Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.23638 del 31/08/2021

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20994-2019 proposto da:

M.L.N., rappresentato e difeso dall’avvocato Francesco Beretti, del foro di Reggio Emilia e domiciliato in Roma, piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione ovvero all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 236/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 17/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Ritenuto che:

– avverso il provvedimento della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Bologna, che rigettava la domanda del ricorrente, volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, M.L. interponeva opposizione, che veniva respinta dal Tribunale di Bologna con ordinanza del 15.02.2017;

– in virtù di appello proposto dal medesimo M.L., la Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 236/2019, rigettava l’impugnazione con attribuzione delle spese del grado secondo la soccombenza;

– la decisione di secondo grado evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, esprimendo una valutazione di non credibilità della vicenda narrata dal richiedente per avere rilasciato dichiarazioni di estrema genericità in ordine alle modalità dell’aggressione (ossia avere lasciato il proprio Paese in quanto aveva rifiutato di vendere il proprio appezzamento di terreno ad un vicino perché troppo bassa l’offerta, e il vicino lo aveva aggredito fisicamente, anche a mezzo di emissari, per convincerlo), oltre ad essere non attendibile l’affermazione di non sapere il titolo di ingresso in Francia nel 2014. Aggiungeva che l'***** non era un Paese interessato da conflitto armato interno o internazionale all’origine di una situazione di violenza indiscriminata in danno dei civili. Infine le specifiche vicende allegate non integravano un’ipotesi di vulnerabilità individuale, non costituendo tale vulnerabilità l’appartenenza alla religione ***** provenendo egli da una regione a maggioranza del medesimo credo, mentre la malattia di cui era affetto, refertata con certificato come diabete mellito, non era ostativa al rimpatrio perché dal 2018 in ***** era in atto una riforma che garantiva copertura sanitaria ad oltre mezzo miliardo di persone;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il M. affidato a quattro motivi;

– il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 8 e 13, anche in relazione al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5, per avere la Corte di merito tratto il giudizio di non attendibilità di M.L.N. adducendo asserite incongruenze non emerse nel procedimento. In particolare, il ricorrente avrebbe offerto risposte del tutto coerenti nel corso dei diversi colloqui, riconducibili ad un unico nucleo rimasto invariato, e l’unica asserita imprecisione sarebbe relativa alle vicende dell’allontanamento dal villaggio, definita capziosa. Inoltre – sempre ad avviso del ricorrente – la Corte territoriale trincerandosi dietro alla valutazione di non credibilità, avrebbe omesso ogni istruttoria dalla quale sarebbe emerso che la situazione oggettiva dell'***** era caratterizzata dall’inaffidabilità delle forze di polizia e giudiziarie, della corruttibilità dei funzionari statali, della violenza e degli abusi commessi da questi ultimi nella totale impunità.

La censura è inammissibile. La Corte distrettuale ha espresso le ragioni poste a fondamento del mancato riconoscimento di ogni forma di protezione.

In particolare, ha giudicato il racconto del ricorrente inattendibile per non avere mai riferito alcuna circostanza in ordine alle modalità delle aggressioni subite, dal momento che trattasi di vicenda prettamente privata, anche perché non giustificava neanche il titolo di ingresso in Francia nel 2014, né le ragioni del rigetto della propria domanda di protezione internazionale ivi presentata. D’altro canto sarebbe stato onere del richiedente dimostrare che l’odierna richiesta si fondava su circostanze sopravvenute rispetto a quelle per le quali le autorità francesi avevano rigettato l’istanza. Ha, inoltre, escluso che le vicende narrate fossero idonee ad integrare una persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento della protezione internazionale e valutandole nel merito ha in ogni caso ritenuto che le stesse esulassero dall’ambito di applicazione del riconoscimento della protezione internazionale non essendo l'***** un paese interessato da un conflitto armato interno o internazionale.

Del resto la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (da ultimo: Cass. n. 3340 del 2019; Cass. n. 20580 del 2019).

Rispetto all’indicato principio, che risponde a consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità, fermo ogni altro profilo di critica, la censurabilità del racconto sub specie del vizio motivazionale, nella sua tendenziale insindacabilità nell’ambito del giudizio di legittimità, deve in ogni caso, ove introdotta, farsi carico di segnalare, nei termini sopra indicati, quale fatto sia stato omesso, nella sua decisività, nella valutazione del giudice del merito, non potendo limitarsi a denunciarne genericamente l’omissione.

