LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. VARRONE Luca – Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 14737/2016 proposto da:
P.G., rappresentata e difesa dall’Avvocato ETTORE GHELARDI, per procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.E., R.P., R.F., R.M. e R.R., rappresentati e difesi dall’Avvocato SARA MINUTO, per procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 307/2016 della CORTE D’APPELLO DI GENOVA, depositata il 16/3/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 24/3/2021 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.
FATTI DI CAUSA
Il tribunale di Savona, con sentenza del 2009, in accoglimento della domanda proposta dall’attore R.E., ha dichiarato l’insussistenza dei diritti vantati dalla convenuta P.G. sulla canna fumaria di proprietà dell’attore in quanto accessoria dell’immobile di proprietà dello stesso e l’ha, per l’effetto, condannata alla cessazione delle turbative e alla restitutio in integrum della canna fumaria. Il tribunale ha rigettato, invece, la domanda dell’attore di risarcimento del danno nonché le domande riconvenzionali proposte dalla convenuta per l’accertamento dell’acquisto della canna fumaria per usucapione ovvero della sua condominialità.
Il tribunale, in fatto, ha esposto che: – R.E. è proprietario del locale al piano interrato facente parte del complesso industriale del Consorzio Artigiano Vadese in Vado Ligure; – P.G. è la proprietaria dell’intero piano sovrastante; – la canna fumaria, costituita da una condotta in cemento-eternit rivestita di muratura, si diparte dal locale di proprietà dell’attore; – la convenuta, nel *****, in occasione di lavori di ristrutturazione del suo immobile, aveva praticato un foro nella predetta canna inserendovi una tubazione.
P.G. ha proposto appello cui l’attore ha resistito.
Il giudizio d’appello, interrotto per la morte dell’attore, è stato riassunto nei confronti dei suoi eredi, e cioè C.E., R.P., R.F., R.M. e R.R., i quali si sono costituiti.
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.
La corte, in particolare, dopo aver escluso l’ammissibilità dei motivi d’appello nuovi o diversi contenuti negli scritti difensivi conclusionali in quanto tardivi, ha evidenziato che la domanda dell’attore concerneva l’accertamento della violazione della sua proprietà sulla canna fumaria ad opera della convenuta e che la domanda della convenuta aveva ad oggetto l’accertamento della sua proprietà esclusiva della canna fumaria per usucapione ovvero della condominialità della stessa onde poterla utilizzare quale condomina; ed, una volta esclusa la necessità di integrare il contraddittorio con gli altri condomini sul rilievo che le azioni a tutela della comproprietà possono essere proposte da ciascun condomino e non richiedono la partecipazione di tutti, ha ritenuto che la prima questione da esaminare riguardava l’accertamento della proprietà della canna fumaria per cui è causa.
La corte, sul punto, dopo aver accertato, in fatto, che: l’edificio, originariamente unico, è stato poi frazionato, per quanto importa, con la vendita del piano interrato all’attore, nel quale si trovava la caldaia e la connessa canna fumaria, e del piano sovrastante alla convenuta; – al momento dell’acquisto da parte della convenuta e dell’attore, come si evince dalla consulenza tecnica depositata dall’appellante, la canna fumaria, già esistente fino al tetto, era collegata con l’immobile dell’attore ma non con quello della convenuta ed era, quindi, preesistente rispetto all’innesto operato dalla convenuta; – la convenuta, quindi, ha acquistato un immobile attraversato dalla canna fumaria, che ad esso non era collegata e che si dipartiva dal piano sottostante; ha ritenuto che le clausole “gemelle” contenute nei rispettivi atti d’acquisto delle parti, secondo cui gli immobili sono stati acquistati nello stato di fatto in cui si trovano, dovevano essere intese nel senso che essi sono stati acquistati “nello stato di fatto per cui quello del R. era collegato alla canna fumaria giungente fino al tetto e quello della P. era attraversato da essa senza che vi fosse alcun collegamento”e che tale situazione è riprodotta nelle planimetrie allegate ai rogiti (che, in quanto espressamente richiamate negli atti d’acquisto, hanno valore descrittivo degli immobili), essendo la canna fumaria riprodotta solo in quella allegata all’atto d’acquisto del R. perché solo al suo immobile era collegata mentre nessuna indicazione della presenza della canna fumaria vi è nel rogito della P. non essendo collegata all’immobile acquistato.
La corte, quindi, condividendo il giudizio espresso sul punto dal tribunale, ha ritenuto che la canna fumaria era posta “al servizio della sola unità immobiliare acquistata dal R. e con essa da lui acquistata” senza, peraltro, che possa rilevare il fatto che non vi sia stata l’indicazione della caldaia tra i confini di cui all’atto d’acquisto del P. e alle planimetria allegata, poiché, contrariamente a quanto affermato dall’appellante, non si tratta di una pertinenza, e cioè di un vano specifico posto al servizio dell’unità immobiliare dell’attore, ma di un mero impianto accessorio posto al servizio dell’immobile, indipendentemente dalle dimensioni e dalla struttura in muratura o meno dello stesso.
La corte d’appello, inoltre, ha escluso la natura condominiale della canna fumaria. Sul punto, dopo aver osservato che le canne fumarie non sono comprese nell’elencazione specifica delle parti condominiali contenuta nell’art. 1117 c.c. e che rientrano nella previsione generale di cui al n. 3 dello stesso articolo, secondo cui sono comuni le opere, le installazioni e i manufatti di qualunque genere che servono all’uso o al godimento comune, ha ritenuto che la situazione di fatto, come sopra descritta, deponeva chiaramente nel senso che si tratta di un accessorio non più suscettibile di uso condominiale all’epoca dell’acquisto dell’immobile da parte della P. e del R. perché non più collegato ad un impianto unitario di riscaldamento ma soltanto a quello della porzione immobiliare acquistata dall’attore, come, del resto, confermato dal fatto che a servizio delle altre unità immobiliari del fabbricato esistono altre e distinte canne fumarie. Non rileva, quindi, ha aggiunto la corte che, quando l’edificio era unico, la canna fumaria era collegata alla centrale termica dell’intero stabile perché tale situazione è venuta meno con il frazionamento dello stesso, e ciò già al momento dell’acquisto della convenuta. In definitiva, ha concluso la corte, la canna fumaria in questione, quando l’edifico fu frazionato dal precedente unico proprietario, era stata posta al servizio dell’immobile poi venduto all’attore, e ciò è accaduto già prima dell’acquisto da parte da parte della convenuta, che acquistò il primo piano già attraversato dalla conduttura dipartentesi dal sottostante appartamento del R., che ha, quindi, il diritto di mantenerla.
