circostanza della ritenuta “non credibilità”, la Corte territoriale ha ritenuto non credibile l’allegazione del richiedente sul suo timore di subire ritorsioni da soggetti privati, precisando che, quanto alla contrastata questione della gestione del bar, pacificamente tenuto aperto anche durante il weekend, pur riferendo l’appellante dell’intervento della Polizia assumendo una posizione positiva verso le ragioni dei religiosi, che lo stesso non chiariva se tale posizione fosse legata al fatto che l’apertura, in Contrasto con i giorni della preghiera del venerdì o O somministrasse alcolici, vietata sulla base delle leggi vigenti nel Paese di origine, il *****.
Il ricorrente non censura detta affermazione, né allega, riportando in ricorso il corrispondente motivo d’appello, fatti di rilevanza in ordine alla ricorrenza della credibilità, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.
Del resto la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).
Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censura del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione;
– con il secondo motivo il ricorrente lamentata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, oltre a vizio di motivazione, per non avere la corte di merito considerato credibili le dichiarazioni del richiedente e con ciò omesso l’attivazione dei doveri informativi officiosi. In altri termini, ad avviso del D., il racconto era circostanziato circa la paura di poter subire gravissimi danni alla sua persona, ritenendo di poter essere ingiustamente incarcerato qualora facesse rientro nel Paese di origine. Di seguito il ricorrente riporta la vicenda narrata come riprodotta nella sentenza impugnata.
La doglianza, inoltre, viene sviluppata sotto il profilo di avere addossato al ricorrente un onere probatorio di difficile possibilità di assolvimento in ordine alla situazione di estremo pericolo dedotta.
Inammissibili sono le allegazioni operate con il secondo motivo, che ostendono, pur sotto l’apparente veste di un preteso errore di diritto, una critica puramente motivazionale, non più rappresentabile alla stregua del novellato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quale idoneo vizio cassatorio, e sollecitano perciò una rivisitazione delle risultanze di fatto della vicenda e del giudizio riguardo ad esse enunciato dal giudice di merito, che ha inteso escludere, con ciò sottraendosi pure al denunciato vizio di motivazione apparente, le ragioni di concessione della misura richiesta dando, tra l’altro, atto insieme all’insussistenza di oggettivi fattori di rischio in caso di rimpatrio, rappresentando una situazione nel ***** come non esposta ai gravi pericoli richiamati dalle norme invocate, dati raccolti da fonte pubblica, quale il recente report di Amnesty International che riferisce del rilascio di decine di prigionieri politici e di coscienza tra dicembre 2016 – gennaio 2017.
Invero, alla stregua del dato normativo il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, misurandosi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perché la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (comma 1). Detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2).
La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.
Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “e’ tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria).
E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, sia sussidiaria sia umanitaria, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.
Sicché, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacché, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.
Il principio è stato così massimato: la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr Cass. n. 19197 del 2015).
Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non è provata, la domanda è da rigettare.
E difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.
Stabilisce difatti il menzionato art. 3, comma 5 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente per la proposizione della domanda, abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi ovvero abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.
Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008 n. 27310).
Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere il principio dispositivo, laddove consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dall’art. 3, comma 3 in esame.
Facendo il punto di quanto finora si è detto, è evidente, da un lato, che l’attenuazione del principio dispositivo in cui la c.d. “cooperazione istruttoria” si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova, dacché l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata; dall’altro lato, che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.
In altri termini, compete al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, per cui egli non incontra difficoltà alcuna ove la sua narrazione sia vera e reale (cfr Cass. n. 15794 del 2019). La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.
Nel provvedimento impugnato, il collegio giudicante ha puntualmente escluso l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente;
– con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, relativamente alla domanda di protezione umanitaria. Non sarebbe sufficiente la motivazione quanto all’attualità della minaccia grave alla vita o alla persona per essere il ricorrente stato accusato di avere dato fuoco ad una moschea, reato punito quanto meno con la reclusione. Inoltre le condizioni delle carceri in ***** – come affermato dallo stesso giudice – non sono assolutamente in linea con gli standard internazionali a causa della scarsa igiene, dell’insufficiente fornitura di cibo e di cure mediche. Aggiunge di avere una residenza stabile nel Comune di Ravenna ed ha radicato – sin dal 2016 – uno stretto legame con il territorio italiano.
La censura è inammissibile in quanto oltre a non confrontarsi con la decisione impugnata, è diretta a sollecitare un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni del proprio convincimento, con autonoma ratio decidendi, non impugnata dal ricorrente che si è limitato a criticare la ritenuta abrogazione dell’istituto in questione.
Il ricorrente censura la valutazione della Corte territoriale sulla situazione generale della *****, facendo generico riferimento a conflitti religiosi non meglio precisati, ed invece la vicenda personale narrata, come riportata nel decreto impugnato e nella stessa parte espositiva del ricorso, attiene ad un fatto privato. Inoltre si duole del mancato riconoscimento della dedotta sua vulnerabilità, di nuovo senza confrontarsi con il percorso argomentativo di cui al decreto impugnato, limitandosi a dedurre genericamente la violazione di norme di legge, attraverso il richiamo alle disposizioni che assume disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata nel giudizio di merito.
La Corte di merito ha ritenuto che non fosse credibile la vicenda personale narrata dal richiedente, per incoerenza e contraddittorietà intrinseca dei fatti narrati e in dettaglio esaminati. I Giudici di merito hanno affermato che non avessero significativa rilevanza le questioni etniche, in quanto il richiedente aveva genericamente riferito di contrasti sulla gestione del bar e lamentava l’intervento della Polizia in favore dei querelanti perché tenuto aperto anche nel weekend.
Inoltre i Giudici di merito hanno dato conto della situazione generale del *****, in base alle fonti di conoscenza indicate, escludendo la sussistenza di una situazione di violenza generalizzata e indiscriminata da conflitto armato nel Paese, così compiutamente esercitando il dovere di cooperazione istruttoria ed effettuando un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato, come nella specie (Cass. n. 30105/2018).
Quanto al diniego della protezione umanitaria, occorre precisare, in via preliminare, con riguardo alla disciplina applicabile ratione temporis, che la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari presentata, come nella specie, prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, deve essere scrutinata sulla base della normativa esistente al momento della sua presentazione (Cass. S.U. n. 29459/2019).
Ciò posto, il ricorrente allega genericamente la propria situazione di vulnerabilità senza alcun riferimento individualizzante, limitandosi a richiamare la normativa di riferimento e alcune pronunce di questa Corte, nonché la situazione di instabilità e povertà del *****.
Il giudice distrettuale ha escluso la sussistenza di fattori soggettivi e oggettivi di vulnerabilità, rilevando, da un lato, che il richiedente è soggetto che non presenta una situazione peculiare e, dall’altro lato, che in ***** non è riscontrabile una vera e propria emergenza umanitaria per violazione dei diritti umani, in base alle fonti citate nel decreto. Le doglianze svolte in ricorso, ancora una volta, non si confrontano con la motivazione del decreto impugnato.
Il fattore di integrazione lavorativa e sociale in Italia non può essere isolatamente considerato, diventando recessivo se difetta la vulnerabilità, come nella specie, ed inoltre la situazione del Paese di origine, in termini generali ed astratti, è di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. S.U. n. 29459/2019 citata, in conformità a Cass. n. 4455/2018).
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
La mancata costituzione in questa sede dell’amministrazione intimata esime il Collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 13 luglio 2020.
Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021