I giudici di merito, infatti, hanno definito il racconto caratterizzato da estrema vaghezza e non suffragato da documentazione idonea ad avvalorare le vicende narrate, soprattutto quanto alle aggressioni del vicino (come una denuncia presentata alle forze di polizia). Il ricorrente censura detta affermazione assumendone la contraddittorietà, senza però spiegarne le ragioni ovvero allegando fatti di rilevanza in ordine alla ricorrenza della credibilità, difettando, così, la doglianza di cui trattasi di sufficiente specificità e di autosufficienza.

Parimenti inammissibili sono le allegazioni operate con il secondo profilo del motivo, che ostendono, pur sotto l’apparente veste di un preteso errore di diritto, una critica puramente motivazionale, non più rappresentabile alla stregua del novellato disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quale idoneo vizio cassatorio, e sollecitano perciò una rivisitazione delle risultanze di fatto della vicenda e del giudizio riguardo ad esse enunciato dal giudice di merito, che ha inteso escludere le ragioni di concessione della misura richiesta dando, tra l’altro, atto insieme all’insussistenza di oggettivi fattori di rischio in caso di rimpatrio, rappresentando una situazione in *****.

Invero, alla stregua del dato normativo il richiedente la protezione internazionale è tenuto a presentare “tutti gli elementi e la documentazione necessari” a motivare la domanda medesima, il cui esame è poi destinato ad essere “svolto in cooperazione con il richiedente”, e cioè in un’ottica di sinergica collaborazione, e “riguarda tutti gli elementi significativi della domanda”, misurandosi con l’intero ventaglio dei requisiti rilevanti, siccome presentati dall’interessato, perché la domanda di protezione internazionale, nelle sue diverse forme, riconoscimento dello status di rifugiato o protezione sussidiaria, possa essere accolta (comma 1). Detto onere di presentazione degli “elementi” e della “documentazione” concerne, in specifico, oltre all’età, alla condizione sociale, se necessario anche dei congiunti, all’identità, alla cittadinanza, ai paesi e luoghi in cui il ricorrente ha soggiornato, le domande d’asilo pregresse, gli itinerari di viaggio, i documenti di identità e di viaggio, anche, e diremmo soprattutto, “i motivi della sua domanda di protezione internazionale” (comma 2). La latitudine degli oneri di allegazione e prova a carico del richiedente emerge altresì dal comma 3 della disposizione, dall’angolo visuale della valutazione della domanda di protezione internazionale, da effettuarsi su base individuale, e cioè in relazione alle circostanze come allegate dal richiedente, valutazione che deve estendersi a tutti i fatti pertinenti concernenti il Paese d’origine; alle persecuzioni o danni gravi che egli deve rendere noto di aver subito o di rischiare di subire; alla situazione individuale ed alle circostanze personali rilevanti al fine di verificare se gli atti indicati, come subiti o paventati, si configurino effettivamente come persecuzione o danno grave; alla condotta del richiedente, ove egli abbia operato al fine di creare le condizioni necessarie alla presentazione della domanda di protezione internazionale, e se ciò lo esponga a persecuzione o danno grave in caso di rientro nel Paese; all’eventualità che il richiedente possa far ricorso alla protezione di un altro Paese.

Ebbene, laddove l’art. 3 citato stabilisce che il richiedente “e’ tenuto a presentare… tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda”, si riferisce, come si premetteva, tanto agli oneri di allegazione (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso allegare, gli elementi dedotti a sostegno della domanda), quanto a quelli probatori (per il che il richiedente deve presentare, ed in tal senso produrre, la documentazione necessaria). E’ allora manifesto come le ragioni fondanti la domanda di protezione, sia sussidiaria sia umanitaria, debbano essere senz’altro anzitutto allegate dall’interessato.

Sicché, il richiedente ha il preciso onere di offrire agli organi del Paese al quale rivolge la domanda di protezione ogni elemento utile allo scrutinio di essa: e ciò egli deve fare in un’ottica di schietta collaborazione con tali organi, evidente essendo che la previsione normativa, laddove impone di procedere all’esame della domanda di protezione internazionale “in cooperazione con il richiedente”, richiede un atteggiamento collaborativo reciproco, giacché, sul piano della logica prima ancora che su quello del diritto, non è pensabile che la Commissione territoriale, come pure il giudice, possa cooperare, e cioè operare insieme, ad un richiedente che, al contrario, non offra la collaborazione dovuta.