La corte, in conclusione, ha ritenuto che dovesse essere accolta la domanda dell’attore di accertamento della sua proprietà sulla canna fumaria e, al contempo, rigettata la domanda di negatoria servitutis proposta dalla convenuta, al pari di quelle subordinate di accertamento della proprietà condominiale e di usucapione, non avendo la P. mantenuto l’allaccio alla canna fumaria per il tempo necessario per il suo compimento, confermando, infine, non avendo la convenuta contestato l’allaccio e in difetto di titolo al suo utilizzo, la condanna della stessa alla remissione in pristino.
P.G., con ricorso notificato il 9/6/2016, ha chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente notificata in data 11/4/2016.
C.E., R.P., R.F., R.M. e R.R. hanno resistito con controricorso.
La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando: a) la violazione/falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 949 e 948 c.c., in relazione agli artt. 99,101 c.p.c. e art. 163 c.p.c., n. 3; b) la violazione dell’art. 345 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5 c.p.c.; c) la violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4; d) la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, della normativa sostanziale e processuale, in connessione con la violazione dell’art. 2097 c.c.; e) la violazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, artt. 434 e 437 c.p.c.; f) l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione e la mancanza di motivazione alla luce dell’art. 132 c.p.c., n. 4; ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha accolto la domanda dell’attore, che ha qualificato come azione di accertamento della proprietà, senza, tuttavia, considerare che la domanda proposta da quest’ultimo doveva essere configurata come un’azione personale di restituzione personale e non, come supposto dallo stesso attore, quale azione di negatoria servitutis ai sensi dell’art. 949 c.c., di cui mancano tutti i presupposti di legge per la sua proposizione, e tanto meno, come ritenuto dalla corte d’appello, quale azione di mero accertamento della proprietà ai sensi dell’art. 948 c.c..
1.2. L’azione negatoria, infatti, ha osservato la ricorrente, costituisce uno strumento posto a tutela del diritto di proprietà, il cui esplicito riconoscimento/accertamento, quale inevitabile presupposto/condizione imprescindibile della stessa, doveva essere, quindi, contenuto e richiesto in una precisa domanda giudiziaria la quale, invece, risulta del tutto omessa. Il R., infatti, non ha proposto una specifica e formale domanda di accertamento della proprietà con la conseguenza che il rilievo della P. in ordine a tale insanabile carenza non può che costituire, ad onta di quanto ritenuto dalla corte d’appello, che invece ne ha dichiarato la tardività, una mera difesa, rilevabile in ogni tempo anche d’ufficio. La convenuta, del resto, sin dalla comparsa di risposta depositata nel giudizio di primo grado aveva chiesto di dichiarare il difetto di legittimazione attiva e, comunque, la carenza della titolarità in linea attiva del rapporto controverso da parte dell’attore. L’azione del R., quindi, non essendo stata accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto reale, esorbita dai limiti della negatoria servitutis.
1.3. D’altra parte, ha proseguito la ricorrente, a fronte delle domande riconvenzionali proposte dalla convenuta, che determinavano un conflitto di titoli di proprietà, il R. aveva l’onere di formulare, in reconventio reconventionis, un’esplicita e tempestiva domanda diretta all’accertamento della sua proprietà sulla canna fumaria. L’attore, invece, nonostante l’eccezione di difetto di legittimazione attiva sollevata dalla convenuta, non ha proposto domanda di accertamento della sua proprietà che, invece, la corte d’appello, in violazione dell’art. 112 c.p.c., ha ritenuto di rinvenire nei relativi atti difensivi, nei quali, al contrario, tale azione non è mai stata concepita né tampoco postulata dallo stesso.
1.4. Del resto, ha aggiunto la ricorrente, quando l’attore esperisce un’azione reale volte ad ottenere la tutela di facoltà ricomprese nel diritto stesso o di diritti ad esso accessori, e non sia nel possesso dell’immobile, l’accertamento del preteso diritto di proprietà, ove contestato dal convenuto che sia nel possesso del bene e se ne dichiara a sua volta proprietario, assume una connotazione recuperatoria analoga a quella della rivendica, da assolvere con la dimostrazione di una seria ininterrotta di trasferimenti fino all’acquisto a titolo originario o all’acquisto per usucapione. Il R., invece, ha solo esposto di essere il proprietario della canna fumaria in forza del titolo di acquisto, senza peraltro chiedere il relativo accertamento, ma non ha allegato di essere in possesso della res in questione, attribuendolo, invece, alla convenuta attraverso la querela della sua occupazione senza titolo. La P., invece, si era affermata proprietaria e possessore del bene, tant’e’ che ne ha dedotto l’usucapione, senza che tale situazione di fatto sia stata contestata dal R., che non ha contestato né la disponibilità materiale del bene né la sua qualificazione in termini di detenzione, per cui, essendosi venuto a trovare nella stessa posizione dell’agente in rei vindicatio, avrebbe avuto l’onere di offrire la relativa probatio diabolica.
1.5. La corte d’appello, inoltre, quando, in violazione dell’art. 112 c.p.c., ha arbitrariamente affermato che il R. avesse proposto una domanda di accertamento del suo diritto di proprietà sulla res in questione, ha anche omesso di considerare che l’attribuzione della proprietà in capo al R., che non aveva allegato di essere in possesso della res in questione, poteva essere inquadrata, tanto più a fronte della domanda di condanna della controparte alla rimozione di un’opera giudicata abusiva, solo nell’ambito della rei vindicatio, che comporta una probatio diabolica, per cui la mera produzione del titolo di compravendita (peraltro inopponibile alla convenuta) non poteva costituire un titolo e/o una ragione giuridica idonea ad assegnargli la proprietà.
1.6. La corte d’appello, in definitiva, omettendo di valutare la mancanza dei presupposti dell’azione negatoria proposta dall’attore ai sensi dell’art. 949 c.c., ed accolta dal tribunale, che come tale l’aveva qualificata, l’ha sostituita ultra petita e senza alcuna motivazione con una pronuncia di accertamento della proprietà, senza, peraltro, considerare che, al contrario, l’azione proposta dall’attore, in ragione dei fatti dedotti (e cioè l’occupazione senza titolo e la mancanza della domanda di accertamento della proprietà), neppure può essere ricondotta nell’ambito dell’art. 949 c.c..
1.7. In realtà, ha concluso la ricorrente, l’azione proposta dall’attore è un’azione di reintegrazione in forma specifica di natura personale in quanto non accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto reale, imprescindibile invece nella domanda di negatoria servitutis, la quale, peraltro, neppure è perseguibile poiché, avendo l’attore denunciato un’occupazione senza titolo della res, l’azione esperibile è solo quella di rivendicazione ex art. 948 c.c., che però il R. non ha mai proposto.
2.1. Il motivo, in tutte le censure in cui risulta articolato, è infondato.
2.2. Gli atti del giudizio di merito, per come riprodotti nel ricorso e nel controricorso oltre che nella sentenza impugnata, dimostrano, in effetti, che l’attore, assumendo inequivocamente di essere (e di essere sempre stato) nella disponibilità materiale della canna fumaria, della quale ha dedotto di essere l’esclusivo proprietario per averla acquistata quale impianto accessorio al locale interrato vendutogli con atto in data 27/11/1990, ha dedotto che la convenuta, proprietaria dell’intero piano sovrastante, nel 2003, in occasione di lavori di ristrutturazione del suo immobile, aveva praticato un foro nella predetta canna inserendovi una tubazione ed ha, quindi, domandato, tra l’altro, di accertare e dichiarare che sulla canna fumaria in questione non sussisteva alcun diritto della convenuta che gliene consentisse l’utilizzazione e, conseguentemente, di ordinare alla stessa di cessare le turbative del diritto di proprietà sulla canna fumaria, che determinano una riduzione delle sue potenzialità di utilizzo e comprimono il suo diritto al pieno ed esclusivo godimento, condannandola alla restitutio in integrum mediante la rimozione della tubazione ivi inserita ed al relativo ripristino. La convenuta, dal suo canto, ha domandato, in via riconvenzionale, di accertare la sua proprietà sulla canna fumaria, nella parte in cui la stessa attraversa il suo immobile, per averla acquistata insieme all’immobile con atto del 27/11/1990 ovvero, in via subordinata, per effetto di usucapione, sia breve, in ragione del titolo di acquisto idoneo, sia ordinaria, in ragione del possesso ininterrotto della stessa da parte sua o del suo dante causa.
2.3. La corte d’appello, (correttamente) ricostruito il thema decidendum nei termini sopra esposti, dopo aver accertato la proprietà esclusiva in capo all’attore della canna fumaria in questione, ha (evidentemente) rigettato la domanda riconvenzionale con la quale la convenuta aveva chiesto l’accertamento della sua proprietà individuale sulla canna fumaria, per la parte in cui la stessa attraversa l’immobile dalla stessa acquistato, in forza del titolo d’acquisto del locale al primo piano, accogliendo, con il rigetto dell’appello svolto sul punto dalla convenuta, la domanda di negatoria servitutis proposta dall’attore. La corte, in effetti, senza mai dubitare del fatto che l’attore avesse la disponibilità materiale della canna fumaria, del cui godimento pieno ed esclusivo aveva lamentato la turbativa ad opera della convenuta, ha ritenuto: innanzitutto, che tale canna fumaria, già al momento della costituzione del condominio, conseguente alla vendita del piano interrato all’attore e del piano sovrastante alla convenuta, era stata posta al servizio del solo immobile poi venduto all’attore, e che si trattava, quindi, di un impianto non suscettibile di uso condominiale perché non più collegato ad un impianto unitario di riscaldamento ma soltanto a quello della porzione immobiliare acquistata dall’attore; – in secondo luogo, che tale canna fumaria, posta “al servizio della sola unità immobiliare acquistata dal R.”, era stata “con essa da lui acquistata”: in tal senso deponendo tanto le clausole “gemelle” contenute negli atti d’acquisto in capo alle parti in causa, le quali, lì dove hanno previsto che gli immobili erano stati acquistati nello stato di fatto in cui si trovavano, dovevano essere intese nel senso che essi sono stati acquistati “nello stato di fatto per cui quello del R. era collegato alla canna fumaria giungente fino al tetto e quello della P. era attraversato da essa senza che vi fosse alcun collegamento”, quanto le planimetrie allegate ai rogiti (che, in quanto espressamente richiamate negli atti d’acquisto, hanno valore descrittivo degli immobili), essendo la canna fumaria riprodotta solo in quella allegata all’atto d’acquisto del R. perché solo al suo immobile era collegata mentre nessuna indicazione della presenza della canna fumaria vi è nel rogito della P. non essendo collegata all’immobile acquistato. Ed, in forza di tali accertamenti, ha ritenuto che la canna fumaria fosse di proprietà esclusiva dell’attore e che, non avendo la convenuta alcun titolo per utilizzarla, la stessa era tenuta al suo ripristino con la rimozione della tubatura che aveva innestato.