Il principio è stato così massimato: la domanda di protezione internazionale non si sottrae all’applicazione del principio dispositivo, sicché il ricorrente ha l’onere di indicare i fatti costitutivi del diritto azionato, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli d’ufficio nel giudizio (cfr Cass. n. 19197 del 2015).

Una volta allegati, i fatti posti a sostegno della domanda di protezione internazionale vanno provati dal richiedente, sia pure entro speciali limiti, e con peculiari agevolazioni, come subito si vedrà: in linea di principio, cioè, il giudizio volto al riconoscimento della protezione internazionale, come si desume dalla già citata previsione che sollecita il richiedente a depositare la documentazione necessaria, non si sottrae, salvo quanto si dirà, all’applicazione delle regole generali dettate in ordine al riparto dell’onere probatorio dall’art. 2697 c.c., comma 1: con la conseguenza che, se la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale non sono provati, la domanda è da rigettare.

E difatti è ben possibile che il richiedente, dopo aver assolto l’ineludibile onere di allegare le circostanze poste a sostegno della domanda di protezione internazionale, sia talora in condizione altresì di comprovarne il fondamento; ma è ampiamente intuitivo che egli, proprio a cagione delle persecuzioni o danni gravi subiti nel Paese di provenienza, o anche solo paventati, possa non essere in grado di offrire la prova di dette circostanze: e tale è il contesto in cui la norma in esame tempera il principio dispositivo, disciplinando, tra l’altro, il dovere c.d. di cooperazione istruttoria.

Stabilisce difatti il menzionato art. 3, comma 5 che, qualora taluni elementi posti a sostegno della domanda di protezione internazionale non siano suffragati da prove, prove che dunque la norma ribadisce di porre di regola a carico dell’interessato, essi sono considerati veritieri ove possa ritenersi che il richiedente, oltre ad essersi attivato tempestivamente per la proposizione della domanda, abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla e, così, abbia offerto tutti gli elementi pertinenti in suo possesso ed abbia fornito una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi ovvero abbia fornito dichiarazioni coerenti e plausibili e non in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone, e risulti altresì, in generale credibile.

Tale disposizione, è stato detto in una nota decisione che ha enucleato il c.d. dovere di cooperazione istruttoria, “affida all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, con la possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale” (Cass., Sez. Un., 17 novembre 2008 n. 27310).

Accanto al c.d. dovere di cooperazione istruttoria, peraltro, la norma contempla un ulteriore aspetto tale da comprimere il principio dispositivo, laddove consente altresì di porre a base del riconoscimento della protezione internazionale fatti che provati non sono, alla sola condizione che ricorrano le condizioni considerate dall’art. 3, comma 5 in esame.

Facendo il punto di quanto finora si è detto, è evidente, da un lato, che l’attenuazione del principio dispositivo della la c.d. “cooperazione istruttoria” si collochi non dal versante dell’allegazione, ma esclusivamente da quello della prova, dacché l’allegazione deve essere adeguatamente circostanziata; dall’altro lato, che il dovere di cooperazione istruttoria, collocato esclusivamente dal versante probatorio, trova per espressa previsione normativa un preciso limite tanto nella reticenza del richiedente (in ciò risolvendosi l’omissione di uno sforzo ragionevole per circostanziare i fatti) quanto nella non credibilità delle circostanze che egli pone a sostegno della domanda. Si tratta quindi di deficienze, reticenza e non credibilità, parimenti riferibili al quadro delle allegazioni, di guisa che, intanto si concretizza il dovere di cooperazione istruttoria, in quanto si sia in presenza di allegazioni precise, complete, circostanziate e credibili, e non invece generiche, non personalizzate, stereotipate, approssimative e, a maggior ragione, non credibili.