2.4. La sentenza, nei suoi termini essenziali, come sopra esposti, si sottrae con ogni evidenza alle censure svolte dalla ricorrente. Una volta che sia stata esercitata l’azione negatoria per far dichiarare l’inesistenza di un diritto di servitù su una cosa di proprietà dell’attore ed il convenuto eccepisca di essere il proprietario del bene che si assume gravato, oggetto del giudizio resta, infatti, l’accertamento della libertà del bene dagli altrui diritti mentre l’accertamento della proprietà del medesimo ha valore soltanto strumentale, per cui, non essendo la domanda volta al recupero del bene, l’onere della prova che grava sull’attore nel possesso del bene è (come inequivocamente ritenuto dalla corte d’appello) meno rigoroso che nell’azione di rivendica e la prova, in caso di insufficienza dei titoli di provenienza, può essere data con ogni mezzo ed anche con presunzioni (Cass. n. 2982 del 1999; Cass. n. 12166 del 2002). Nell’azione negatoria, in effetti, la titolarità del bene (che, pertanto, il giudice, specie se contestata, come nella specie, deve sempre accertare, sia pur in via incidentale, anche se la relativa domanda non sia stata espressamente proposta) si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia sicché la parte che agisce in giudizio non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendica, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido e ciò sul presupposto che l’azione non mira necessariamente all’accertamento dell’esistenza della titolarità della proprietà ma all’ottenimento della cessazione dell’attività lesiva, spettando, per contro, al convenuto l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore (Cass. n. 10149 del 2004, la quale ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva rigettato l’azione negatoria ritenendo la prova della proprietà non desumibile dalla scrittura privata con cui era stato permutato parte del terreno, né dal comportamento processuale del convenuto; conf., Cass. n. 4803 del 1992; Cass. n. 2838 del 1999; più di recente, Cass. n. 24028 del 2004; Cass. n. 1409 del 2007; Cass. n. 21851 del 2014, la quale ha ribadito il principio per cui, in tema di azione negatoria, poiché la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia, la parte che agisce in giudizio non ha l’onere di fornire la prova rigorosa della proprietà, come accade nell’azione di rivendica, essendo sufficiente la dimostrazione con ogni mezzo, anche in via presuntiva, del possesso del fondo in forza di un titolo valido, mentre incombe sul convenuto l’onere di provare l’esistenza del diritto di compiere l’attività lamentata come lesiva dall’attore: la Corte, in forza di tale principio, ha ritenuto che la sentenza impugnata, uniformandosi agli enunciati principi, aveva legittimamente ritenuto fornita dall’attore la prova del diritto di proprietà sullo scantinato per cui è causa in base alla scrittura privata con la quale il ricorrente aveva acquistato dietro corrispettivo tale immobile dal costruttore-proprietario). Solo se (ma, come visto, non è questo il caso) l’azione negatoria sia stata proposta da chi non abbia il possesso del bene, l’accertamento della proprietà, ove contestata dalla controparte che se ne assuma a sua volta titolare, soggiace allo stesso onere probatorio della rei vindicatio, di cui ha analogo effetto recuperatorio (Cass. n. 12091 del 2003). L’actio negatoria servitutis, d’altra parte, è ravvisabile non solo in caso di domanda diretta al mero accertamento dell’inesistenza della pretesa servitù ma anche se la domanda è volta, come quella proposta dall’attore, all’eliminazione della situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà realizzate dal medesimo, così da ottenere l’effettiva libertà del bene ed impedire che il potere di fatto del terzo, corrispondente all’esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l’acquisto per usucapione di un diritto reale su cosa altrui (Cass. n. 27405 del 2014; Cass. n. 27564 del 2014, per la quale l’actio negatoria servitutis può essere diretta sia all’accertamento dell’inesistenza di diritti vantati da terzi sia alla cessazione di turbative o molestie e, in tale ultima ipotesi, ove la turbativa o la molestia sia attuata mediante la realizzazione di un’opera, può anche determinare la condanna alla trasformazione o demolizione dell’opera stessa, ma non l’ordine di esecuzione di opere eccedenti la finalità dell’azione, che è quella di rimuovere una situazione comportante una menomazione del godimento del fondo oggetto del pregiudizio).