In altri termini, compete al richiedente innescare l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria, per cui egli non incontra difficoltà alcuna ove la sua narrazione sia vera e reale (cfr Cass. n. 15794 del 2019). La soggezione del richiedente alla valutazione di credibilità, per lo scopo dell’innesco del c.d. dovere di cooperazione istruttoria, lungi dal comprimere o limitare l’esercizio del diritto alla protezione internazionale, ne costituisce viceversa intensa agevolazione: a fronte della regola generale dettata dal citato art. 2697 c.c., in forza del quale l’attore è onerato della prova dei fatti costitutivi della domanda, la speciale disciplina dettata in materia di protezione internazionale offre al richiedente, come si è visto, non solo di cooperare con lui nella ricerca di quelle prove che egli non abbia potuto offrire, ma finanche di credergli pur in difetto di prova.

Nel provvedimento impugnato, il collegio giudicante ha puntualmente scongiurato l’eventualità di un concreto rischio di persecuzione, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ed ha verificato l’assenza di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica del ricorrente per quanto sopra esposto, ragioni non condivise dal ricorrente;

– con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b) per cui il giudice non avrebbe non potuto tenere conto del grave danno determinato, tra l’altro, dalla minaccia grave ed individuale alla vita e alla persona in ipotesi di rimpatrio derivante dalla violenza indiscriminata e dagli abusi di legalità esistenti in *****.

Anche la seconda censura non può trovare ingresso.

Nei giudizi di protezione internazionale resta fermo per vero il dovere del richiedente di allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessaria a motivare la domanda anche quanto alle condizioni socio-politiche del Paese d’origine del richiedente ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c), estremo che, in quanto assoggettato alla “integrazione” istruttoria officiosa, che il giudice del merito è tenuto a svolgere tramite l’apprezzamento di tutte le informazioni, generali e specifiche, di cui si dispone pertinenti al caso ed aggiornate al momento dell’adozione della decisione, non può essere, come tale, affidato in via esclusiva a quell’iniziativa (v. Cass. n. 13897 del 2019).

Ciò posto, la Corte distrettuale con l’impugnato decreto ha congruamente valorizzato la situazione attuale del Paese di origine che in quanto tale non osta al rientro del richiedente, in difetto della individualizzazione del rischio (v. pag. 3 del provvedimento impugnato). Il giudice di merito, infatti, ha evidenziato che il richiedente proviene dal *****, zona pacificamente non caratterizzata da episodi di violenza generalizzata o di matrice terroristica.

A fronte di tale accertamento, le circostanze indicate dal ricorrente’) non risultano decisive in quanto non vengono dedotte situazioni di violenza idonee ad integrare il presupposto previsto dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14.

Il ricorrente, infatti, si limita a richiamare la giurisprudenza di merito, asserendo che è da tempo orientata a riconoscere tale forma di protezione ai cittadini ***** in virtù della situazione di instabilità del Paese.

Questa Cote ha affermato, anche di recente, che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, ex art. 14, la nozione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato, interno o internazionale, dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass. 2 ottobre 2019 n. 24647).

La situazione denunciata in ricorso, pur nella perturbata sua consistenza, non vale ad integrare l’indicato estremo e a censurare in modo concludente la decisione, per essere state esclusi rilievi ad evidenze di sostegno di ipotesi legittimanti il riconoscimento della protezione sussidiaria in tutte le fattispecie di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14.

Alla luce degli enunciati principi, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721).

In materia di protezione internazionale, peraltro, qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018).

Inoltre la censura non tiene conto in alcun conto la ulteriore ratio posta a fondamento della decisione e che si basa sulla mancata indicazione di nuove circostanze sopravvenute rispetto a quelle per le quali le autorità francesi avevano rigettato la sua precedente richiesta;

– con il terzo motivo il ricorrente lamenta – a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – la violazione delle norme di diritto relative al riconoscimento della protezione umanitaria, in particolare del D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3 e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, assumendo che il corretto inquadramento della situazione di insicurezza dell'*****, ad una corretta comparazione con il contesto di vita in Italia, avrebbe comunque dovuto condurre al riconoscimento della tutela umanitaria, perché egli si ritroverebbe nel Paese di origine privo del riconoscimento di risorse economiche e del godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa.

Il motivo è generico e come tale inammissibile nel carattere meramente assertivo e descrittivo assolto dal medesimo che richiama contenuti di norme e principi di loro interpretazione non puntualizzati in relazione al caso concreto.