2.5. D’altra parte, se è vero, come ha evidenziato la ricorrente, che la domanda diretta ad ottenere la rimozione della situazione lesiva del diritto di proprietà ma non accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto reale, esorbita dai limiti della negatoria servitutis e può assumere la veste di azione di reintegrazione in forma specifica di natura personale se è intesa al ristabilimento di un’attività esercitata sulla base del diritto di proprietà, in quanto l’azione si fonda sul diritto di credito conseguente alla lesione del diritto reale (Cass. n. 884 del 2011; Cass. n. 7984 del 1991), è anche vero, però, che, in tal caso, la difesa del convenuto che, come nel caso in esame, pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a porre a carico dell’attore il più gravoso onere della prova (cd probatio diabolica) dell’azione di rivendicazione, potendo essere, al contrario, assolto, come in effetti è accaduto nel caso in esame, con qualunque mezzo, incluse le presunzioni (Cass. n. 884 del 2011, la quale ha confermato la sentenza con la quale il giudice di merito aveva condannato i convenuti a rimuovere i tubi che collegavano il ripostiglio di proprietà dell’attore con gli alloggi dei convenuti rigettando il motivo di ricorso con il quale questi ultimi si erano doluti del fatto che la corte di merito aveva ritenuto che l’azione proposta avesse natura personale pur essendo stata contestata la proprietà del bene: la Corte, in particolare, dopo aver evidenziato che l’attore si era, in effetti, limitato a richiedere la rimozione della situazione lesiva posta in essere da terzi a danno della sua proprietà, ha ritenuto corretta la qualificazione della natura personale dell’azione proposta sul rilievo che “la domanda diretta ad ottenere la rimozione di una situazione lesiva del diritto di proprietà, non accompagnata dalla contestuale richiesta di declaratoria del diritto reale, assume la veste dell’azione di reintegrazione in forma specifica di natura personale” con la conseguenza che, in tal caso, la prova della proprietà può essere fornita dall’attore con qualunque mezzo, incluse le presunzioni, mentre al convenuto che deduca l’esistenza del diritto di compiere l’attività lamentata come lesiva, spetta di offrire la relativa dimostrazione: “contrariamente a quanto sostegno i ricorrenti, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti. Infatti, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta; per l’altro, una conclusione di segno opposto condurrebbe alla inammissibile conseguenza di ritenere la semplice contestazione del convenuto strumento processuale idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, con stravolgimento della difesa predisposta in relazione alla diversa azione proposta, una prova ben più onerosa – la probatio diabolica della revindica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta”; cfr. Cass. n. 4416 del 2007; Cass. n. 1929 del 2009; Cass. n. 26003 del 2010). Il rilievo svolto sul punto dalla ricorrente, pertanto, a fronte dei fatti dedotti e della domanda proposta dall’attore nonché della pronuncia concretamente adottata dal giudice di merito, che l’ha condannata alla restitutio in integrum della canna fumaria dopo averne accertato la proprietà esclusiva in capo al R. sulla base del suo titolo d’acquisto risulta, evidentemente, sfornito di qualsivoglia interesse concreto.
3.1. Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando: a) la violazione/falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 1117,2643 e 2644 c.c., in connessione con gli artt. 948 e 949 c.c., nonché gli artt. 1362,1363,1364 e 1458 c.c.; b) l’omesso/travisato esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, con motivazione illogica, contraddittoria e antigiuridica, ha rigettato la domanda della convenuta volta a far dichiarare che la canna fumaria in questione è di proprietà condominiale o comunque comune e che, dunque, l’uso che la stessa ne avrebbe eventualmente fatto, e cioè la collocazione di una tubazione, è legittimo.
3.2. Così facendo, infatti, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha considerato, per un verso, che la P. aveva acquistato la proprietà dell’immobile con scrittura privata autenticata in data 27/11/1990 e, per altro verso, che tale titolo di acquisto è stato trascritto in data 5/12/1990 al n. reg.ord. n. 9943, laddove, al contrario, il titolo di acquisto dell’immobile da parte dell’attore è costituito dalla scrittura autenticata in data 27/11/1990 ma trascritta in data 5/12/1990 al reg.ord. n. 9950. Il titolo d’acquisto del R., quindi, in quanto trascritto successivamente a quello della convenuta, e’, nei confronti di quest’ultima, inopponibile ai sensi dell’art. 2644 c.c., per cui, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1117 c.c., l’attore non può vantare diritti di proprietà o di altra sorta rispetto ai beni che, come la canna fumaria e lo stesso locale caldaia, in difetto di riserva di proprietà in capo al proprietario unico dell’intero edificio, sono diventati comuni, trattandosi di beni che, fin dall’origine e insieme, hanno avuto carattere e rapporto accessorio con l’intero caseggiato e non con una proprietà individuale.
3.3. La canna fumaria, infatti, ha proseguito la ricorrente, che ha sviluppo iniziale all’altezza del locale caldaia dove è situato l’impianto di riscaldamento centralizzato, non è stata certo posta in opera oggettivamente e funzionalmente per l’utilità di una sola proprietà privata, sia appartamento o di diversa destinazione, bensì a servizio oggettivo e funzionale per l’utilità generale dell’intero plesso edilizio, rappresentato quanto meno dell’edificio in questione. D’altra parte, in mancanza di un titolo contrario a carattere convenzionale e necessariamente scritto, vale a dire il primo atto di frazionamento con il quale il venditore abbia avocato a sé tali beni e non certo la compravendita in favore del R., i locali per il riscaldamento centralizzato sono compresi, al pari delle installazioni che servono per il riscaldamento, come la canna fumaria, nell’elenco dei beni condominiali contenuto nell’art. 1117 c.c., nel testo in vigore ratione temporis, a prescindere dal fatto che la destinazione all’uso comune sia venuta per qualche motivo a cessare. Non esiste, infatti, alcuna prova che il locale centralizzato, al momento in cui l’unico proprietario ha costituito il condominio con la vendita della prima frazione immobiliare in favore della P., che è stata trascritta per prima, fosse andato in disuso ed abbia definitivamente perduto la sua destinazione, per cui, indipendentemente dall’uso o meno, il locale caldaia e la canna fumaria erano, a norma dell’art. 1117 c.c., parti comuni dell’edificio, come, del resto, è previsto dalla clausola 3 del relativo atto d’acquisto, dove è stabilito che “tutte le parti da ritenersi comuni per legge e/o uso e/o destinazione ubicate nei singoli edifici sono condominiali ai sensi dell’art. 1117 c.c., solo tra i proprietari dell’edificio stesso dove sono ubicate”. Pertanto, ha concluso la ricorrente, poiché con la vendita in favore della P., che ha costituito il condominio, l’originario proprietario non si è riservato la proprietà del locale caldaia e della canna fumaria, questi beni sono diventati comuni e non potevano essere dallo stesso trasferiti in proprietà esclusiva all’attore.
3.4. D’altra parte, ha proseguito la ricorrente, il titolo della P. non accenna minimamente al fatto che la proprietà acquistata dalla stessa soffra di riduzione o decrementi, sia nella libertà che nella grandezza, in ragioni di pesi reali o servitù in favore del R., così come il titolo del R. non contempla, tanto nel suo testo scritto, quanto nelle schede catastali allegate, il riconoscimento di alcun diritto che consenta alla porzione immobiliare da lui acquisita di occupare verticalmente lo spazio posto nell’area dell’immobile acquistato dalla P. per cui non può dirsi costituita, tanto più con una vendita posteriormente trascritta, alcuna servitù in favore del R. e in danno della proprietà della convenuta.