A siffatto rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Il ricorrente denuncia la violazione dell’istituto senza indicare al di là della provenienza, l'*****, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta a fronte di un sistema a tutele tipizzate.

Inoltre nessun dirimente rilievo dispiega, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, neanche l’esistenza di un rapporto di lavoro. Peraltro, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Anche quanto alla tutela delle precarie condizioni di salute del ricorrente, il giudice distrettuale ha sottolineato che la malattia di cui era affetto, refertatqcon certificato i1 diabete mellito, non era ostativa al rimpatrio perché dal 2018 in ***** era in atto una riforma che garantiva copertura sanitaria ad oltre mezzo miliardo di persone.

Del resto la comparazione risulta essere stata compiuta dal giudice di merito, quanto meno per relationem (al riguardo v. pag. 4 del provvedimento impugnato), e la censura dimostra non cogliere la ratio decidendi per avere il giudice dato atto di altra richiesta di protezione, respinta dalle autorità francesi, e la ulteriore domanda non presentava alcun elemento nuovo, neanche allegato, come previsto dall’art. 29 D.Lgs. cit.;

con il quarto ed ultimo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è lamentata la violazione o la falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, commi 1 e 1.1, come richiamato dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 32, comma 3 ovvero del diritto d’asilo in telazione all’art. 10 Cost., comma 3, giacché dal resoconto ECHO relativo all'***** del maggio 2017 emergerebbe la minaccia grave alla vita o alla persona per essere il ricorrente una persona malata.

La censura è inammissibile in quanto diretta a sollecitare un riesame delle valutazioni riservate al giudice del merito, che del resto ha ampiamente e rettamente motivato la statuizione impugnata, esponendo le ragioni del proprio convincimento, con autonoma ratio decidendi, non impugnata dal ricorrente che si è limitato a criticare la ritenuta abrogazione dell’istituto in questione.

Quanto al diniego della protezione umanitaria, occorre precisare, in via preliminare, con riguardo alla disciplina applicabile ratione temporis, che la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari presentata, come nella specie, prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, deve essere scrutinata sulla base della normativa esistente al momento della sua presentazione (Cass. S.U. n. 29459/2019).

Tanto premesso, il ricorrente censura la valutazione della Corte territoriale sulla situazione generale dell'***** facendo riferimento generico alla normativa Eurounitaria in materia di tutela dei diritti dello straniero e si duole del mancato riconoscimento della dedotta sua vulnerabilità per motivi di salute, di nuovo senza confrontarsi con il percorso argomentativo di cui alla sentenza impugnata, limitandosi a dedurre genericamente la violazione di norme di legge, attraverso il richiamo alle disposizioni che assume disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata nel giudizio di merito.

La Corte di merito ha ritenuto, infatti, che non avesse significativa rilevanza la questione di salute, dando conto della situazione sanitaria generale in ***** dopo la riforma sanitaria avviata dal 2018, in base alle fonti di conoscenza indicate, escludendo la sussistenza di un pericolo concreto per il ricorrente, così compiutamente esercitando il dovere di cooperazione istruttoria ed effettuando un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato, come nella specie (Cass. n. 30105/2018).

Ciò posto, il ricorrente allega genericamente la propria situazione di vulnerabilità senza alcun riferimento individualizzante, limitandosi a richiamare la normativa di riferimento e alcune pronunce di questa Corte, nonché la situazione di povertà e di violazione dei diritti fondamentali dell'*****.

Il giudice distrettuale ha escluso la sussistenza di fattori soggettivi e oggettivi di vulnerabilità, rilevando, da un lato, che il richiedente è soggetto la cui patologia non presenta una situazione peculiare e, dall’altro lato, che in ***** è riscontrabile una vera e propria soluzione sanitaria a livello nazionale. Le doglianze svolte in ricorso, ancora una volta, non si confrontano con la motivazione del decreto impugnato.

Il fattore di integrazione lavorativa e sociale in Italia non può essere isolatamente considerato, diventando recessivo se difetta la vulnerabilità, come nella specie, ed inoltre la situazione del Paese di origine, in termini generali ed astratti, è di per sé inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. S.U. n. 29459/2019 citata, in conformità a Cass. n. 4455/2018).

In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 17 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Amministrazione che liquida in complessivi Euro 2.100,00 oltre a spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 31 agosto 2021

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472