3.5. Ne’, del resto, ha concluso la ricorrente, può rilevare il fatto che il titolo contrario può essere costituito anche dalla destinazione particolare di un bene o dell’impianto al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari dell’edificio poiché, nel caso in esame, il locale caldaia con la canna fumaria, quale bene pattiziamente condominiale perché così concordato nell’atto costitutivo del condominio, non è accessoria a null’altro che all’intero condominio trattandosi, nel loro insieme, dell’indispensabile strumento per il servizio di riscaldamento a beneficio dell’intero stabile.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. La corte d’appello, come visto, ha ritenuto di escludere che la canna fumaria fosse oggetto di proprietà condominiale sul rilievo, in fatto, che, all’epoca dell’acquisto dei rispettivi immobili da parte dell’attore e della convenuta, e, quindi, con l’atto costitutivo del condominio, la stessa costituiva un impianto accessorio non più suscettibile di uso condominiale perché non più collegato ad un impianto unitario di riscaldamento ma soltanto a quello della porzione immobiliare acquistata dall’attore: non rileva, quindi, ha osservato la corte che, quando l’edificio era unico, la canna fumaria era collegata alla centrale termica dell’intero stabile perché tale situazione, già al momento dell’acquisto della convenuta, era venuta meno. La corte, quindi (con accertamento che, in mancanza di un’espressa domanda dell’attore di accertamento della sua proprietà esclusiva sulla canna fumaria, che, come visto, l’ha dedotta solo quale titolo della sua legittimazione ad agire, non richiedeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini: ed invero, nel condominio degli edifici, qualora un condomino abbia agito, come nella specie ha fatto in via riconvenzionale la P., per l’accertamento della natura condominiale di un bene, non occorre integrare il contraddittorio nei riguardi degli altri condomini, se il convenuto si limiti ad eccepire la sua proprietà esclusiva senza formulare, tuttavia, un’apposita domanda riconvenzionale: Cass. SU n. 25454 del 2013), ha ritenuto che, quando l’edificio era stato frazionato dal precedente unico proprietario, la canna fumaria era (non già, semplicemente, inutilizzata, ma) posta al servizio esclusivo dell’immobile poi venduto all’attore.
4.3. Ora, come questa Corte ha ripetutamente affermato, la presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., postula la destinazione, delle cose elencate in tale norma, al godimento o al servizio del condomini, mentre viene meno allorché si tratti di un bene dotato di propria autonomia ed indipendenza e pertanto non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale. Tale presunzione, che è juris tantum, può essere, pertanto, vinta dal titolo contrario, con ciò intendendosi non solo l’ipotesi in cui il titolo convenzionale che dà luogo alla nascita del condominio includa, espressamente o implicitamente, un dato bene nell’ambito della proprietà esclusiva di uno dei condomini ma anche l’ipotesi in cui, all’atto del frazionamento dell’edificio, un dato bene, sia pur rientrante nell’ambito di quelli elencati nell’art. 1117 c.c., abbia una sua specifica destinazione a servizio di un appartamento in proprietà esclusiva. La presunzione prevista dall’art. 1117 c.c., deve, in effetti, sempre fondarsi su elementi obiettivi che rivelino l’attitudine funzionale del bene al servizio o al godimento collettivo, con la conseguenza che, quando il bene, per le sue obiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una sola parte dell’immobile, la quale formi oggetto di un autonomo diritto di proprietà, ovvero risulti comunque essere stato a suo tempo destinato dall’originario proprietario dell’intero immobile ad un uso esclusivo, in guisa da rilevare, in base ad elementi obiettivamente rilevabili, che si tratta di un bene avente una propria autonomia e indipendenza, non legato da una destinazione di servizio rispetto all’edificio condominiale, viene meno il presupposto per l’operatività della detta presunzione (cfr. Cass. n. 8119 del 2004; Cass. n. 24015 del 2004; Cass. n. 10073 del 2018). Una canna fumaria, quindi, anche se ricavata in parti comuni dell’edificio, non è necessariamente di proprietà comune, ben potendo appartenere ad uno solo dei condomini ove destinata a servire esclusivamente l’appartamento o il locale cui afferisce, costituendo detta destinazione titolo contrario alla presunzione legale di comunione (cfr. Cass. n. 9231 del 1991).
4.4. La corte d’appello, pertanto, lì dove ha escluso che la canna fumaria costituisse un bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c. e ne ha affermato l’appartenenza alla proprietà esclusiva dell’attore, ha fatto corretta applicazione dei principi esposti. La presunzione legale di comunione, regolata dagli artt. 1117 c.c. e segg., opera, in effetti, sin dal momento in cui, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto, si determina il frazionamento della proprietà di un edificio (Cass. n. 3852 del 2020) e la costituzione di una situazione di condominio (cfr. Cass. n. 1610 del 2021, in motiv.) di quelle parti del fabbricato che, per ubicazione e struttura, siano, in tale momento costitutivo del condominio, destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio stesso, salvo che dal titolo, come prima individuato, non risulti, in contrario, come risulta accertato in fatto dalla corte d’appello, una chiara ed univoca volontà di riservare esclusivamente ad uno dei condomini la proprietà di dette parti e di escluderne gli altri (Cass. n. 26766 del 2014).
5.1. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando: a) la violazione/falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 1350 c.c., n. 4, in connessione con gli artt. 1470,2644 e 549 c.c.; b) l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione e la violazione dell’art. 112 c.p.c.; c) la motivazione apparente, illogica, contraddittoria e antigiuridica, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, anche in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e artt. 115 e 116 c.p.c. e agli artt. 2719 e 1350 c.c.; ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, con motivazione apparente, incomprensibile e contraddittoria, una volta riconosciuta la proprietà in capo all’attore della canna fumaria, ha rigettato la domanda che, in via riconvenzionale, la convenuta aveva proposto per accertare l’insussistenza, in favore dello stesso attore, del diritto di servitù avente ad oggetto l’occupazione, attraverso la canna fumaria in questione, del corrispondente ambito spaziale dell’unità immobiliare acquistata dalla stessa convenuta.
5.2. Tale canna fumaria, infatti, ha osservato la ricorrente, attraversa in linea verticale la proprietà della convenuta e, dopo aver attraversato la proprietà di un altro condomino al terzo piano, sfocia sul lastrico solare, dando luogo all’occupazione della porzione di proprietà immobiliare della P. la quale, tuttavia, è legittima solo a fronte di un titolo scritto ad substantiam ai sensi dell’art. 1350 c.c., che legalizzi il peso che la proprietà della P. andrebbe a sopportare per effetto della corrispondente servitù.
5.3. Sennonché, ha aggiunto la ricorrente, esclusa qualsiasi contrattazione tra l’attore e la convenuta sul punto, il titolo d’acquisto del R. è stato trascritto dopo l’acquisto da parte della P. alla quale, pertanto, è inopponibile anche sotto il profilo della servitù.
6.1. Il motivo è infondato.
6.2. La proprietà, con conseguente uso e/o l’utilità, di un bene (nella specie il locale caldaia, dal quale si diparte la canna fumaria, di proprietà di un condomino) non comporta automaticamente il diritto di poter installare e mantenere nell’altrui proprietà (cioè nell’appartamento di altro condomino) strutture o manufatti (nella specie, un tratto di canna fumaria), ancorché necessari per il suddetto uso e/o utilità, in assenza di un titolo giuridico valido che legittimi la compromissione della proprietà altrui. Non e’, in effetti, sufficiente affermare che l’attore era proprietario della canna fumaria per dedurne che lo stesso era titolare anche del diritto di attraversare con un tratto della canna fumaria il locale soprastante della convenuta, essendo, invece, necessario accertare il titolo giuridico costitutivo di tale diritto, alla stessa opponibile, che lo stesso intendeva far accertare: vale a dire il diritto di servitù a carico dell’appartamento della convenuta. Il diritto di attraversare con un tratto di canna fumaria un appartamento di proprietà esclusiva di altro condomino, determinando a carico di tale immobile una limitazione durevole e stabile, dev’essere, invero, inquadrato nello schema della servitù prediale, la cui sussistenza (per usucapione, destinazione del padre di famiglia, convenzione, etc.) non può, evidentemente, desumersi dal semplice fatto di essere proprietario dell’immobile (presunto) dominante ovvero dall’utilità che a questo derivava dalla (asserita) servitù (cfr. Cass. n. 10455 del 2003).
6.3. La sentenza impugnata, li dove ha rigettato la negatoria servitutis proposta dalla convenuta semplicemente per aver escluso la condominialità della canna fumaria, non si pone, tuttavia, in contrasto con tali principi. La corte d’appello, infatti, ha accertato (pur senza qualificarlo espressamente) il titolo costitutivo della servitù che spetta all’attore sull’immobile della convenuta, vale a dire la destinazione del padre di famiglia, avendo, appunto, ritenuto, per un verso, che, quando l’edificio era unico, la canna fumaria era collegata alla centrale termica dell’intero stabile e, per altro verso, che, quando l’edifico è stato frazionato dal precedente unico proprietario, la canna fumaria, posta al servizio dell’immobile poi venduto all’attore, attraversava il locale al primo piano acquistato dalla convenuta, e che, in forza di tali fatti, l’attore aveva il diritto di mantenere la canna fumaria in siffatta collocazione.
6.4. La costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia (che attribuisce il diritto corrispondente per il solo fatto che ne sussistono tutti i relativi elementi costitutivi, a prescindere tanto dalla loro risultanza nei registri immobiliari, quanto dall’espressa indicazione degli stessi nel titolo d’acquisto dell’immobile servente) si configura, in effetti, tutte le volte in cui, come nel caso in esame, consta, mediante qualunque genere di prova, che due fondi (o, come nella specie, due unità immobiliari), attualmente divisi, sono stati posseduti dallo stesso proprietario e che questi ha posto o lasciato le cose nello stato dal quale, attraverso opere visibili e permanenti, risulta la servitù (artt. 1061 e 1062 c.c.). Ed è noto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, è apparente la servitù al cui esercizio risultino destinate opere permanenti e visibili dal fondo servente, in modo da renderne presumibile la conoscenza da parte del proprietario di quest’ultimo (cfr. Cass. n. 2290 del 2004; Cass. n. 321 del 1998). La precisazione per cui le opere permanenti devono essere “visibili dal fondo servente” non costituisce, tuttavia, una specificazione del concetto di apparenza, come tale insensibile a connotazioni puramente topografiche, come dimostra l’irrilevanza – costantemente affermata da questa Corte – del fatto che le opere siano collocate sul fondo servente, su quello dominante o sul fondo di un terzo (Cass. n. 7817 del 2006; Cass. n. 6357 del 1997). Questa Corte ha avuto, così, occasione di precisare che la visibilità delle opere deve far capo ad un punto d’osservazione non necessariamente coincidente con il fondo servente, essendo essenziale, allo scopo, che queste rendano obiettivamente manifesta, per chi possegga detto fondo, la situazione di asservimento (Cass. n. 2994 del 2004; Cass. n. 2225 del 1976). La visibilità dal fondo servente e’, dunque, un’ipotesi normale ma non per questo esclusiva, essendo, piuttosto, sufficiente che le opere destinate all’esercizio della servitù siano visibili – anche se solo saltuariamente ed occasionalmente (Cass. n. 6522 del 1993) – da qualsivoglia altro punto d’osservazione, anche esterno al fondo servente, purché il proprietario di questo possa accedervi liberamente, come nel caso in cui le opere siano visibili da una vicina via pubblica. Non rileva, quindi, che l’opera sia a vista né che il proprietario del fondo che si assume asservito abbia, in concreto, conoscenza dell’esistenza dell’opera. L’apparenza della servitù, senza la quale non è possibile la costituzione della servitù per destinazione del padre di famiglia, si identifica, in definitiva, nell’oggettiva e permanente sussistenza di opere suscettibili di essere viste (anche se, in concreto, ignorate) che, per la loro struttura e consistenza, inequivocamente denuncino il peso imposto su un fondo a favore dell’altro (Cass. n. 3556 del 1995). Ne’, infine, è necessario che l’apparenza, nei termini predetti, si estenda all’opera nel suo complesso: non e’, quindi, l’entità dell’opera che rileva ma le opere in quanto segno obiettivo ed inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù (Cass. n. 9371/1992; Cass. n. 5020/1996).
6.5. A fronte di tali principi, risulta, allora, evidente come, nel caso in esame, la canna fumaria, così come risulta in fatto accertato dalla sentenza impugnata, costituisca senz’altro un’opera oggettivamente visibile, anche solo in parte ed occasionalmente, dalla proprietaria dell’immobile servente (la quale, in effetti, in occasione di lavoro di ristrutturazione del suo locale, vi ha collocato una tubatura), che, di fatto, inequivocabilmente rivela, per struttura e consistenza, l’onere che grava sull’appartamento servente a vantaggio del locale sottostante (cfr. Cass. n. 14292 del 2017, la quale ha ritenuto la natura apparente di una servitù di tubatura idrica collocata al di sotto del pavimento dell’appartamento che fungeva da fondo servente, in quanto visibile dal proprietario di quest’ultimo in occasione dello svolgimento di lavori edili).
6.6. Ne’, del resto, risulta accertata (o, comunque, eccepita), la volontà contraria dell’originario proprietario. A norma dell’art. 1062 c.c., in effetti, la costituzione di una servitù per destinazione del padre di famiglia è impedita solo dalla contraria manifestazione di volontà del proprietario dei due fondi (che, nella specie, non è risultata in alcun modo) al momento della loro separazione. Tale contraria manifestazione di volontà non può, tuttavia, desumersi per facta concludentia ma deve rinvenirsi o in una clausola contrattuale con la quale si convenga esplicitamente di voler escludere il sorgere della servitù corrispondente alla situazione di fatto esistente fra i due fondi e determinata dal comportamento del comune proprietario o in una qualsiasi clausola il cui contenuto sia incompatibile con la volontà di lasciare integra ed immutata la situazione di fatto che, in forza della legge, determinerebbe la nascita della servitù (Cass. n. 6520 del 2008; Cass. n. 13534 del 2011; Cass. n. 4872 del 2018).
7.1. Con il quarto motivo, la ricorrente, lamentando: a) la violazione/falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, artt. 1158,1159 e 1117 c.c.; b) l’omesso esame, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione e la motivazione apparente, illogica, contraddittoria e antigiuridica, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda riconvenzionale, che la stessa aveva proposto, di accertamento dell’acquisto, per usucapione breve ovvero ordinaria, del segmento di canna fumaria compreso nell’immobile di sua proprietà sul rilievo che l’allaccio alla canna fumaria operato dalla convenuta non sarebbe stato mantenuto per tutto il tempo necessario per la maturazione dell’usucapione.
7.2. Così facendo, infatti, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello, ritenendo sussistenti tutti gli altri requisiti dell’usucapione, non ha, però, considerato che l’accertamento della qualità di proprietario doveva essere operato al momento della decisione e che l’usucapione invocata dalla convenuta poteva essere interrotta solo con una domanda da parte dell’attore volta al riconoscimento della sua proprietà, che non è stata, invece, proposta. Il R., infatti, ha proposto non un’azione di negatoria servitutis, che interrompe la prescrizione, ma un’azione personale di restituzione che, di per sé, non è idonea ad interrompere il decorso dell’usucapione.
7.3. D’altra parte, ha concluso la ricorrente, la domanda di usucapione, avendo effetti giuridici diretti anche nei confronti dell’intero condominio, trattandosi di bene comune, anche tale ente doveva essere ufficialmente chiamato in causa, quale litisconsorte necessario, ad integrazione del contraddittorio.
8.1. Il motivo è del tutto infondato.
8.2. La corte d’appello, con accertamento in fatto che la ricorrente non ha censurato per l’omesso esame di fatti decisivi la cui emergenza in giudizio risulti dalla stessa sentenza impugnata o dagli atti del processo, ha ritenuto l’insussistenza del requisito temporale richiesto per l’usucapione invocata dalla convenuta.
8.3. Deve, per contro, escludersi ogni rilievo alla invocata inidoneità delle azioni proposte dall’attore ad interrompere il decorso dell’usucapione. La questione, infatti, non risulta trattata dalla sentenza impugnata: ed è noto che, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 15430 del 2018), qualora una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto.
8.4. Per il resto, la Corte rileva che, nelle controversie che investono (come quella in esame) i diritti dei singoli condomini sulle parti (che sia assumono) comuni, ciascun condomino ha, in considerazione della natura dei diritti contesi, un autonomo potere individuale di agire e resistere a tutela dei suoi diritti di comproprietario pro quota che concorre, in mancanza di personalità giuridica del condominio, con quello dell’amministratore (Cass. SU n. 10934 del 2019), nei confronti del quale, pertanto, non può porsi alcuna questione d’integrazione del contraddittorio.
9. Il ricorso, per l’infondatezza di tutti i suoi motivi, dev’essere, quindi, rigettato.
10. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
11. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 24 marzo 2021.
Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2021
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